L'esemplare battaglia delle figlie (ultranovantenni) di un barone calabrese

DA OLTRE 35 ANNI IN LOTTA PER L’EREDITA’

Sono le figlie legittime ma non hanno diritto all’ eredità. Ida e Grazia Mazziotti, ultranovantenni, hanno combattuto per oltre 35 anni nelle aule di giustizia italiane. Sino alla Suprema Corte di Cassazione. Per essere prese in giro.

Questo pare essere l’amaro epilogo di una vita dedicata a fare emergere la giustizia, rivendicando i loro sacrosanti diritti ereditari.

Infatti, se la corte d’appello aveva, almeno in parte, dato loro ragione, la Cassazione ha cancellato quella sentenza «con tre righe». I giudici del Palazzaccio, secondo l’ avv. Paolo Gamberale che ha cercato di ottenere la revocazione straordinaria della scandalosa sentenza sono incorsi in una «svista». Un «errore di fatto», per rimediare al quale l’ordinamento, in sede civile, offre una unica possibilità, quella di ottenere l’ annullamento della decisione, ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c. 

La storia è una storia d’altri tempi. Che comincia alla fine dell’Ottocento in Calabria, a Saracena, provincia di Cosenza. Qui il barone Giovanbattista Mazziotti, avvocato, possiede circa 120 ettari di terreni e fabbricati rurali. È ricco e celibe, ma non è solo: ha una relazione con Tommasina Ferrari, sposata e abbandonata da un marito che è emigrato in America subito dopo il matrimonio e non è più tornato. In 40 anni, tanto dura il legame «clandestino», vengono al mondo tre maschi e tre femmine. Fra cui Grazia e Ida, oggi, sono le sole superstiti. «Il barone – ci racconta una nipote delle anziane signore, Vittoria Maradei – allevò e si curò dell’educazione e della crescita dei figli, ma non riconobbe mai la paternità». I rampolli ebbero il cognome del padre sparito, Di Pace, e quando Mazziotti morì, nel 1969, scoprirono che il patrimonio già non c’ era più. La metà era stata regalata al nipote (da parte del fratello) Domenico, anch’ egli avvocato, in occasione delle sue nozze: anno 1945. Altri 60 ettari erano stati ceduti, sotto forma di rendita vitalizia, al pronipote dodicenne, Carlo, nel 1958. Il testamento, per quel poco che restava, nominava erede universale ancora Domenico Mazziotti, l’attuale controparte delle cugine. La causa inizia il 31 agosto ‘ 71, quando due dei figli del barone già non ci sono più. Inizia e subito finisce, in quanto gli altri quattro fratelli Di Pace non possono dimostrare che il padre, in realtà, è un altro. La corte d’appello, alla quale si rivolgono dopo la sconfitta in tribunale, sospende il giudizio in attesa dell’ accertamento della paternità, sentenza che si fa attendere 15 anni. Ma è il passaggio fondamentale. I Di Pace (a questo punto Mazziotti) riprendono la vertenza e vincono il primo round: le sorelle (anche il terzo fratello nel frattempo è morto) sono le eredi legittime, benchè possano aspirare soltanto al recupero dei pochi beni elencati nel testamento e della donazione nuziale del ‘ 45. Per la parte ceduta al pronipote, invece, non c’ è nulla da fare. Per motivi diversi la sentenza viene impugnata sia dalle figlie del barone (ormai due), sia da Domenico Mazziotti. Questi sostiene che il regalo avuto dallo zio per il matrimonio non può essergli sottratto, perchè le eredi hanno tralasciato di sottoporre la questione al collegio quando la causa è ricominciata, nel ‘ 98. La tesi, bocciata dai giudici d’ appello, viene invece accolta dalla Cassazione. E le anziane sorelle si ritrovano con un pugno di mosche in mano. Per le signore Mazziotti è una doccia fredda. Ma come? La donazione nuziale, spiega l’ avvocato Gamberale, era menzionata alle pagine sette e otto del ricorso per l’eredità. Si è trattato senza dubbio di un errore «obiettivamente e immediatamente rilevabile». Che, si augurano Ida e Grazia, la Suprema Corte possa cancellare, come riferisce, Lavinia Di Gianvito, nella minuziosa ricostruzione dei fatti pubblicata sul Corriere della Sera e sopra riassunta.

