L'esemplare battaglia delle figlie (ultranovantenni) di un barone calabrese

DA OLTRE 35 ANNI IN LOTTA PER L’EREDITA’

Sono le figlie legittime ma non hanno diritto all’ eredità. Ida e Grazia Mazziotti, ultranovantenni, hanno combattuto per oltre 35 anni nelle aule di giustizia italiane. Sino alla Suprema Corte di Cassazione. Per essere prese in giro.

Questo pare essere l’amaro epilogo di una vita dedicata a fare emergere la giustizia, rivendicando i loro sacrosanti diritti ereditari.

Infatti, se la corte d’appello aveva, almeno in parte, dato loro ragione, la Cassazione ha cancellato quella sentenza «con tre righe». I giudici del Palazzaccio, secondo l’ avv. Paolo Gamberale che ha cercato di ottenere la revocazione straordinaria della scandalosa sentenza sono incorsi in una «svista». Un «errore di fatto», per rimediare al quale l’ordinamento, in sede civile, offre una unica possibilità, quella di ottenere l’ annullamento della decisione, ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c. 

La storia è una storia d’altri tempi. Che comincia alla fine dell’Ottocento in Calabria, a Saracena, provincia di Cosenza. Qui il barone Giovanbattista Mazziotti, avvocato, possiede circa 120 ettari di terreni e fabbricati rurali. È ricco e celibe, ma non è solo: ha una relazione con Tommasina Ferrari, sposata e abbandonata da un marito che è emigrato in America subito dopo il matrimonio e non è più tornato. In 40 anni, tanto dura il legame «clandestino», vengono al mondo tre maschi e tre femmine. Fra cui Grazia e Ida, oggi, sono le sole superstiti. «Il barone – ci racconta una nipote delle anziane signore, Vittoria Maradei – allevò e si curò dell’educazione e della crescita dei figli, ma non riconobbe mai la paternità». I rampolli ebbero il cognome del padre sparito, Di Pace, e quando Mazziotti morì, nel 1969, scoprirono che il patrimonio già non c’ era più. La metà era stata regalata al nipote (da parte del fratello) Domenico, anch’ egli avvocato, in occasione delle sue nozze: anno 1945. Altri 60 ettari erano stati ceduti, sotto forma di rendita vitalizia, al pronipote dodicenne, Carlo, nel 1958. Il testamento, per quel poco che restava, nominava erede universale ancora Domenico Mazziotti, l’attuale controparte delle cugine. La causa inizia il 31 agosto ‘ 71, quando due dei figli del barone già non ci sono più. Inizia e subito finisce, in quanto gli altri quattro fratelli Di Pace non possono dimostrare che il padre, in realtà, è un altro. La corte d’appello, alla quale si rivolgono dopo la sconfitta in tribunale, sospende il giudizio in attesa dell’ accertamento della paternità, sentenza che si fa attendere 15 anni. Ma è il passaggio fondamentale. I Di Pace (a questo punto Mazziotti) riprendono la vertenza e vincono il primo round: le sorelle (anche il terzo fratello nel frattempo è morto) sono le eredi legittime, benchè possano aspirare soltanto al recupero dei pochi beni elencati nel testamento e della donazione nuziale del ‘ 45. Per la parte ceduta al pronipote, invece, non c’ è nulla da fare. Per motivi diversi la sentenza viene impugnata sia dalle figlie del barone (ormai due), sia da Domenico Mazziotti. Questi sostiene che il regalo avuto dallo zio per il matrimonio non può essergli sottratto, perchè le eredi hanno tralasciato di sottoporre la questione al collegio quando la causa è ricominciata, nel ‘ 98. La tesi, bocciata dai giudici d’ appello, viene invece accolta dalla Cassazione. E le anziane sorelle si ritrovano con un pugno di mosche in mano. Per le signore Mazziotti è una doccia fredda. Ma come? La donazione nuziale, spiega l’ avvocato Gamberale, era menzionata alle pagine sette e otto del ricorso per l’eredità. Si è trattato senza dubbio di un errore «obiettivamente e immediatamente rilevabile». Che, si augurano Ida e Grazia, la Suprema Corte possa cancellare, come riferisce, Lavinia Di Gianvito, nella minuziosa ricostruzione dei fatti pubblicata sul Corriere della Sera e sopra riassunta.

Ma le cose non vanno come dovrebbero. L’elementare diritto di eredi legittime, “scippato” dal potente cugino (Domenico Mazziotti), vicino alle locali logge templari, non viene ancora una volta riconosciuto, neppure in sede revocatoria.

Della lunga odissea giudiziaria delle due anziane sorelle, che ha le sue origini nella Calabria latifondista e baronale, dove il padre Avv. G. Mazziotti ha una relazione durata 40 anni, con la madre delle sorelle, già coniugata con un precedente marito (che dopo il matrimonio l’abbandonava, emigrando in America), ne da notizia anche la stampa nazionale, nonché la trasmissione televisiva Mi Manda Rai 3, ben illustrando grazie alla nipote Vittoria Maradei, gli inquietananti retroscena ambientali che hanno impedito alle due battagliere vecchine di ottenere il riconoscimento dell’ingente patrimonio paterno, costituito da vari fabbricati, 120 ettari di terreno e conseguenti rendite per il valore di svariati miliardi delle vecchie lire.

Si trattava, in un buona sostanza, di smascherare una lampante simulazione di una finta donazione che il padre fece al nipote e pronipote Domenico Mazziotti, escogitata in punto di morte (il padre Giovanbattista Mazziotti morì nel 1969),  dietro minacce, per diseredare completamente i figli naturali, mai riconosciuti, nemmeno nel testamento, seppure la madre e il padre avessero com già detto vissuto “more uxorio, per oltre 40 anni, unitamente ai figli, sotto lo stesso tetto, in un rapporto famigliare quasi perfetto, pur non essendosi mai, formalmente, sposati, a causa delle resistenze della famiglia paterna che vantava altolocate discendenze templari, ritenendo la madre, Ferrari Tommasina, di umili origini.

A tale contesto etnosociologico, in cui nel corso degli anni è stato tentato veramente di tutto per impedire alle eredi legittime di intraprendere la causa e di proseguire l’azione intentata nei confronti del cugino, si aggiunge il contesto clientelare della giustizia, che impedisce di ottenere quella giustizia, apparentemente elementare, codificata prima nella Costituzione, eppoi nel codice civile, con l’equiparazione legale e sostanziale dei figli naturali a quelli legittimi.

LA SCANDALOSA LUNGAGGINE E RETROSCENA DELL’ITER PROCEDIMENTALE

Nel 1970, dopo varie peripezie e rifiuti, dipesi, soprattutto, dalle reticenze dell’ambiente calabrese (Castrovillari è ai piedi del Pollino),  ancora caratterizzato da una sorta di feudalesimo, le sorelle riuscirono finalmente a trovare un avvocato disposto ad intraprendere la causa – cosa di per sè a volte difficile anche al nord in casi consimili – al fine di ottenere di essere riconosciute figlie legittime del padre che non volle mai riconoscere i figli coi quali visse fino alla morte insieme alla sua convivente perché questa, non aveva origini sociali ritenute dalla famiglia compatibili con il matrimonio.

Ma, ciò che pur appare “prime facie”  un diritto naturale, nell’attuale aberrante sistema di tacite connivenze, contiguità e aperte collusioni istituzionali, privo di effettivi controlli sull’operato della magistratura, assai spesso non trova quella equa riparazione che ogni persona di buon senso e buona fede si aspetta. Ciò, semplicemente, perché molto spesso gli interessi lesi da riconoscere riguardano le logge massoniche, i locali ambienti forensi, la politica, l’economia e, insomma, chi insomma gode di <protezioni altolocate>, con capacità di pilotare le decisioni su magistrati compiacenti – e, nel caso, se necessario – oliare i meccanismi del potere decisionale, sino alla Suprema Corte di Cassazione.

Ed è così che una semplice causa ereditaria di facile soluzione, quando le controparti sono affiliati a fratellanze, consorterie politico-affaristiche od amici di amici, viene, scientemente, aggrovigliata e dilatoriamente rinviata sine die la sua definizione, per rendere impossibile alle malcapitate vittime di tali artefizi e manovre processuali, il riconoscimento di quegli elementari diritti che in un paese normale e con una magistratura veramente indipendente verrebbero affermati nel giro massimo di tre anni.

Nella specie, dopo ben 35 anni, tenuto conto che le anziane sorelle 92enni erano ancora in vita e non si davano pace, interviene nel novembre 2004, una prima sconcertante sentenza della II sezione civile della Corte di Cassazione (Relatore Dr. Schettino, C. n. 21903/04) che, contro il parere dello stesso Procuratore Generale, con poche righe, incorrendo in palesi errori di fatto e nell’erronea lettura di atti interni, annulla ben 35 anni di cause, cassando la precedente sofferta decisione della Corte d’Appello di Catanzaro, favorevole alle sorelle, con la quale erano stati, invece, riconosciuti i loro diritti di eredi.

E’ a questo punto che viene inoltrato ricorso per revocazione, ex art. 391 bis c.p.c., fondato sull’errore di fatto, contenuto nella sentenza di annullamento della decisione della Corte di Appello di Catanzaro, che riconosceva la ricostruzione dell’asse ereditario e la riduzione della cosidetta “donazione obnuziale”, attraverso cui il cugino si è indebitamente impossessato dell’intero patrimonio ereditario. Il ricorso straordinario viene ancora una volta respinto con motivazioni palesemente capziose, senza tenere in alcun modo conto delle specifiche censure mosse dal legale alla precedente sentenza (C. n. 22835/05).

L’epilogo di questa esemplare quanto amara vicenda dimostra non trattarsi di mero “errore revocatorio”, come abilmente cercato di rappresentare dal difensore per mediare (a cui i giudici di Cassazione ove in buona fede ben avrebbero potuto porre rimedio), bensì di vero e proprio “dolo revocatorio”, disciplinato dall’art. 395 c.p.c., sia da parte dei membri del collegio giudicante sia dello stesso P.G. di udienza, che in stridente contrasto con il precedente favorevole parere già espresso nel pregresso giudizio di legittimità, oggetto di revocazione, chiedeva del tutto inopinatamente il rigetto del nuovo ricorso.

