STORIA DELLA PERSECUZIONE MASSONICO-GIUDIZIARIA DEL MOVIMENTO PER LA GIUSTIZIA ROBIN HOOD

STORIA DELLA PERSECUZIONE MASSONICO-GIUDIZIARIA DEL MOVIMENTO PER LA GIUSTIZIA ROBIN HOOD

(da “Il Ruolo del Volontariato in funzione del Rapporto dei Cittadini con la Giustizia. Stato e Mafia come unico Sistema” di Pietro Palau Giovannetti)

Il “Movimento per la Giustizia Robin Hood” è una Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale (Onlus), riconosciuta con decreto del Presidente della Regione Lombardia, n. 369/99, a seguito di due sentenze del T.A.R. (in un duplice procedimento per obblighi di fare e nomina di Commissario ad acta), che hanno condannato per due volte consecutive l’Ente resistente (Regione Lombardia), ad iscrivere l’Associazione nel Registro Generale del Volontariato, sezione B) Civile, con effetto retroattivo dal 14.7.98, oltre al pagamento delle spese processuali, stante la temerarietà della resistenza opposta all’esecuzione della prima sentenza (sentenze T.A.R. Lombardia, Sezione III, nn. 2793/98 e 1189/99).

La rilevanza socio-giuridica di tale autorevole giudicato, che a quanto consta rappresenta un caso unico nella storia del diritto nel nostro Paese (e forse in Europa), bene introduce la relazione sociale intercorrente tra una <Associazione antimafia> che si adopera per la tutela dei diritti e le Istituzioni preposte ad amministrare la “cosa pubblica“, ovvero a promuovere l’azione del Volontariato, intesa come strumento di sviluppo della personalità umana (artt. 2, 3 Cost.) ed effettiva partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, nel rispetto dei fondamentali diritti costituzionali ad associarsi liberamente e alla libertà di manifestazione del pensiero (artt. 3, 18, 21 Cost.).

Il Movimento per la Giustizia Robin Hood è infatti una libera associazione di volontariato, sorta per iniziativa di persone comuni, resesi conto dell’assenza di tutela in cui versano i cittadini, che si batte contro la corruzione istituzionale e la piaga della malagiustizia, proponendosi di diffondere un’etica universale dei Diritti Umani, in Italia e nel mondo, nonché di difendere le persone più deboli dai torti e dai soprusi delle varie mafie del potere che, anziché agire per il bene della collettività, soffocano le libertà fondamentali, la legalità e il progresso della civiltà (art. 2 Statuto Associativo).

Il Movimento per la Giustizia Robin Hood (di seguito indicato per brevità: “Associazione“), formalmente costituito con atto notarile il 23.6.1994, nasce, invero, alcuni anni prima, nel 1992, ad iniziativa del “Comitato per la tutela dei Diritti dei Cittadini” che, dal 1986, già, si adoperava, senza fini di lucro, in battaglie ambientali, nei quartieri metropolitani, contro la speculazione edilizia e la “mafia del nord“, in difesa dei cittadini più deboli, dando impulso con migliaia di denunce ed esposti alla Magistratura e ai massimi organi dello Stato, all’azione denominata “mani pulite“, ovvero a quel vasto movimento popolare spontaneo, a sostegno dei magistrati impegnati nella lotta alla corruzione e alla mafia, per il rinnovamento delle Istituzioni.
Lo stesso tenore dei titoli di alcuni tra i tanti articoli pubblicati sulle attività del “Comitato per la tutela dei Diritti dei Cittadini“, senza bisogno di particolari commenti, mette bene in luce, l’attività dell’organismo che darà vita, qualche anno dopo, al Movimento per la Giustizia Robin Hood e ad Avvocati senza Frontiere, di cui parleremo più avanti (Mon., “Lo stabile settecentesco posto sotto sequestro dal Pretore. Palazzo fatto a pezzi. Le denunce degli inquilini contro la proprietà…“, in L’Avvenire, 7/5/87; Biffi, “Si può dire no ai palazzinari milanesi“, in “Famiglia Cristiana”, Agosto 1991; P. D’Amico, “Dopo il blocco della licenza arriva una gru e continuano i lavori. Sfida alla legge in Via Zenale. Totalmente ignorata la decisione della magistratura“, in “Il Giorno”, 29/10/91; T. Maiolo, “Palazzi e Giustizia“, in “Il Manifesto” 7/3/92; A. Sessa, “Giù le mani dalla città. Un comitato popolare dice basta alle speculazioni edilizie.La denuncia di anni e anni di abusi nel centro storico sfocia in una nuova forma di protesta“, in “L’indipendente”, Cronaca di Milano, p. 24, 3/11/1992; D.G., “S’incatenano per contestare i box. In Via Zenale entra in azione il Comitato per la difesa dei diritti dei cittadini“, in “Il Giorno”, 3/11/92).