Ma le cose non vanno come dovrebbero. L’elementare diritto di eredi legittime, “scippato” dal potente cugino (Domenico Mazziotti), vicino alle locali logge templari, non viene ancora una volta riconosciuto, neppure in sede revocatoria.

Della lunga odissea giudiziaria delle due anziane sorelle, che ha le sue origini nella Calabria latifondista e baronale, dove il padre Avv. G. Mazziotti ha una relazione durata 40 anni, con la madre delle sorelle, già coniugata con un precedente marito (che dopo il matrimonio l’abbandonava, emigrando in America), ne da notizia anche la stampa nazionale, nonché la trasmissione televisiva Mi Manda Rai 3, ben illustrando grazie alla nipote Vittoria Maradei, gli inquietananti retroscena ambientali che hanno impedito alle due battagliere vecchine di ottenere il riconoscimento dell’ingente patrimonio paterno, costituito da vari fabbricati, 120 ettari di terreno e conseguenti rendite per il valore di svariati miliardi delle vecchie lire.

Si trattava, in un buona sostanza, di smascherare una lampante simulazione di una finta donazione che il padre fece al nipote e pronipote Domenico Mazziotti, escogitata in punto di morte (il padre Giovanbattista Mazziotti morì nel 1969),  dietro minacce, per diseredare completamente i figli naturali, mai riconosciuti, nemmeno nel testamento, seppure la madre e il padre avessero com già detto vissuto “more uxorio, per oltre 40 anni, unitamente ai figli, sotto lo stesso tetto, in un rapporto famigliare quasi perfetto, pur non essendosi mai, formalmente, sposati, a causa delle resistenze della famiglia paterna che vantava altolocate discendenze templari, ritenendo la madre, Ferrari Tommasina, di umili origini.

A tale contesto etnosociologico, in cui nel corso degli anni è stato tentato veramente di tutto per impedire alle eredi legittime di intraprendere la causa e di proseguire l’azione intentata nei confronti del cugino, si aggiunge il contesto clientelare della giustizia, che impedisce di ottenere quella giustizia, apparentemente elementare, codificata prima nella Costituzione, eppoi nel codice civile, con l’equiparazione legale e sostanziale dei figli naturali a quelli legittimi.

LA SCANDALOSA LUNGAGGINE E RETROSCENA DELL’ITER PROCEDIMENTALE

Nel 1970, dopo varie peripezie e rifiuti, dipesi, soprattutto, dalle reticenze dell’ambiente calabrese (Castrovillari è ai piedi del Pollino),  ancora caratterizzato da una sorta di feudalesimo, le sorelle riuscirono finalmente a trovare un avvocato disposto ad intraprendere la causa – cosa di per sè a volte difficile anche al nord in casi consimili – al fine di ottenere di essere riconosciute figlie legittime del padre che non volle mai riconoscere i figli coi quali visse fino alla morte insieme alla sua convivente perché questa, non aveva origini sociali ritenute dalla famiglia compatibili con il matrimonio.

Ma, ciò che pur appare “prime facie”  un diritto naturale, nell’attuale aberrante sistema di tacite connivenze, contiguità e aperte collusioni istituzionali, privo di effettivi controlli sull’operato della magistratura, assai spesso non trova quella equa riparazione che ogni persona di buon senso e buona fede si aspetta. Ciò, semplicemente, perché molto spesso gli interessi lesi da riconoscere riguardano le logge massoniche, i locali ambienti forensi, la politica, l’economia e, insomma, chi insomma gode di <protezioni altolocate>, con capacità di pilotare le decisioni su magistrati compiacenti – e, nel caso, se necessario – oliare i meccanismi del potere decisionale, sino alla Suprema Corte di Cassazione.