Dall’esame degli atti risulta infatti in maniera eclatante e incontrovertibile la sussistenza del dolo revocatorio in cui è incorsa per ben due volte consecutive la Cassazione, in quanto è falso che nel precedente ricorso avanti alla Corte di Appello di Catanzaro “non siano state riproposte le domande di riduzione della donazione“, come capziosamente e infondatamente affermato nelle decisioni contestate da avvocati senza frontiere, che si ritengono l’effetto di probabili oscure pressioni e interessi, oltre che affette da palesi falsità ideologiche e dolo degli organi giudicanti, stante la gravità del loro comportamento sul piano strettamente giuridico e giurisdizionale. Attraverso tale espediente i giudici di Cassazione hanno probabilmente inteso continuare a favorire una parte in danno dell’altra, ragione per cui è stato ipotizzato il reato di favoreggiamento, falso ideologico, abuso continuato e interesse privato in atti di ufficio, oltre che di associazione a delinquere, come denunciato alla Procura di Potenza. C’è da augurarsi che vengano svolte tutte le opportune indagini nei confronti dei magistrati giudicanti per restituire credibilità alle decisioni della Suprema Corte di Cassazione e la fiducia di tutti quei cittadini onesti che hanno speso la loro vita i patrimoni alla ricerca della verità e della giustizia, come le sorelle ultranovantenni Ida e Grazia Mazziotti.

http://archiviostorico.corriere.it/2005/ottobre/09/anni_lotta_per_eredita_co_10_051009106.shtml

IL TRIBUNALE DI PORDENONE AMMETTE LO “SFRATTO CAUTELARE” ANTI-IMMIGRATI

 

UNA DELLE ULTIME TROVATE XENOBE E RAZZISTE DI CERTUNA MAGISTRATURA. 

Il caso è sicuramente unico nel suo genere. La denuncia ci perviene dai nostri legali locali di Avvocati senza Frontiere.

Dopo il decreto Pisanu, a favorire l’espulsione immediata degli immigrati ci pensa il Tribunale di Pordenone con l’ultima trovata di sapore xenofobo e razzista, in base alla quale è ammesso lo sfratto, anche “inaudita altera parte” e pur in assoluta assenza di qualsiasi forma di morosità e a contratto di locazione vigente. A condizione si tratti di prostituta extracomunitaria.

In altre parole, l’intraprendente tribunale ha ammesso l’immediata esecuzione di rilascio di un appartamento sito nel centro di Pordenone, di proprietà di un avvocato locale, senza neppure peritarsi di citare l’inquilina extracomunitaria (asseritamente prostituta), disponendone l’immediato rilascio, ciò nonostante il contratto fosse pienamente vigente e la locatrice avesse versato tutti i canoni di locazione pattuiti, offrendone tra l’altro prova una volta venuta a conoscenza dell’ordinanza di sfratto.

Il provvedimento di rilascio risulterebbe essere stato emesso dal G.U. dr.ssa Zoso.

Il caso è stato denunciato ad Avvocati senza Frontiere da DE LOS SANTOS SUFRAN MIRIAM, 53enne, di origine Domenicana, che viveva già da oltre 20 anni in Italia, dopo aver convolato a nozze con un cittadino italiano, da cui ha avuto una figlia. 

Dal punto di vista giuridico non vi erano quindi ragioni di sorta per legittimare il provvedimento e dare corso all’esecuzione di sfratto, anche in considerazione del fatto che la Signora De Los Santos  risultava regolarmente abitare da tempo nell’immobile, oggetto della singolare esecuzione, per cui non ha mai ricevuto nessuna formale richiesta di rilascio, sino al giorno dello sfratto.

A questo punto, appare quindi naturale domandarsi con quale machiavellico espediente i giudici pordenonensi e il proprietario dell’appartamento, di professione avvocato,  siano riusciti ad aggirare la legge che garantisce a tutti i conduttori, senza distinzione di razza e professione,  di godere della cosa locata per tutta la durata del contratto. In punto va precisato che in materia di rilascio di immobili ad uso abitativo, anche in caso di asserita occupazione abusiva, vi è l’obbligo di citare la parte resistente e di emettere l’ordinanza di rilascio in contraddittorio tra le parti. 

L’avvocato-proprietario chiede con ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c. che l’alloggio, formalmente intestatato a tale P.A. (detenuto in attesa di giudizio), venga immediatamente liberato, assumendo che questi, accusato di reati inerenti il favoreggiamento della prostituzione, lo avrebbe utilizzato a suo dire “per ritrovi a tutte le ore del giorno e della notte, provocando nocumento agli inquilini e  al pubblico decoro“. Ed è così che il Giudice, dr.ssa Toso, prendendo per oro colato le non certo disinteressate dichiarazioni del legale, ritiene di potere eludere le procedure di legge, disponendo lo sfratto coattivo, senza neppure convocare la convivente domenicana e la figlia minore sentendo le loro ragioni difensive. 

Che le cose non stessero proprio come affermato dall’avvocato-proprietario, ben poteva desumersi dal fatto che, seppure sollecitato dai difensori della resistente, non volle concedere neppure un breve rinvio di gg. 10, temendo evidentemente nella revoca del provvedimento di rilascio inaudita altera parte. Senza parlare della macroscopica lesione del diritto difesa, derivante dal fatto che l’intestatario originario del contratto era in carcere e nell’impossilità di comparire e difendersi.

Non si vede quale urgenza abbia mosso il giudice a provvedere al frettoloso rilascio coattivo dell’abitazione, anche tenuto conto del fatto che l’esecutata viveva lì con la figlia minore, senza disporre di altra dimora, e che l’eventuale accertanda responsabilità penale ascritta al suo convivente è personale. La Signora De Los Santos non era infatti accusata di alcun reato, risultando per contro pagare regolarmente l’affitto e vivere nell’immobile da lungo tempo.  Lo stesso Ufficiale Giudiziario, dando prova di civismo e rispetto della legalità, dietro richiesta dei legali di Avvocati senza Frontiere, ritenne sospendere lo sfratto, rivolgendo al Giudice incidente di esecuzione, richiedendo una breve proroga, onde consentire alla De Los Santos di presentare opposizione e/o reperire altra abitazione. Ciò nonostante, la dr.ssa Zoso confermava di procedere immediatamente, senza, neppure concedere all’inquilina dominicana, la possibilità, prevista dalla legge, di ritirare mobili ed effetti personali, come di norma avviene in ogni parte d’Italia, tra persone civili, dotate di senso di umanità e giustizia.

Alla minaccia di denunciare sia il giudice che l’avvocato procedente per concorso in violenza privata aggravata, abuso continuato in atti di ufficio, falso ideologico e violazione di domicilio, la reazione delle pubbliche Autorità locali a cui la vittima si è rivolta è stata quella di impedire alla sig.ra De Los Santos di ottenere persino “asilo politico dal parroco, a scopo umanitario.

Con i soliti metodi e avvicinamenti fu riferito al parroco, pare dai carabinieri, che la persona che si accingeva ad ospitare con la figlia era  una “ex prostituta”. Raccomadazione che non solo impediva alla povera donna priva di mezzi di trovare ospitalità e altra idonea dimora in loco, ma addirittura  di ritirare i propri effetti personali e arredi che senza alcun motivo, subito dopo l’illegittimo sfratto, venivano immediatamente bruciati nell’inceneritore, quasi a voler simbolicamente mondare e punire chi si era macchiato della “colpa” di avere la pelle nera e di avere denunciato il potere.

La persecuzione non finirà qui ma quella è un’altra storia.

SUL CONCORSO TRUCCATO PER ASPIRANTI MAGISTRATI DI MILANO-RHO

Spettabile Redazione,

Colgo l’occasione per ringraziarVi di aver pubblicato il brillante servizio sul concorso truccato per aspiranti magistrati di Milano-Rho, a cui anch’io ho partecipato, restando vivamente deluso e amareggiato per la totale assenza di serietà e controlli.

Vorrei a riguardo aggiungere la descrizione di due eventi strettamente connessi ai fatti da Voi ben ampiamente denunciati.

In un’intervista ad Italia Oggi del 24/11/2008, la dott.ssa Celentano accusò i candidati di non aver protestato con gli organi deputati al controllo ed alla vigilanza. Quanto affermato non è corrispondente al vero, atteso che prima della dettatura della traccia di diritto amministrativo del giorno 19/11/2008 (durante i famosi fatti)  io ed altri sette candidati fummo ricevuti dal Presidente della commissione Fumo per esporre i fatti accaduti. Con molta cortesia il presidente verbalizzò di proprio pugno le nostre dichiarazioni, chiedendo conferma al Comandante della Polizia Penitenziaria presente, il quale accertò la veridicità di quanto da noi affermato. Il verbale reca la sua firma, quella del segretario, del dirigente dell’uff. concorsi e degli otto candidati ricevuti. L’ottenimento di tali, ormai famose, verbalizzazioni è stato oggetto di diverse richieste scritte da parte mia sia alla IX° Commissione del C.S.M., che all’Ufficio III° Concorsi presso il Ministero della Giustizia, con la finalità di ricevere tale verbale, giusta possibilità di accesso prevista dalla l.241/90 e successive. Gli organi menzionati dopo aver lungamente tergiversato sull’oggetto delle mie istanze, alimentando un improprio equivoco; finalmente con provvedimento del 21/01/2010 hanno negato l’accesso agli atti (e quindi al documento) con una motivazione a dir poco fantasiosa. Hanno rilevato la mancanza del mio diritto in quanto non appartenevo alla “lista” degli espulsi. Quanto affermato smentisce le parole senza riscontro del dirigente dell’Ufficio Concorsi. In particolare sono circa tre mesi che sto attendendo la pronuncia del TAR Lazio adito  riunitosi in camera di consiglio il 28 aprile per deliberare una ordinanza di esibizione o negazione, senza trovare ancora alcun riscontro.

Questo vorrà pur significare qualcosa?

In secondo luogo lo stesso dirigente nel comunicarmi la decisione mi ha, credo impropriamente o con secondo fine inviato una comunicazione del CSM indirizzata al Ministro Alfano, cosa che ancora adesso stento a comprendere. Infatti mi sfugge il perché un Ministro debba essere investito del rapporto epistolare intercorrente tra il sottoscritto e l’Ufficio Concorsi.

La dott.ssa Celentano ha anche affermato, nella citata intervista, che l’ingresso del materiale illecito rinvenuto era il frutto dell’enorme quantità di volumi da verificare da parte del personale addetto. Quest’affermazione sembra una risposta a dir poco dilettantesca, in quanto il personale deputato al controllo è ben istruito ed addestrato sul come svolgere il proprio lavoro correttamente. Se non lo fosse vorrebbe significare una grave carenza organizzativa che ricadrebbe interamente in capo allo stesso ufficio concorsi. Pertanto è difficile pensare a qualche mera distrazione da parte di soggetti che da anni svolgono questo ruolo.

FT (lettera firmata da aspirante magistrato)

Emissione di certificati di omologazione falsi da parte delle Motorizzazioni Civili italiane

Il caso dell’autotrasportatore Carlo Massone truffato dalla Motorizzazione e dalla magistratura.