Consapevole che la corruzione e l’arroganza di chi detiene il potere costituiscono un problema mondiale, insito nella natura umana, l’Associazione, da alcuni anni, si propone di dare vita ad una “Internazionale della Pace“, attraverso un ‘progetto confederativo’ (con statuto da depositarsi presso le Nazioni Unite), di tutte le associazioni impegnate nella tutela dei Diritti Umani, in modo da rendere più efficace e “meno vulnerabile” l’azione di ogni singola associazione che, spesso, si trova ad affrontare, isolatamente, la repressione nel proprio Paese.
Cosa, per l’appunto, direttamente, sperimentata, dal Movimento per la Giustizia Robin Hood, attraverso l’ininterrotta azione persecutoria delle istituzioni, a partire dalla temeraria resistenza giudiziale della Regione Lombardia e del Comune di Milano, sopra riferita, finalizzata ad impedire il suo riconoscimento giuridico, quale Ente no profit, sino ai reiterati dinieghi e boicottaggio di qualsiasi sua attività associativa (sfociati nello spoglio violento e clandestino della sede di Via Dogana 2, in Milano, ove sono stati smantellati i suoi uffici e la mostra umanitaria Artisti per la Pace – Pittori contro la guerra 1999) e ai ripetuti <arresti illegali> di attivisti che manifestavano pacificamente davanti al Tribunale di Milano, di cui meglio appreso si riferirà.

L’Associazione si presenta come il primo movimento organizzato non violento, nella storia del nostro Paese, a tutela della legalità e dei principi di giustizia, “a cui ogni spirito libero” (si legge nella home page del sito internet della Provincia di Milano) …”è chiamato a dare il proprio apporto” (www.associazioni.milano.it/robinhood/).
Nonostante, i nobili principi, l’ispirazione gandhiana e il suo collocarsi al di sopra delle contrapposizioni ideologiche: <destra, centro, sinistra>, come sopra accennato, l’Associazione non incontra il favore né delle Autorità locali e centrali, né quello degli schieramenti della Magistratura, in larga parte politicizzata, che guardano con sospetto e timore, il consolidarsi nella società civile di una organizzazione con tali caratteristiche, che si propone di tutelare con fermezza la legalità, sorvegliando le attività di politici, pubblici amministratori e giudici, i quali ultimi, non di rado, hanno dimostrato di essere collusi e/o contigui agli interessi delle classi dominanti.

Il tenace quanto illegittimo rifiuto opposto da parte della Regione Lombardia e Comune di Milano all’iscrizione del Movimento per la Giustizia nel Registro Regionale e Comunale delle associazioni di volontariato, nonché l’estrema lentezza con cui sono state accolte le relative domande, anche in sede decidente, dal T.A.R. per la Lombardia, ben possono fare capire quali resistenze istituzionali abbia dovuto superare l’Associazione per affermare il proprio diritto di esistere e svolgere serenamente la propria <mission>, cosa che, ancora, oggi non gli è consentito pienamente, a causa di un pervicace ostruzionismo paralegale, boicottaggi e impunite azioni persecutorie, da parte di Enti e Istituzioni, conseguenti l’assoluta inerzia della Magistratura inquirente e giudicante, connivente con i poteri forti che governano il Paese.