Ed è così che una semplice causa ereditaria di facile soluzione, quando le controparti sono affiliati a fratellanze, consorterie politico-affaristiche od amici di amici, viene, scientemente, aggrovigliata e dilatoriamente rinviata sine die la sua definizione, per rendere impossibile alle malcapitate vittime di tali artefizi e manovre processuali, il riconoscimento di quegli elementari diritti che in un paese normale e con una magistratura veramente indipendente verrebbero affermati nel giro massimo di tre anni.

Nella specie, dopo ben 35 anni, tenuto conto che le anziane sorelle 92enni erano ancora in vita e non si davano pace, interviene nel novembre 2004, una prima sconcertante sentenza della II sezione civile della Corte di Cassazione (Relatore Dr. Schettino, C. n. 21903/04) che, contro il parere dello stesso Procuratore Generale, con poche righe, incorrendo in palesi errori di fatto e nell’erronea lettura di atti interni, annulla ben 35 anni di cause, cassando la precedente sofferta decisione della Corte d’Appello di Catanzaro, favorevole alle sorelle, con la quale erano stati, invece, riconosciuti i loro diritti di eredi.

E’ a questo punto che viene inoltrato ricorso per revocazione, ex art. 391 bis c.p.c., fondato sull’errore di fatto, contenuto nella sentenza di annullamento della decisione della Corte di Appello di Catanzaro, che riconosceva la ricostruzione dell’asse ereditario e la riduzione della cosidetta “donazione obnuziale”, attraverso cui il cugino si è indebitamente impossessato dell’intero patrimonio ereditario. Il ricorso straordinario viene ancora una volta respinto con motivazioni palesemente capziose, senza tenere in alcun modo conto delle specifiche censure mosse dal legale alla precedente sentenza (C. n. 22835/05).

L’epilogo di questa esemplare quanto amara vicenda dimostra non trattarsi di mero “errore revocatorio”, come abilmente cercato di rappresentare dal difensore per mediare (a cui i giudici di Cassazione ove in buona fede ben avrebbero potuto porre rimedio), bensì di vero e proprio “dolo revocatorio”, disciplinato dall’art. 395 c.p.c., sia da parte dei membri del collegio giudicante sia dello stesso P.G. di udienza, che in stridente contrasto con il precedente favorevole parere già espresso nel pregresso giudizio di legittimità, oggetto di revocazione, chiedeva del tutto inopinatamente il rigetto del nuovo ricorso.

Dall’esame degli atti risulta infatti in maniera eclatante e incontrovertibile la sussistenza del dolo revocatorio in cui è incorsa per ben due volte consecutive la Cassazione, in quanto è falso che nel precedente ricorso avanti alla Corte di Appello di Catanzaro “non siano state riproposte le domande di riduzione della donazione“, come capziosamente e infondatamente affermato nelle decisioni contestate da avvocati senza frontiere, che si ritengono l’effetto di probabili oscure pressioni e interessi, oltre che affette da palesi falsità ideologiche e dolo degli organi giudicanti, stante la gravità del loro comportamento sul piano strettamente giuridico e giurisdizionale. Attraverso tale espediente i giudici di Cassazione hanno probabilmente inteso continuare a favorire una parte in danno dell’altra, ragione per cui è stato ipotizzato il reato di favoreggiamento, falso ideologico, abuso continuato e interesse privato in atti di ufficio, oltre che di associazione a delinquere, come denunciato alla Procura di Potenza. C’è da augurarsi che vengano svolte tutte le opportune indagini nei confronti dei magistrati giudicanti per restituire credibilità alle decisioni della Suprema Corte di Cassazione e la fiducia di tutti quei cittadini onesti che hanno speso la loro vita i patrimoni alla ricerca della verità e della giustizia, come le sorelle ultranovantenni Ida e Grazia Mazziotti.

http://archiviostorico.corriere.it/2005/ottobre/09/anni_lotta_per_eredita_co_10_051009106.shtml

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