 

 

Nel 1989, il sig. Carlo Massone, autotrasportatore, residente in Castelletto d’Orba (Alessandria), persona onesta, da noi ben conosciuta, acquistò un camion usato tipo Fiat 170/35 B, pagandolo oltre 100 milioni e subendo una truffa che ne ha distrutto l’esistenza, tutt’oggi rimasta impunita per le complicità della magistratura alessandrina. Come da attestazione rilasciata dal concessionario Iveco di Ovada (Alessandria), il mezzo in questione risultava regolarmente collaudato in tutte le sue parti, completo di attestazioni rilasciate dalla motorizzazione e dall’Ispesl (Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro) e pertanto pronto per essere utilizzato su strada. Senonché il Sig. Carlo Massone, prima di utilizzare il mezzo in questione, richiese ed ottenne dalla motorizzazione e dalla USL di Alessandria una verifica preventiva straordinaria che, in seguito, diede esito negativo, e cioè si rivelò che il mezzo presentava una serie di anomalie tecniche e strumentali tali da renderlo inutilizzabile, in totale contrasto con le norme di prevenzione e di sicurezza sul lavoro. A seguito di ciò, il signor Carlo Massone non solo fu costretto a rinunciare al camion appena acquistato, ma venne altresì indagato – gli fu attribuita la responsabilità di averlo manomesso e modificato – e successivamente assolto, avendo dimostrato di non aver mai impiegato il mezzo per alcun lavoro e di non averlo mai ritirato dalla concessionaria se non il giorno prefissato per la revisione straordinaria. Dai documenti in possesso del signor Massone risulterebbe che la data di emissione della fattura quietanzata rilasciata dalla ditta Iveco Plura S.p.A. – 7 settembre 1989 – è in netta e curiosa contraddizione con quella citata nella notifica rilasciata (a richiesta del signor Massone, proprietario del mezzo) dal Compartimento della Polizia stradale, sezione di Alessandria, secondo cui «Visti gli atti d’ufficio si dichiara che la carta di circolazione relativa all’autocarro targato AL 359341 è gravata dal decreto di sequestro n. 616/88/A emesso dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Bergamo il 14 marzo 1988 e che in ordine alla stessa sono in corso ricerche da parte di questo ufficio al fine di rintracciarla e sequestrarla» (Alessandria, 3 maggio 1990, n. 326, rep. 240 PG). Successivamente, il medesimo Compartimento della Polizia stradale, sezione di Alessandria, rispondeva alla Procura della Repubblica presso la Pretura circondariale di Alessandria – in ordine alla denuncia sporta dal signor Massone – «Fa seguito alla denuncia sporta da Massone Carlo, in atti generalizzato, trasmessa con nota prot. n. del 4 maggio 1990 in ordine alla quale si sciolgono parte delle riserve espresse. Si comunica che negli elenchi forniti dalla motorizzazione civile e dei trasporti in concessione di Cuneo, relativi ai collaudi effettuati negli anni 1989-1990 presso la ditta Delia, non c’è traccia di quello afferente al certificato di approvazione rilasciato per l’autocarro targato AL 359341» (Alessandria, 16 giugno 1990, n. 600, rep. 240 PG).

Tali vicissitudini consumate nell’assoluta impunità di coloro che hanno richiesto e rilasciato i certificati falsi hanno prodotto ripercussioni gravissime alle attività economiche della ditta del signor Carlo Massone, al punto da indurlo – pur di non rimanere senza lavoro e con un mezzo sequestrato ed improduttivo – ad acquistarne altri, con una spesa di ulteriori lire 100 milioni e con il medesimo triste e scandaloso risultato di vedersi bloccare il mezzo.

Ad oggi il signor Carlo Massone, pur avendo sporto una serie di denunce contro i fautori delle reiterate truffe e interpellato parlamentari e Ministri nonché interessato anche la Procura della Repubblica di Genova poiché nessuna risposta o indennizzo sono pervenuti dalle autorità di Alessandria e comunque da tutte quelle interessate nella vicenda, è ancora in attesa che si faccia chiarezza e che la sua pratica approdi a giusta conclusione.

Da oltre 20 anni il Sig. Carlo Massone sta combattendo una battaglia di sensibilizzazione volta a far emergere la verità sul suo personale caso e su fatti di analoga gravità che metterebbero in discussione l’intero apparato preposto alla certificazione di idoneità ad operare dei mezzi industriali coinvolgendo ingegneri e pubblici ufficiali funzionari dello Stato.

Fatti su cui molti ricorderanno aveva anche indagato l’ex P.M. Antonio Di Pietro ai tempi di mani pulite, portando all’arresto di molti funzionari dell’Ispettorato della Motorizzazione civile di Milano.

Ma poi tutto è tornato come e peggio di prima con il beneplacito della magistratura milanese, peraltro competente ex art. 11 c.p.p. ad indagare sui reati dei magistrati del Piemonte.

Anche le varie interpellanze dei senatori Bornacin e Martinat, Davide Gariglio e Mario Borghezio sono rimaste tutte senza risposta, seppure venisse sollevato un fenomeno di notevole allarme sociale e gravità che avrebbe dovuto indurre il Governo italiano a fare chiarezza su di una vicenda così delicata e sconcertante, sollecitando il riesame della pratica e verificando, secondo quanto denunciato, la regolarità delle attestazioni rilasciate dalle autorità competenti in ordine ai collaudi di omologazione dei veicoli industriali al fine di definire responsabilità ed eventuali comportamenti omissivi e collusivi da parte di pubblici funzionari e giudicanti.

In molti altri casi, comunque, dopo l’acquisto presso concessionarie e rivenditori, gli autocarri con gru e piattaforma aerea sono risultati tutti con documenti di revisione e collaudo falsi rilasciate dalle Motorizzazioni civili e dall’Ispesel, come rilevato nelle varie interpellanze di cui sopra.

Al di là delle ripercussioni della vicenda in ambito giudiziario, da questa esperienza risulta l’esistenza di gravi irregolarità nelle operazioni di collaudo. Questo è solo il caso più eclatante, ad onta delle forti perdite economiche subite dopo queste tristi esperienze che hanno addirittura portato il signor Massone a minacciare il suicidio su diversi organi di stampa.

E’ chiaro che se le esperienze del signor Massone si verificassero in tutto il territorio italiano ci troveremmo di fronte ad un problema grave che non metterebbe in discussione soltanto la stabilità economica delle aziende operanti nel settore dei trasporti, ma anche la sicurezza di tutti i mezzi che circolano sulle strade italiane, con le conseguenze che ne deriverebbero.

Non si capisce quindi perchè il Governo italiano e in particolare il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti non abbiano ancora ritenuto opportuno effettuare delle efficaci indagini presso gli Uffici provinciali del Dipartimento dei Trasporti terrestri al fine di verificare lo svolgimento a norma di legge delle trasformazioni dei veicoli e dei relativi collaudi e la veridicità di conformità delle carte di circolazione rilasciate, per salvaguardare la sicurezza stradale ed evitare che si ripetano esperienze come quella del signor Massone.

E’ quindi lecito domandarsi che cosa intenda fare il Governo per garantire che, in materia di collaudi ed omologazioni di veicoli industriali, venga rispettato scrupolosamente il dettato legislativo e si eviti pertanto che pubblici funzionari rilascino certificati di omologazione e di collaudo su veicoli industriali sulla base di documenti di conformità rilasciati dagli allestitori senza effettuare verifiche tecniche rigorose sui mezzi, come prevede la normativa vigente.

http://www.camera.it/resoconti/resoconto_allegato.asp?idSeduta=238&resoconto=bt55&param=bt55

TRIESTE AFFOGA NELL'INQUINAMENTO MA CONDANNA L'AMBIENTALISTA CHE LO DENUNCIA!

CHI DENUNCIA L’INQUINAMENTO   IN SLOVENIA E CROAZIA FINISCE PER COMMETTERE REATO.

E’ la solita giustizia alla rovescia. Il segretario degli Amici della Terra – Friends of the Earth di Trieste e consigliere nazionale degli Amici della Terra Italia, Roberto Giurastante, è stato condannato dal Tribunale locale per avere presentato una denuncia alle autorità italiane ed europee contro gli inquinamenti dell’aria e del mare prodotti in Italia, Slovenia e Croazia dall’inceneritore e dal depuratore della città. La magistratura locale ha infatti emesso contro di lui un “decreto penale”, che in Italia consente di accusare, indagare e condannare una persona senza nemmeno avvisarla (e senza processo), affermando che egli non rappresenterebbe la sua stessa associazione. Questa condanna assurda serve in realtà a negare a Giurastante ed all’associazione ambientalista locale il diritto legale di opporsi all’archiviazione di una denuncia che tocca interessi e responsabilità degli influenti amministratori, politici ed organi giudiziari di Trieste che non hanno ancora fatto cessare questi ed altri inquinamenti gravi e documentati. I Friends of The Earth di Trieste e lo stesso Giurastante sono gli autori delle principali indagini e denunce, anche a livello europeo, contro gli inquinamenti industriali nella provincia di Trieste, la violazione delle norme di sicurezza sugli impianti industriali pericolosi (Legge Seveso) e la violazione dell’obbligo di informazione e prevenzione sul rischio nucleare relativo al porto ed alla vicina centrale sloveno-croata di Krsko.L’associazione locale triestina, che ha piena autonomia giuridica, ha subìto anche pesanti attacchi dalla dirigenza nazionale politicizzata di “Amici della Terra Italia” (Roma), che per questo motivo è ora sotto inchiesta da parte di Friends of The Earth International.

Il Segretario di Greenaction Transnational Paolo G. Parovel

LA STORIA IN SINTESI.

L’Associazione Amici della Terra Trieste affronta da anni con coraggio e fermezza potenti, radicati cartelli imprenditoriali e politici locali dello smaltimento illecito di enormi quantità di rifiuti tossici e degli appalti (ne hanno monopolizzati illecitamente per oltre mille miliardi di lire negli ultimi vent’anni), e le loro connessioni e protezioni nazionali radicate in reti di corruzione ordinaria e mafiosa. Sono le camorre del settentrione, affini e collegate a quelle del resto del Paese. L’Associazione ottiene successi e consenso, ma subisce minacce anche gravi. Si finanzia da sola e tiene duro da anni con difficoltà personali e collettive immaginabili.

Per bloccarci, questi poteri forti, ci denuncia il suo Presidente,  hanno esercitato pressioni sulla nostra associazione nazionale. Che alla fine ha deciso di revocarci l’autorizzazione all’uso del nome e del marchio.  Ci siamo opposti a tale illegittima decisione richiedendo l’intervento dell’associazione internazionale Friends of the Earth di cui facciamo parte. La federazione internazionale ha deciso quindi un procedimento di  ispezione nei confronti di Roma riservandosi ad esito dello stesso di sospendere gli AdT Italia dell’associazione internazionale. L’accusa è di comportamento antidemocratico e violazione dei principi di Friends of the Earth International. Rosa Filippini (presidente AdT Italia), sotto ispezione internazionale, si è rivolta all’autorità giudiziaria italiana avviando cause civili e proponendo quelle penali contro di noi. Il Tribunale Civile di Trieste ha inspiegabilmente accolto in appello il ricorso di Roma. Inspiegabilmente, e senza motivazioni in quanto, in primo grado il ricorso era stato rigettato per mancanza dei presupposti (eravamo accusati di portare un danno all’associazione nazionale e internazionale, ma non sono riusciti a dimostrarlo visto che con le nostre azioni difendiamo solo l’ambiente e i diritti dei cittadini, e questo non è un danno …. semmai ….). La decisione è stata presa da un collegio giudicante presieduto dal presidente del Tribunale di Trieste Arrigo De Pauli (gli altri due componenti erano Riccardo Merluzzi e Arturo Picciotto).

Sul piano penale la Procura della Repubblica di Trieste  procedeva a richiedere l’archiviazione delle nostre denunce escludendoci dai procedimenti come parte offesa e civile. Si arrivava così all’illegittima archiviazione di alcune importanti inchieste senza che noi potessimo opporci.  Si trattava di casi, solo per citare i più importanti, quali l’inquinamento del terrapieno di Barcola (una delle principali discariche a mare di diossina e rifiuti industriali della provincia di Trieste) e della gare d’appalto pubbliche truccate (caso parcheggi). Alcuni di questi procedimenti venivano archiviati nonostante fosse in corso un’istruttoria da parte della Commissione Europea e da parte di altri organi giudiziari. Nei procedimenti che venivano archiviati gli indagati erano quasi sempre influenti politici e imprenditori della nostra regione.

Le nostre denunce venivano quindi trasformate in azione penale contro di noi, senza svolgere alcuna indagine, con l’arbitraria accusa di avere falsamente rappresentato l’associazione Amici della Terra. Da qui il decreto penale di condanna richiesto dal Procuratore di Trieste Nicola Maria Pace. Nel capo di imputazione si legge: “Per avere con più azioni esecutive di un medesimo disegno crminoso, al fine di procurarsi il vantaggio costituito dalla maggiore rappresentatività delle denunce sporte in quanto all’apparenza riconducibili ad una associazione ambientalista di rilevanza nazionale avente titolo ….. indotto in errore i magistrati del pubblico ministero presso il Tribunale di Trieste e dell’ufficio GIP presso il Tribunale di Bologna, loro indirizzando nel primo caso l’esposto denuncia 9/3/2007 nei confronti del sindaco di Trieste e nel secondo atto in data 10/4/07 contenente opposizione alla richiesta di archiviazione ed integrazione della precedente denuncia, attribuendo a se, in entrambi gli atti, redatti su carta intestata Friends of the Earth la falsa qualità di segretario del Club di Trieste Amici della Terra, benché tale qualità, cui la legge riconnette gli effetti giuridici di cui all’art. 91 c.p.p. citato, fosse venuta meno per effetto di revoca dell’autorizzazione all’utilizzo del simbolo e del nome del Club precedentemente intervenuta da parte della direzione nazionale dell’associazione Amici della Terra.

La denuncia a cui si fa riferimento riguardava l’inquinamento dell’inceneritore e del depuratore di Trieste. All’interno di questa denuncia veniva anche messo in evidenza che il sindaco di Trieste aveva pubblicamente affermato che i magistrati dovevano vergognarsi per avere parzialmente sequestrato l’inceneritore a tutela della salute pubblica. Qualsiasi cittadino avesse dichiarato tanto sarebbe stato rinviato a giudizio. Nel caso del sindaco di Trieste invece accadeva che nessun magistrato triestino si riteneva offeso dalle sue dichiarazioni. La Procura di Bologna (competente sul caso) richiedeva l’archiviazione della mia denuncia senza indagini, travisandone tra l’altro il contenuto, e la Procura di Trieste avviava l’azione penale nei miei confronti. L’inceneritore era stato intanto dissequestrato.

L’accusa nei miei confronti non si regge perché:

– Il Club di Trieste degli Amici della Terra ha da statuto completa autonomia giuridica;

– Il logo e il nome dell’associazione appartengono a quella internazionale e non a quella nazionale;

– L’associazione internazionale Friends of the Earth non solo non ha avallato l’illegittimo comportamento degli AdT Italia, ma anzi ha avviato, su nostra denuncia, un’azione di ispezione nei confronti dell’associazione nazionale riservandosi di sospenderla;

– le denunce erano da me presentate come segretario del Club di Trieste di Friends of the Earth – Amici della Terra gruppo autonomo, e con piena autorità giuridica, dagli Amici della Terra Italia;

– ogni cittadino può presentare, se riscontra una violazione, di legge denuncia alle autorità competenti le quali devono procedere.

Sono preoccupanti le affermazioni del Procuratore di Trieste Pace secondo il quale le denunce hanno un peso diverso a seconda di chi le presenta (maggior rappresentatività per le denunce …..).

Ad ogni modo, per maggiore sicurezza, avevamo fin dal novembre 2006 provveduto ad informare la Procura della Repubblica di Trieste della situazione determinatasi tra noi e Roma depositando tra gli altri anche i documenti inviatici dalla Federazione Internazionale di Friends of the Earth in cui si comunicava l’avvio dell’ispezione nei confronti degli AdT Italia. Ribadivamo inoltre la nostra completa autonomia giuridica che ci consentiva (e ci consente) di agire senza alcuna delega da parte dell’associazione nazionale. L’autonomia giuridica ci  è peraltro riconosciuta dallo stesso Stato visto che abbiamo un nostro codice fiscale.

Tutto questo veniva dimostrato con prove documentali pure al Tribunale di Trieste nelle cause civili intentate dagli AdT Italia.

Sia la Procura della Repubblica che il Tribunale di Trieste non tenevano, senza motivazione, in alcuna considerazione le prove da noi presentate.

Dal codice etico dei Magistrati:

Art. 13 – La condotta del Pubblico Ministero

Il pubblico ministero si comporta con imparzialità nello svolgimento del suo ruolo.

Indirizza la sua indagine alla ricerca della verità acquisendo anche gli elementi di prova a favore dell’indagato e non tace al giudice l’esistenza di fatti a vantaggio dell’indagato o dell’imputato.

Evita di esprimere valutazioni sulle persone delle parti o dei testi, che non siano conferenti rispetto alla decisione del giudice e si astiene da critiche o apprezzamenti sulla professionalità del giudice e dei difensori.

Non chiede al giudice anticipazioni sulle sue decisioni, nè gli comunica in via informale conoscenze sul processo in corso.

Nel mio caso il P.M. (Procuratore della Repubblica di Trieste Nicola Maria Pace) pur essendo a conoscenza delle prove a mio discarico le ha completamente omesse inducendo cosý in errore anche il G.I.P. che doveva decidere sul decreto penale di condanna.

 Roberto Giurastante

MANI MASSOMAFIOSE SULLA CASSAZIONE

Boss e massoni, patto per insabbiare i processi.  

A cura di Saverio Lodato. 

La mafia è a Roma, si sarebbe detto una volta. Ed ecco a voi quello che Leonardo Sciascia avrebbe chiamato: Il Contesto.

Ci sono voluti decenni, ma il sipario nero è stato finalmente strappato: mani mafiose sulla Cassazione. Mani massoniche sulla Cassazione. Persino mani ecclesiastiche. Otto gli arrestati. In manette una poliziotta, indagato anche un gesuita. E’ un gesuita romano, di alto lignaggio, Ferruccio Romanin, rettore della chiesa di Sant’Ignazio a Roma, si ritrova indagato. Indagato anche il massone Stefano De Carolis, della Serenissima Gran Loggia Unita d’Italia. Mentre Francesca Surdo, poliziotta palermitana, in servizio presso lo S.C.O. del ministero degli Interni, finisce in manette (ma non per mafia). Che storia.
Emerge uno spaccato che fa cascare le braccia, soprattutto in coincidenza con le attuali polemiche sulla questione intercettazioni. Insabbiavano i verdetti sfavorevoli ai boss con i quali le sentenze passavano in giudicato. Ne bloccavano la trasmissione da Roma in Sicilia o in Calabria. Traccheggiavano sulla messa a ruolo delle cause, perché un mese in più o un mese in meno poteva fare la differenza, e che differenza. Lo scopo ( spesso raggiunto) era quello di ottenere la scadenza dei termini con la conseguente impossibilità di arrestare gli imputati raggiunti da condanna definitiva o con qualche scarcerazione prima del previsto.

Ma non solo.
Le indagini della Procura di Palermo, a firma del capo dell’ufficio Francesco Messineo, dell’aggiunto Roberto Scarpinato, dei sostituti Paolo Guido, Fernando Asaro e Pierangelo Padova, volati a Roma per un’operazione senza precedenti – in esecuzione dell’ ordinanza di custodia cautelare emessa da Roberto Conti, gip del Tribunale di Palermo – , puntano a scoprire l’eventuale collaborazione con il sodalizio criminale persino di giudici di merito: ci sono infatti intercettazioni telefoniche che suonano, in tal senso, come pessimi campanelli d’allarme.
I vertici di Cosa Nostra (bastano, fra tutti, il clan di Matteo Messina Denaro e quello degli Agate), il grande ventre molle trapanese e agrigentino, da anni, con la costruzione di una sapiente rete di corrotti e faccendieri, riusciva a violare quello che si riteneva

IL SANTUARIO giudiziario italiano inespugnabile per eccellenza: il Palazzaccio romano di piazzale Clodio .
Operazione Hiram, l’hanno chiamata i carabinieri. Operazione che, per ora, ha portato agli otto arresti per associazione mafiosa, corruzione in atti giudiziari, accesso abusivo nei sistemi informatici giudiziari e rivelazione di segreto d’ufficio, peculato. 

Alcuni uffici del Palazzaccio, nella prima mattinata di ieri, sono stati passati al setaccio dagli uomini dell’Arma che hanno spulciato dischetti, tabulati, documenti d’ogni tipo, interi schedari, sequestrato pc, perché si cerca di capire quanto a fondo si fossero spinte le mani di mafia; tentacoli della piovra, avrebbero detto i mafiologi di una volta. Ma come funzionava la grande madre di tutte le Piramidi?
Semplice. Alla base, c’erano la mafia di Mazzara del Vallo, Marsala e Canicatti: i Messina Denaro, gli Agate, i Sorrentino, con procedimenti pendenti in Cassazione, si rivolgevano a un loro uomo di assoluta fiducia, tal Michele Accomando di Mazzara, 60 anni, condannato per mafia e massone. Accomando, a sua volta, aveva come punto di riferimento romano, Rodolfo Grancini, 68 anni, di Orvieto, faccendiere con ottime entrature nel mondo politico (si sta indagando), ma, quel che più conta, con solidi agganci in Cassazione. Il suo più stretto collaboratore era Guido Paparaio, 55 anni, cancelleria della seconda sezione di Cassazione, ausiliario, autentico deus ex machina nel dipanare quelle complicatissime maglie burocratiche da cui dipendevano la carcerazione o la libertà. Ovviamente Paparaio, nelle diverse sezioni di merito dell’Alta corte, aveva i suoi complici, ora in via di individuazione (lui, infatti, non aveva titolo per entrare nei computer). Questo era l’asse principale. I mafiosi pagavano, per questo servizio “assai personalizzato” a tranche di 5000 mila euro che potevano lievitare sino a quindicimila. Il collettore del danaro era Accomando che li girava, facendoli affluire su un conto corrente fittiziamente intestato, a Grancini. Il quale li consegnava in contanti a Paparaio. Il cancelliere infedele pagava infine i suoi complici nei diversi uffici della Cassazione dove transitavano i processi “caldi”. Più le cause si diluivano nel tempo più la cifra corrisposta aumentava. C’era un secondo asse.
Riguardava il solito Grancini, ma anche Francesca Surdo, poliziotta di 35 anni. Violava il sistema informatico della polizia di Stato acquisendo notizie sullo stato delle indagini a carico dei boss (apparentemente segretissime) che metteva a conoscenza di Grancini. Ma spesso, nonostante gli sforzi della banda, i processi arrivavano in discussione.
In quel caso Grancini e Accomando avevano un asso nella manica: il gesuita Ferruccio Romanin. Il sacerdote firmava lettere accorate a difesa degli imputati caldeggiando soluzioni “benevole” dietro lauto compenso per la sua parrocchia sotto forma di “donazioni” registrate su tanto di carta intestata della chiesa. È sconcertante apprendere che le lettere venivano congegnate, in prima stesura, da Grancini che poi le sottoponeva ad Accomando e agli avvocati. Il massone mazarese aveva un filo diretto con Romanin con il quale, in un paio di occasioni, si incontrò personalmente. Quanto alla corrispondenza finiva poi nelle mani di Odimba Omana, il segretario del prelato che però risulterebbe estraneo ai fatti. A quel punto, a Romanin, non restava che mettere la firma. A che le inviava? È questo il pessimo campanello d’allarme di cui dicevamo.
Altri arrestati: gli imprenditori agrigentini Calogero Licata di 57 anni e Calogero Russello di 68; Nicolò Sorrentino di 64 anni, di Marsala. Non è invece mafioso Renato Giovanni Di Gregorio, ginecologo palermitano di 59 anni. Ma anche lui doveva avere i suoi santi in Paradiso: se è vero come è vero che, condannato anche in appello per violenza sessuale su una minorenne, era in libertà. Il suo ricorso in Cassazione era insabbiato da tre anni.
saverio.lodato@virgilio.it  (da: l’Unita’ 18 giugno 2008)
Le lettere di padre Ferruccio
L’interessamento per Epifanio Agate figlio del mafioso di Mazara del Vallo

PALERMO A proposito dell’interessamento di padre Ferruccio Romanin, rettore della chiesa di Sant’Ignazio di Lojola, in Roma, per Epifanio Agate, figlio di Mariano Agate, massone e boss di Mazara del Vallo.
Nota a mano, vergata dal sacerdote e indirizzata ad Accomando: ” A Accomando Michele. Per l’aiuto richiestoci dalla signora Pace Rosa e dalla fidanzata Francaviglia Rachele sarà nostra premura fare tutto l’impossibile per aiutare il giovane Epifanio Agate”. Il testo viene trasmesso proprio dal faccendiere Grancini ad Accomando, via fax, dall’Hotel Metropol di Roma (23 maggio 2006) .
Ma si pone il problema di giustificare la conoscenza (inesistente) fra padre Ferruccio ed Epifanio Agate, in modo da rendere credibile l’intervento del gesuita. Conversazione fra Accomando e Grancini (29 maggio 2006). Grancini: ” che rapporto c’è fra padre Ferruccio e la persona… capito? come si è creato…”Accomando: ” ho capito…”. Grancini: ” perché ci deve essere un’amicizia, capito? Che loro sono venuti a Roma, che si volevano sposare lì in Chiesa, cioè tutta una cosa… perché se no dice: che rapporto c’è: tra questi e quegli altri?”. E la lettera poi avrebbe dovuto essere consegnata a Reggio Calabria a “una persona” che aveva un appuntamento con un “innominabile”. Si indaga in proposito.
Ieri, in conferenza stampa a Roma, il procuratore di Palermo Francesco Messineo ha dichiarato: ” allo stato” non ci sono politici coinvolti.
Padre Romanin, lettera del 7 giugno 2006: ” Sono rimasto colpito dalla vicenda giudiziaria che ha colpito questo ragazzo e dal profondo dolore di queste due donne. Mi pregano di scrivere alle Vostre Ill. Signorie per un atto di clemenza e di perdono nei confronti di Agate Epifanio. Il ragazzo l’ho conosciuto presso la Chiesa di sant’Ignazio qui a Roma, dove Epifano era venuto con la fidanzata, per sentire se il loro matrimonio poteva essere celebrato in questa Chiesa…Ho avuto l’impressione che fosse un ragazzo a posto, pieno di vita e pieno di progetti con la sua futura moglie, con una certa venerazione del nostro fondatore Sant’Ignazio… Non voglio essere giudice di nessuno, e del suo operato, ma per quello che ho intuito non penso si meritasse un trattamento così pesante…” E chiede “equità e perdono, dandogli un’altra possibilità per alleviare, nel perdono e nella clemenza, il dolore atroce di una madre e della fidanzata”. Chi erano le Illustrissime Signorie? Si indaga. Comunque sia: sante parole, soprattutto spontanee. Non c’è che dire.
saverio.lodato@virgilio.it   (da l’Unità)

«Questo provvedimento non deve arrivare a Palermo…»
Ascoltiamoli un po’ mentre si davano da fare per i boss. Conversazione fra Licata e Grancini ( 6 febbraio 2003). Dice Licata: ” nelle more…questo provvedimento non deve essere notificato a Palermo… Però la cosa importante è non farla partire…E la cosa importante è non farla arrivare giù! Per avere il tempo di organizzare tutto con i gesuiti…”.
Fra Grancini e Sorrentino (13 febbraio 2006).
G. : ” Loro (impiegati della Cassazione n.d.r.) vogliono versati su quel conto dove hai versato l’altra volta, 5 mila euro, ogni dieci giorni gliene devo portare mille”. S.: “Come prima 5, e poi ogni dieci altri mille?” G.: “no, no…da questi cinque, io ogni dieci giorni levo mille euro e glieli do…” S.: “E quindi si fanno 50 giorni, così dici tu?”. G.: “Eh…sono gli accordi…, però io questo lo devo chiudere domani mattina alle nove…potrebbe essere tre, potrebbe essere due, poi potrebbe essere anche otto, cioè hai capito?”S.: ” Sì. Scusami, tu ogni dieci giorni gliene dai mille…”. G.: ” Bravo Nicola”. S.: ” Quindi se ne vogliono mandati cinque vuol dire che per 50 giorni siamo a…”. G.: ” Io ti dico quello che mi hanno detto…”. S.: ” caso mai facciamo l’integrazione noi…” G.:” Bravo! Questo è quanto! Però domani mattina ce li devo avere”. S.: ” Va bene, io vado a parlare, me li faccio dare e ti faccio il versamento…” ( versamento su conto Unicredit, agenzia di Orvieto, intestatario (fittizio) Bacci Giovanni, codice 7181: tutto verificato e provato). In questo caso era il Sorrentino ad essere interessato ad un suo ricorso in Cassazione.
Grancini- Accomando ( 19 dicembre 2005).
G: ” Se non c’è niente ( se non ci sono i soldi n.d.r) è inutile che andiamo avanti, perché tanto non fa un cazzo nessuno, cioè hai capito che ti voglio dire? Se si arriva con qualcosa bene, perché anche lì mi hanno detto: “Rodolfo è ora che vai a fare in culo”, perché io gli avevo promesso, promesso, io se ce li avevo li mettevo io… allora se hai qualcosa sulle mani, mandali spediscili, così io posso girare e muovermi, se no lasciamo perdere, sarà quello che Dio vorrà…”.
A: ” Ti ho detto la pratica quella mia… eh quella manca per te definire il discorso… c’e già la disponibilità totale…” G.:” E allora perché non me li hai dati tu? ” A.: ” Eh cazzo..se non so quanti. Dico, non è che posso quantificare io… E allora quella del dottore ( sottinteso: pratica n.d.r), ti ho detto come è la situazione?” G.: “sono lì che dormono tutte adesso”.
Licata- Grancini (1 marzo 2007).
L. ” Rodolfo! Purtroppo questa è …una cosa pesante, non è una cosa leggera… perché io sto perdendo tutta la mia tranquillità…, la mia…tutto sto perdendo io…Cioè io qua …non abbiamo a che fare né con Nicola, né con Antonio che sono persone per bene…(omissis). ” Questa volta, infatti, di mezzo c’erano gli Agate di Mazzara del Vallo. E lo stesso giorno, si sentono anche Accomando e Licata.
L.: ” Ho capito Michele…noi ogni giorno gli dobbiamo mandare un messaggio di pericolosità! ( a Grancini per sollecitarlo n.d.r.).
E Grancini, in altra telefonata: ” Il compito mio era quello di tenerla ferma il più che sia possibile, che poi De Carolis avrebbe praticamente sistemato la cosa e non l’avrebbe fatta arrivare, questi sono i patti, che non doveva arrivare dall’ ufficiale giudiziario e questo De Carolis mi ha detto: “ci penso io””
Grancini si rivolge a Peperaio ( 9 marzo 2007) : ” ci hai guardato? “. P.: ” E si, ho guardato. Poi ti dico”. G.: “si può fare?”P: “Anche se bisogna aspettare qualche altro giorno in più per essere… Hai capito?”. G: ” eehh si può fare qualcosa? P.:”eehh ci proviamo… però bisogna te… te…poi ti dico personalmente” (Peperaio batte cassa n.d.r.)
Conversazione fra il faccendiere Grancini e la poliziotta Surdo ( 1 agosto 2006, ore 21 e 45): G.: “In tanto domani mattina vado lì in Cassazione per l’amico tuo”. S: “ah, ah”. G.: ” Eh che la sezione non è una di quelle simpatiche”. S.: “Eh immagino”. G.: ” Eh la quarta e la settima sono un po’ le più…eh, se era la seconda era un frego meglio. Però qualcosa possiamo fare, su poi ne parliamo a voce…”. Il riferimento è al ginecologo De Gregorio amico personale della Surdo.

Benedette intercettazioni, se si vuol cercare di bonificare l’Italia.
saverio.lodato@virgilio.it

 Tratto da: l’Unita’

Mafia e massoneria, perquisiti uffici della Cassazione, 8 arresti

Perquisizioni presso alcuni uffici della Cassazione questa mattina da parte dei pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, guidati dal procuratore Francesco Messineo, insieme ai carabinieri di Agrigento e Trapani.

Otto gli arresti in diverse città. Secondo le accuse un gruppo di persone, alcune legate dall’appartenenza a logge massoniche, avrebbero ritardato, dietro pagamento di tangenti, l’iter processuale di alcuni affiliati a Cosa nostra in modo da poter avere la prescrizione dei reati. Fra le persone arrestate un’agente della polizia di Stato, un ginecologo di Palermo, imprenditori di Agrigento e Trapani, un impiegato del ministero della Giustizia in servizio ad una cancelleria della Cassazione e un faccendiere originario di Orvieto.

Il controllo rientra nell’inchiesta denominata Hiram, coordinata dalla procura di Palermo, e stamani ha portato all’arresto di otto persone in diverse città accusate a vario titolo di concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione in atti giudiziari, peculato, accesso abusivo in sistemi informatici giudiziari e rivelazione di segreti d’ufficio. Oltre alle perquisizioni, vengono svolti controlli anche su conti correnti bancari intestati agli indagati. Nell’indagine sono impegnati i carabinieri di Agrigento e Trapani, Palermo, Roma e Terni.
Mafia e massoni. L’inchiesta ha preso il via da accertamenti svolti sulle famiglie mafiose di Mazara del Vallo e Castelvetrano, in provincia di Trapani nel 2006. Vede coinvolti professionisti, medici, imprenditori, boss e alcuni iscritti a logge massoniche. Anche il ginecologo di Palermo, che era stato condannato anche in appello per violenza sessuale su una minorenne si sarebbe servito di questo sistema. L’uomo avrebbe pagato somme di denaro per tentare di ottenere l’insabbiamento del procedimento in Cassazione, che infatti risulta pendente da tre anni, per poi accedere alla prescrizione del reato.

I provvedimenti sono stati emessi dal gip del tribunale di Palermo, Roberto Conti, su richiesta del procuratore Francesco Messineo, dell’aggiunto Roberto Scarpinato e del sostituto della Dda, Paolo Guido.

Gli arrestati sono Michele Accomando, 60 anni, di Mazara del Vallo, imprenditore, finito in carcere nel 2007 per un’inchiesta su appalti pubblici pilotati, in seguito condannato per mafia a nove anni e quattro mesi. Renato Gioacchino Giovanni De Gregorio, 59 anni, ginecologo a Palermo, condannato anche in appello per violenza sessuale su una minorenne, dal 2005 pende in Cassazione il suo ricorso. Rodolfo Grancini, 68 anni, originario di Orvieto, è indicato dagli investigatori come un faccendiere, in contatto con diversi senatori e deputati, considerato dagli inquirenti «una personalità poliedrica inserita in un giro di amicizie altolocate, attorno alla quale ruota l’intera indagine». Grancini avvalendosi di persone «prezzolate», alcune già note agli investigatori, altre ancora ignote, all’interno della Cassazione, secondo l’accusa era riuscito a congegnare un «sistema» che gli consentiva di acquisire notizie riservate sullo stato dei procedimenti e di pilotare la trattazione dei ricorsi proposti alla Suprema Corte dai suoi «clienti». Calogero Licata, 57 anni, imprenditore agrigentino, accusato di aver tentato di insabbiare in Cassazione alcuni procedimenti penali che riguardavano boss mafiosi di Agrigento e Trapani. Guido Peparaio, 55 anni, impiegato del ministero della Giustizia, addetto alla cancelleria della seconda sezione della Corte di Cassazione con la qualifica di ausiliario. Calogero Russello, 68 anni, imprenditore agrigentino che era già stato imputato di mafia. Nicolò Sorrentino, 64 anni, originario di Marsala. Francesca Surdo, 35 anni, originaria di Palermo, agente della polizia di Stato in servizio alla Direzione anticrimine di Roma.
Avviso di garanzia anche a un padre gesuita. I pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo hanno inviato un avviso di garanzia anche a un sacerdote gesuita, Ferruccio Romanin, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’avviso è stato notificato stamani dai carabinieri al religioso che vive a Roma. La sua abitazione, e gli uffici che si trovano nel centro della Capitale, sono stati perquisiti. La posizione del gesuita è collegata all’imprenditore Michele Accomando, arrestato stamani. Gli investigatori avrebbero accertato che il sacerdote, su indicazione di uno degli indagati dell’inchiesta, Rodolfo Grancini, avrebbe predisposto lettere inviate a giudici «previo pagamento da parte di Michele Accomando», per «raccomandare alcuni imputati di mafia». Il peso e l’autorevolezza del sacerdote che apponeva la sua firma alle lettere inviate ai magistrati, per l’accusa avrebbero influito sull’esito dei ricorsi giurisdizionali proposti a diverse autorità giudiziarie. Padre Romanin avrebbe anche scritto una lettera a un giudice che doveva decidere sugli arresti domiciliari chiesti da Epifanio Agate, figlio del capomafia di Trapani, Mariano e per Dario Gancitano, genero di Accomando, imputati entrambi davanti ai giudici del tribunale di Reggio Calabria. Indagato anche il gran maestro Stefano De Carolis, esponente di spicco della Serenissima Gran Loggia Unita d’Italia. Il massone, secondo l’accusa, sarebbe stato messo a conoscenza dall’imprenditore Michele Accomando e da un altro indagato, del piano per ottenere il controllo di un procedimento penale pendente in Cassazione che riguardava il boss mafioso Giovanbattista Agate, fratello del capomafia di Trapani, Mariano. Secondo quanto emerge dall’inchiesta, Accomando voleva che il procedimento che riguardava Agate venisse insabbiato in modo da impedirne la trattazione e conseguire la progettata prescrizione del reato.

Fonte: www.ilmessaggero.it

http://castelvetranoselinunte.it/mafia-e-massoneria-8-arresti-e-perquisizioni-negli-uffici-della-cassazione/1395/

In manette figlio del Questore di Trento: permessi di soggiorno falsi

Giuseppe Caldarola, 31 anni, avvocato a Reggio Emilia è figlio del questore di Trento, Angelo Caldarola.

Il provvedimento, di cui hanno dato notizia oggi vari giornali locali e quotidiani risulta riguardare un’inchiesta della Procura di Brescia, eseguita dalla Squadra mobile della polizia della città lombarda, in merito ad un giro di permessi di soggiorno falsi, in cui sarebbe coinvolto anche un ex vigile emiliano. Giuseppe Caldarola, che esercita la professione da pochi anni, alle ultime elezioni comunali si era presentato come candidato in una lista civica a Reggio Emilia. Giuseppe Calderola è accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e uso di atto falso. Ma per lui non si sono aperte le porte del carcere, come accade di norma per gli extracomunitari: ha ottenuto subito gli arresti domiciliari. L’inchiesta nella quale è rimasto impigliato il giovane legale – da quel poco che filtra dagli ambienti investigativi di Brescia – sarebbe scattata partendo da un gruppo di cittadini pachistani che dalla zona di Brescia gestivano una lucrosa compravendita di permessi di soggiorno ottenuti con false certificazioni. Una maxi inchiesta che vede coinvolto anche un ex vigile urbano, residente in provincia di Reggio, a cui è stato notificato l’obbligo di firma.  L’indagine era partita oltre due anni fa in concomitanza con il termine delle regolarizzazioni del decreto flussi del 2007, quello diventato famoso col nome di «Click-Day». Bocche cucite, adesso, in Procura e in Questura. La Mobile di Brescia starebbe ancora lavorando per ricostruire con esattezza quanto accaduto tra il 2007 e il 2008 sulla «gestione», considerata illegale, dei permessi di soggiorno. Toccherà allo stesso Caldarola provare a difendersi, nei prossimi giorni, davanti ai magistrati. Una notizia choc, quella del suo arresto, che ha messo in subbuglio l’ambiente del foro reggiano e ha lambito anche la politica cittadina, visto che Caldarola, nelle ultime elezioni comunali, si era presentato come candidato della lista civica guidata da Luigi Piscopo, un ex ispettore di polizia. L’avvocato alle urne ottenne però solo 18 preferenze. Da quanto filtra dagli ambienti investigativi bresciani, nell’indagine che ha permesso di smantellare l’organizzazione che gestiva il mercato «nero» di permessi di soggiorno, sarebbero coinvolte parecchie altre persone. Personaggi che avrebbero avuto ruoli importanti nello scovare stranieri pronti a sborsare denaro per ottenere la regolarizzazione in Italia.

http://www.ingiustizia.info/citta%20trento.htm

www.repubblica.it/cronaca/2010/03/07/news/permessi_di_soggiorno_falsi_agli_immigrati_in_manette_il_figlio_del_questore_di_trento-2540100/

http://www.ilgiornale.it/interni/falsi_visti_arrestato_figlio_questore/08-03-2010/articolo-id=427716-page=0-comments=1

Giovanni Vallesi, l’uomo più truffato dalla propria banca

Giovanni Vallesi, l’uomo più truffato in assoluto dalla propria banca di cui nessuno parla.

Magari avessi investito in tango bond argentini!”
Questa frase non la pensa nessuno. Nessuno tranne uno, in Italia. Si chiama Giovanni Vallesi, pescarese. Perchè? Perchè almeno con i bond argentini si perde tutto quello che hai, non anche ciò che non hai.
Un uomo normale, dipendente statale, quindi stipendio sui 1200 euro al mese. La sua rovina è stata essersi fidato di una Banca, che ha fatto “scommesse” con il denaro del suo conto corrente, fino a creare un buco di 3 milioni di euro.
Possibile che l’istituto bancario non si accorga che qualche operazione non va, prima di arrivare a un buco simile? Strano, perchè in tutto questo, oltre al signor Vallesi, chi ci rimette è l’istituto stesso, ben sapendo che un uomo con il suo stipendio non potrà mai coprire un debito tale. Come mai l’istituto non si è tutelato da questi rischi?
Domanda: si può scommettere senza garanzia che si va in rosso? Traduco: posso scommettere 30mila euro se ne ho 1000 sul conto? E se perdo questi 30mila posso continuare a scommettere fino ad arrivare ad un conto in rosso di 3 milioni di euro?
Non deve essere tanto legale se l’operazione è stata commessa su 73 correntisti di cui 72 risarciti. E indovinate di chi si sono dimenticati nella lista degli aventi diritto? In graduatoria nell’ordine del risarcimento il nostro uomo era al posto numero 9, ma è stato saltato a piè pari e hanno pensato a tutti gli altri. Perchè?

Probabilmente era più brutto, o più antipatico. Deve essere andata così. Ma ricostruiamo un po’ la storia.
Nel 2003 un consigliere comunale di AN, Pierluigi Catapano, dichiarò che nella Caripe, si facevano rischiosi giochi finanziari avallati dalla banca d’Italia, finanziariamente leciti ma moralmente e civilmente ignobili.
Sempre in quel periodo, il consiglio di amministrazione ha assunto un pool di super scienziati, una task force di 16 (diconsi sedici) persone con il compito di valutare le nuove strategie della banca: scienziati ovviamente strapagati (un normale stipendio di un impiegato loro ce l’hanno in un solo giorno). Il risultato dell’A-Team è stato che la Caripe, dopo aver creato un buco totale di 100miliardi di vecchie lire, è stata inglobata (diciamo risucchiata) dalla banca di Lodi che ne ha acquistato le azioni, ovviamente sotto costo (come si chiama in gergo? Sciacallaggio o speculazione?. E sciacallando (o speculando) sulla Caripe, la Banca di Lodi decolla al 51 % delle azioni. I responsabili sono identificati in incensurati facenti parte di tre gruppi: direzione, consiglio di amministrazione e collegio sindacale. Una sanzione pecuniaria è stato l’unico provvedimento (un massimo di 10mila e dispari euro). A seguito di questi piccoli incidenti di percorso, la Caripe (o quello che rimane della caripe) si mette nelle mani confortevoli della Popolare Adriatica, della Tercas: insomma, si sentono parole di grande soddisfazione dai dirigenti che “raccolgono la sfida di far ripartire la banca” offrendo particolari benefici per tutti, soprattutto per gli acquisti di immobili, mutui agevolati e bla bla bla. Però in tutto questo bel percorso e in tutti i bei discorsi dei professoroni e scienziati, il caro Giovanni Vallesi è rimasto schiacciato, perchè come è vero che nell’atto di risarcire tutti la banca “aggiusta il bilancio” togliendo quel buco che di fatto non risulta nel bilancio dell’istituto di credito (probabilmente ai fini di eventuali ispezioni), nei fatti, sul conto del Vallesi quel macigno rimane. Anzi! Tutt’ora ogni 3 mesi si vede arrivare più di 100mila euro di interessi passivi. E per Pescara, Vallesi non esiste. Non ha diritto a una vita, non può farsi un mutuo (e probabilmente anche potendo sarebbe lui a non volerlo fare, visti i precedenti con questa filiale). Però ho sentito che un romeno ha beccato 12 anni di galera per aver clonato carte di credito. Se si denuncia la clonazione, il cittadino derubato viene risarcito dalla banca, che però a sua volta è assicurata, quindi nessuno ci rimette niente. Al limite la Visa perde 1000 euro (ma è la Visa, e la truffa è ben inferiore). La morale è: se devi rubare, ruba tantissimo, più di quanto riesci ad immaginare. Rischi al massimo di fare il presidente del consiglio.

By Antonella Serafini

Published: 23/10/2008

http://www.censurati.it/2008/10/23/giovanni-vallesi-luomo-truffato-dalla-banca-di-cui-nessuno-parla/

T.S.O., AFFARI E GIUSTIZIA. I CASI MARIANI E CROSIGNANI

IL RACKET CHE INTERDISCE.

Sane di mente o psichicamente disturbate?  Lucide testimoni di gravissimi atti criminali avvallati dalla magistratura o instabili mitomani da sottoporre contro la loro volontà a trattamenti sanitari obbligatori?
A porre il dubbio due storie, pubblicate sul mensile Casablanca. Protagoniste due donne. Di età, città, vissuti diversi, ma con un unico filo conduttore: due cause di “interdizione”, avvallate dal Tribunale di Milano che si inseriscono in vicende per nulla chiare. Avendo conosciuto personalmente sia le vittime che i magistrati civili e penali interessati ai relativi casi ci sentiamo di spezzare una lancia in favore delle prime protagoniste dell’allucinante odissea psichiatrico-giudiziaria.

Secondo il codice civile si può richiedere l’interdizione quando una persona maggiorenne si trova in situazione di abituale infermità di mente. Si applica dunque in casi di incapacità legale a compiere atti giuridici.

Una sentenza del tribunale che dichiara l’interdizione dispone da parte del giudice tutelare la nomina di un tutore, scelto di preferenza tra: il coniuge che non sia separato, il padre, la madre, un figlio maggiorenne o la persona designata con testamento dal genitore superstite, con il compito di rappresentare legalmente l’interdetto e di amministrarne il patrimonio.

E qui il terreno inizia ad essere insidioso: abituale infermità di mente? Per abituale infermità di mente, la giurisprudenza non intende solo l’esistenza di una tipica malattia mentale, ma anche la semplice presenza i un’alterazione nelle facoltà mentali, tale da dar luogo ad un’incapacità totale o parziale di provvedere ai propri interessi.

Piera Crosignani è la prima vittima di una delle due storie ai limiti di ordinaria follia. Le cronache locali della toscana parlano di lei. La vicenda è clamorosa, non fosse altro per i 150 miliardi di lire che fanno da sfondo o, più propriamente, da protagonisti. A fine anni novanta, la signora è un’anziana ereditiera. Suo nonno materno nonchè ricco industriale del settore siderurgico, le lascia un tesoro valutato circa 150 miliardi. «Sono in un incubo senza via di uscita – ripeterà in quegli anni l’ereditiera -, anche se ho contattato un amico di vecchia data, medico, ora ministro (Umberto Veronesi, ndr) e spero che qualcosa per me possa cambiare. Intanto sono stata sbattuta fuori dalla casa dove ho abitato per cinquanta anni e tutti i miei beni sono stati assegnati ad un tutore».  L’incubo di cui parla inizia il 9 giugno 1999, quando, con una sentenza del tribunale di Milano (pubblico Ministero Ada Rizzi, giudice tutelare Ines Marini – nomi da tenere presente, perché torneranno nella seconda storia), viene stabilita l’interdizione della Crosignani su richiesta dell’ex marito, un diplomatico di nazionalità austriaca. Ecco il punto: il marito va in tribunale e dice che la sua ricchissima moglie non ci sta con la testa, un giudice chiede una perizia; una udienza, una contro-perizia e il giudice decide. Tutto in venti minuti. E decide che sì, la signora Piera si trova in situazione di abituale infermità di mente, anzi, dirà la sentenza, «affetta da delirio paranoico». Il patrimonio naturalmente passa di mano, dalle sue a quelle dei tutori che si sono avvicendati [una in particolare, l’avvocato Cinzia Sarni è la moglie del magistrato di Cassazione Ersilio Secchi componente della Corte di appello di Milano (n.d.r. personaggio già tristemente noto ad altre vittime seguite dall’Associazione che dovrebbe venire trasferito per incompatibilità non potendo esercitare nello  stretto distretto dove opera la moglie] e che – stando alle accuse formulate dalla donna e da chi la assiste – non si dimostreranno all’altezza di gestirlo con prudenza e oculatezza, anzi! Pur non potendo ancora affermarlo con certezza, l’ammanco patrimoniale subito nel giro di pochi anni potrebbe arrivare fino a 35 milioni di euro. La Crosignani, da ricchissima che era, rimane senza nulla. Si trasferisce nella provincia lucchese dove amici l’accolgono e la sostengono.

La paranoica Piera, maturità classica, quattro lingue parlate correntemente, studi alla Sorbona e a Cambridge, legge Sofocle e Ibsen quando incontra lo psichiatra Gian Luca Biagini all’Asl 2 di Lucca. E Biagini contesta da subito la perizia ammessa dal tribunale di Milano: «Piera Crosignani – affermerà – è perfettamente lucida, dotata di capacità critiche non comuni, sostenuta da un elevato patrimonio culturale. E’ del tutto esente da turbe psichiche. Ha esposto con accorati accenti fatti della sua vita. Nei colloqui non ho riscontrato elementi psicopatologici di sorta». Ma allora non è matta ne paranoica? Per Biagini «E’ sana di mente, sanissima, ed è un miracolo che il suo cervello sia uscito indenne da questa sconvolgente esperienza».
E lo psichiatra di Lucca va oltre: spedisce un esposto al Ministero della Giustizia e al Consiglio Superiore della Magistratura oltre che segnalare all’Ordine dei medici di Milano il comportamento del perito del tribunale e la validità della perizia a suo dire inspiegabile. Silenzio e ancora silenzio. Si susseguiranno perizie su perizie, finchè la Crosignani, matta per legge da anni, viene riabilitata da una revoca della sentenza di interdizione accolta nel giugno 2005. Della serie: “ci scusi tanto, ci siamo sbagliati!”. La signora Piera Crosignani è sanissima. Happy end? Neanche per sogno.
Il giudice tutelare del tribunale di Lucca impedisce alla signora di ritornare in possesso delle sue proprietà. Sana sì, ma che non tocchi il suo patrimonio (per quello ci sono i tutori, sempre). Delle due l’una: se la Crosignani proprio non è matta, allora il suo delirio paranoico diagnosticato può anche essere, al contrario, una lucida consapevolezza di essere divenuta vittima di una organizzazione truffaldina.
Ancora sette anni fa raccontava a Il Giornale del 17 settembre 2000 come il sospetto di non essersi imbattuta in un banale errore professionale di un perito frettoloso o inesperto le fu chiaro sfogliando Famiglia Cristiana. Il settimanale riportava, in un’inchiesta dal titolo piuttosto eloquente «Soli e assediati. Le truffe agli anziani», le parole di un magistrato milanese «su piani orditi per impossessarsi dei beni di anziani soli e abbienti, di notai manigoldi, di avvocati conniventi». Peccato che quel magistrato milanese che denuncia i piani truffaldini e professionisti senza scrupolo un mese e mezzo prima abbia firmato la sua interdizione e messa nero su bianco la sua infermità mentale!

«Su, ma molto su, sanno benissimo come stanno le cose – ha pochi dubbi in proposito la signora Piera – e io che ho sessantanove anni lo so che ci vuol poco a far passare per mentecatto un vecchio indifeso. Gli avvoltoi vanno al catasto, controllano chi ha delle proprietà. E lì si decide a chi tocca. E’ un racket!».

Facciamo il punto: per mettere su un ipotetico raggiro ci vuole un’organizzazione criminale, delle complicità nelle istituzioni giudiziarie e delle connivenze nelle professioni mediche e psichiatriche. Si individua una persona economicamente dotata ma in difficoltà, per l’età o – vedremo – per contingenze diverse; si utilizzano eventuali spazi discrezionali necessariamente esistenti nella normativa per interdirsi viene di fatto in possesso del patrimonio potendone disporre tramite il tutore o l’amministratore di sostegno a vantaggio proprio (vedasi svendite a prestanome o a complici di immobili a prezzi decisamente inferiori ai prezzi di mercato). E il gioco è fatto. la vittima.

Ecco il dubbio, ecco il sospetto, l’ipotesi di reato: un istituto giuridico dai principi e presupposti sacrosanti, introdotto a tutela di chi sia incapace davvero di compiere atti giuridici e per permettere a parenti, o persone vicine, di curarne gli interessi, utilizzato per scopi criminali.

Dubbio doveroso e sospetto legittimo che, per chi viene dichiarato matto per legge, diventano certezza di un raggiro, truffa in piena regola, dramma che si trascina negli anni in un susseguirsi di risvolti kafkiani. Il tutto in un rassegnato quanto complice silenzio.

A rendere il sospetto una certezza, ci ha pensato poi lo stesso marito della Crosignani, che dopo averla fatta interdire, si pente, e rivela di aver ricevuto forti pressioni per il suo operato poco limpido. In quanti hanno tratto beneficio da questa operazione?

A non avere dubbio alcuno sull’esistenza di un vero racket delle interdizioni e a denunciarlo pubblicamente e in ogni sede è Claudia Mariani, un’altra vittima di quel meccanismo perverso e criminale che ha rovinato l’esistenza di Piera Crosignani e di chissà quanti come loro.

La incontriamo in un bar della periferia milanese, accompagnata da Gian Luca Biagini, lo psichiatra di Lucca che ha combattuto per anni al fianco di Piera Crosignani. Forte e combattiva, nonostante il logoramento di 12 anni di persecuzioni giudiziarie, la Mariani è pronta a riversare come un fiume in piena la sua vicenda, a evidenziare paragrafi, righe, parole di documenti, perizie, esposti, denunce che escono dalle copie dei fascicoli aperti sul tavolino. «E’ tutto qui: qui ci sono i nomi, i collegamenti, tutte le prove».

Laureata in filosofia con orientamento psicologico, lucidissima e agguerrita, pronta a ripercorrere ancora una volta quei dodici anni che iniziano con la denuncia di un traffico illecito, passano per processi, minacce di morte,
divorzio, lutti familiari e, non una, ma ben quattro procedimenti di interdizione. Biagini, davanti alla tazzina di caffè, annuisce, conferma, puntualizza sempre con lo sguardo benevolo rivolto verso la sua, malgrado tutto, paziente che alza e abbassa gli occhiali mentre sfoglia il raccoglitore.

Ripercorrere gli ultimi dodici anni della sua vita vuol dire consultare un migliaio di pagine fra denunce, perizie, memoriali, documentazione legale, atti processuali. Il caso fu oggetto anche di 2 interrogazioni parlamentari.

Ma partiamo dall’inizio: nel 1989 Claudia sposa Sergio Bassanese, istriano di origine e residente in provincia di Alessandria. Insieme costituiscono durante il 1992 la B.M. International, socio accomandatario lui, accomandante lei. La società, dedita alla compravendita di autoveicoli, si rivela agli occhi della Mariani sempre di più una copertura di illeciti traffici internazionali di veicoli rubati. Le richieste al marito di spiegazioni circa il giro di affari in nero che man mano scopre transitare su conti correnti anche a lei intestati ricevono come risposta minacce e intimidazioni in un crescendo sempre più esplicito e violento.

E il giro d’affari nascosto dietro la B.M. e oggetto dunque di totale evasione fiscale si rivelerà – secondo le sue ricostruzioni – di un importo compreso fra i due e i quattro miliardi di lire mensili, con un guadagno netto da parte del marito di non meno di cento milioni al mese. Non poco per una persona che si dichiarerà poco più che nullatenente.

Basta e avanza per superare paure e inquietudini per le minacce. Claudia non vuol rendersi indirettamente complice degli illeciti del marito e informa Autorità pubbliche e magistratura di quanto scoperto, continuando, su loro indicazione, a raccogliere informazioni utili. E le informazioni documentali Claudia le porta copiose alla competente Procura di Tortona; ma l’inchiesta non prosegue, rallenta, si insabbia, e si ferma. Di più: il procuratore capo Aldo Cuva, che da lì a pochi mesi verrà radiato dalla magistratura per essere accusato di aver manomesso i verbali d’interrogatorio nell’inchiesta sui drammatici fatti dei sassi dal cavalcavia di Tortona, «cercò – dirà la Mariani – di farmi passare per pazza e colpevole, impedendo in tutti i modi il proseguimento delle indagini».
Emblematico a questo proposito un documento, di cui siamo in possesso, redatto a mano dal dottor Cuva su carta intestata della Procura indirizzato al comandante della Guardia di Finanza di Tortona con il quale si suggerisce di «farsi carico… di elementi di giudizio utili, eventualmente, sotto il profilo della calunnia».

Sembrano ora trovare conferma, nei fatti, le tante minacce rivolte dal marito e rintracciabili nelle numerose denunce depositate dalla Mariani negli anni: «Non immagini neppure chi sta dietro a sto giro!!! Abbiamo amici magistrati, finanzieri, poliziotti che lavorano per noi. Ti distruggiamo fino a farti interdire e internare in un manicomio. E quando sei lì dentro ti distruggiamo fisicamente e cerebralmente».

L’aria di questa città diventa per Claudia asfissiante e insopportabile. Il Bassanese chiede la separazione ma nega, in quanto nullatenente, ogni tipo di sostentamento alla moglie.

Mentre gli organi di stampa locali e le varie associazioni a difesa del cittadino iniziano ad occuparsi di questa strana vicenda, Claudia torna a Milano dalla madre anziana e malata, nella speranza di trovare, chissà, il giudice a Berlino nel tribunale di mani pulite. Ma per lei l’appuntamento con quel giudice non è stato ancora fissato.

Trasferitasi a Milano si fa pressante la condizione della madre, l’allora ottantenne Cesarina Fumagalli già affetta da patologie psichiche che peggiorano di giorno in giorno. La mamma si trascura, squallide le condizioni igieniche e personali, non paga le bollette, accumula debiti su debiti nonostante un sostanzioso conto corrente personale che si aggira intorno ai cinquecento milioni di lire. E la figlia provvede alle spese di volta in volta.

Si rivolge dunque alle strutture sanitarie per chiedere il Trattamento Sanitario Obbligatorio (il Tso è un provvedimento amministrativo che dispone che una persona sia sottoposta a cure psichiatriche contro la sua volontà, normalmente attraverso il ricovero presso un reparto di psichiatria) nella speranza che possa essere finalmente curata. Dati gli ormai numerosi decreti ingiuntivi e azioni di sequestro a carico della Fumagalli e la sua incapacità di provvedere a se stessa, alla propria salute e ai propri beni, la Mariani richiede al Tribunale di Milano l’interdizione della madre.

E qui i fatti si susseguiranno con una sequenza travolgente che ha dell’incredibile: il Tso viene revocato e la Mariani si ritrova una imputazione per sequestro di persona da parte del PM Ada Rizzi (la ricordate? La stessa della storia Crosignani); il giudice non ammette prima, per disporla poi, la perizia medico legale; ammette che sì, la Fumagalli «soffre di disturbi ansioso-depressivi già da parecchi anni, cade in uno stato confusionale, ora rigido, ora passionale» ma non ne trae alcuna conseguenza d’ordine medico psichiatrico.

Ma non basta: ora il caso Mariani si riannoda indissolubilmente con il caso Crosignani. Perché manca ancora il colpo di scena: non solo la domanda di interdizione per la madre è stata rigettata ma è ora la stessa Mariani che si dovrà difendere da una richiesta di interdizione. Ad avallare la causa c’è ancora lei, il PM Ada Rizzi. E a proporla, assistita dall’avvocato Calogero Lanzafame, la stessa Fumagalli.

Per Claudia e per quanto riportato nelle denunce depositate poi dalla stessa Cesarina Fumagalli «l’avvocato la minacciava, continuava a chiederle soldi in nero, le faceva firmare documenti senza spiegarle il contenuto, le negava l’accesso ai documenti relativi alla sue cose». Nel 1997 la dottoressa Mariani, sollecitata anche dai giudici tutelari della madre, denuncia Lanzafame per circonvenzione e reati connessi e presenta un ricorso urgente per la limitazione della capacità di agire della madre. Ma denuncia e ricorso, assegnate come sempre alla Rizzi, vengono naturalmente respinte.

Seguono negli anni: denunce e controdenunce; perizie e controperizie (saranno addirittura 12); istanze e controistanze; citazioni in giudizio, richieste di avocazioni, richieste di sequestri cautelari, archiviazioni in un via vai di fascicoli che appaiono e scompaiono interessando tutti i piani di Procura, Tribunale e Corte d’Appello di Milano.

Siamo nel 2000 quando il sostituto procuratore Gherardo Colombo, consultata la memoria presentata dalla Mariani, inoltra con urgenza per competenza alla Procura di Brescia i procedimenti aperti.

Mentre quella Claudia Mariani che chiede l’interdizione della madre malata, presenta alla procura di Brescia, su suggerimento del presidente di corte d’Appello Seriani e del sostituto Colombo, una denuncia per abuso d’ufficio contro il PM Rizzi. Di rimando, la Rizzi cita in giudizio la denunciante Mariani per richiederne l’interdizione, in quanto affetta principalmente da «querulomania».

Sì. E’ una querulomane! Che più o meno è un malato psichico con atteggiamento lamentoso protratto che nasce dalla persuasione reale o immaginaria di aver subito un torto. Persuasione reale o immaginaria? Ma c’è una bella differenza! I reati del marito, il racket delle automobili, le minacce, le percosse, le denunce insabbiate a Tortona, la persecuzione giudiziaria della Rizzi, i corridoi di centri medici e tribunali percorsi fino alla nausea, sono reali o immaginari? Sono pezzi di uno stesso disegno retto «dalla criminalità organizzata – sostiene la Mariani supportata ormai da associazioni, professionisti e magistrati – e da potenti organizzazioni occulte» o sono il frutto della creativa fantasia di una querulomane?

Mentre Brescia dice che la denuncia alla Rizzi è da archiviare, Milano da parte sua non accoglie la richiesta perché fosse designato altro magistrato a svolgere le funzioni di pubblica accusa nei procedimenti riguardanti la Mariani per – usando un termine forense – ragioni di obiettiva inimicizia.

Il 4 aprile 2007 presso il Tribunale di Milano all’udienza in appello per il giudizio di interdizione intentato contro la dottoressa Claudia Mariani dal pm Ada Rizzi, la corte ha preso atto della perizia del tutto favorevole redatta dal Consulente tecnico d’ufficio dottor Vittorio Boni. Sì, ha vinto lei. Il rendez-vous con il giudice a Berlino Claudia l’ha avuto. E’ ufficialmente sana di mente. Come lo è la Crosignani.

Dire che non sia stato facile pare davvero inappropriato! Anzi! Mancano però ancora troppi fili da riannodare, troppe vicende da chiudere. Andiamo a ritroso:

– Inchiesta giacente presso il Tribunale di Tortona: dodici anni sono più che sufficienti, per chi avesse preso parte al presunto racket delle auto rubate, per occultare ogni prova, ogni traccia, ogni piccola evidenza. L’ultima traccia che abbiamo dell’inchiesta risale al duemila. Pierluigi Vigna, ai tempi Procuratore nazionale Antimafia, dispone che i fascicoli passino da Tortona alla Dia di Torino dove, dicono, non ci sarebbero elementi per procedere. Basta come risposta a chi ha avuto il coraggio di denunciare tali reati, subendone – come abbiamo documentato – minacce di ogni sorta, fino a una possibile persecuzione giudiziaria.

– Processo per sequestro di persona a seguito della richiesta del TSO per la madre presso il Tribunale di Milano: la Mariani, pur contestando non pochi atti illegittimi da parte del pm Rizzi, è stata giudicata colpevole e le è stata inflitta una pena di due anni. La sentenza del processo di Appello ha confermato la colpevolezza pur con la sospensione della pena. All’inizio di quest’anno la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza.

– Caso Cesarina Fumagalli: in questo caso la parola fine non viene scritta da una sentenza ma dalla morte della signora nel 2003 Poco prima fu la Fumagalli a chiedere alla figlia di accompagnarla allo studio di Lanzafame per consegnare una revoca di mandato. Revoca che, pur spedita per raccomandata dopo il rifiuto dell’avvocato di ricevere congiuntamente la Fumagalli e la Mariani, venne disattesa da Lanzafame che ha continuato ben oltre a rappresentare la sua ex assistita.

Questo quanto è stato possibile ricostruire. Rimangono, però, troppe domande che aspettano una risposta:

Gli immobili svenduti del patrimonio Crosignani a chi sono andati?
C’è un collegamento fra le minacce dell’ex marito della Mariani e il seguente calvario giudiziario?
C’è davvero un racket che annovera avvocati, giudici e pubblici ministeri, psicologi asserviti o conniventi con poteri criminali?

Ma soprattutto: quante storie, quanti casi Crosignani o Mariani, aspettano di essere raccontati?

di Antonella Serafini

Questa inchiesta è stata pubblicata sul mensile dell’Associazione Antimafia Casablanca, che rischia di chiudere per “dimenticanze” dello Stato, e perchè forse l’antimafia è concepita solo se si parla di coppole e lupara.

http://www.censurati.it/2007/08/05/il-racket-che-interdice/