Basti pensare che per ottenere le citate pronunce di condanna della Regione Lombardia, la quale sosteneva temerariamente che le vittime degli abusi istituzionali “non avrebbero rivestito lo specifico carattere di soggetti svantaggiati“, si sono resi necessari ben cinque ricorsi amministrativi, di cui uno al Consiglio di Stato (tuttora inesaminato, a distanza di oltre 8 anni), una querela di falso, avverso i provvedimenti posti a base dei dinieghi e una serie di ricusazioni e denunce, anche nei confronti di interi collegi del locale Tribunale Amministrativo, tanto che per formare il collegio giudicante, che ha reso le due favorevoli decisioni, sono stati chiamati dei giudici esterni.

Alla freddezza della nomenklatura dei massimi rappresentanti del mondo della politica e della giustizia fanno, però, da contrappeso il calore della gente comune e dei molti onesti magistrati, pubblici funzionari, avvocati, studenti e lavoratori che, in massa, aderiscono alle iniziative dell’Associazione, la quale raggiunge ben 250.000 aderenti e simpatizzanti, nel 1994, a seguito delle sue campagne per la confisca dei patrimoni illeciti di mafiosi e tangentisti, i cui banchetti per la raccolta di firme a sostegno della petizione popolare, rivolta alle Camere, al Presidente della Repubblica, al Parlamento Europeo e alle Nazioni Unite, occupano le piazze delle maggiori città italiane e, finanche, di piccoli paesi delle isole e del centro-sud, in cui le persone comuni decidono spontaneamente di organizzarsi e prendere in mano il loro destino.
Un fenomeno partecipativo che si espande a macchia d’olio, silenziosamente, senza bisogno di mezzi di propaganda, sedi di partito, risorse finanziarie. Un fenomeno partecipativo di massa che si mette in moto da solo, attraverso una modesta associazione di volontariato, fatta da gente comune per difendere le persone comuni, fuori dalle logiche della partitocrazia, contro i soprusi del potere.

Ciò, può, quindi, ben rendere, l’idea di quale estremo bisogno di giustizia attraversasse e, tutt’oggi, continui ad attraversare il Paese, stante che quella domanda di giustizia e di legalità, proveniente da ogni strato della popolazione, è rimasta senza risposta.

Gli anni che hanno caratterizzato maggiormente l’attività pubblica dell’Associazione sono stati sicuramente quelli che vanno dal 1992 al 1995, nella c.d stagione di “mani pulite“, in cui da nord a sud del Paese, migliaia di volontari si riversano nelle piazze principali e avanti ai Tribunali di ogni regione italiana, organizzando raccolte di firme, manifestazioni spontanee e pacifici “sit-in“, in solidarietà ai magistrati antimafia e anticorruzione, chiedendo loro di “andare fino in fondo” e di “non guardare in faccia nessuno“, neppure, ovviamente, gli stessi magistrati corrotti, contigui a mafia, politica e massoneria, come ad esempio, l’ex Procuratore di Palermo, Gianmanco (referente della mafia in Sicilia), l’ex Capo dei G.I.P. romani, Renato Squillante (collettore delle tangenti “Previti-Berlusconi”), i magistrati di Cassazione, Verde e Carnevale (quest’ultimo grande assolutore di mafiosi) o, l’ex Presidente Vicario del Tribunale di Milano, Diego Curtò e l’ex Generale della Guardia di Finanza, Giuseppe Cerciello, entrambi condannati per fatti di corruzione, che io stesso denunciai, sin dal lontano 1989, passando per lunghi anni per visionario, tanto da avere subito plurimi processi per pretesa “diffamazione” e “calunnia“, da cui sono stato, infine, scagionato, dopo una strenua battaglia giudiziaria (Citacov, “Il generale Cerciello l’aveva querelato, assolto“, l’Informazione, p.41, 30/11/94; Palau Giovannetti, “la Mala-Giustizia. Corruzione, Clientele, Mafia, Massoneria. Il Caso Palau-Classic Cars“, libro bianco, a cura del Comitato per la Tutela dei Diritti dei Cittadini, 1993).

Petizioni popolari, manifestazioni e iniziative contro la mafia e la corruzione, promosse dal Movimento per la Giustizia Robin Hood, suscitano l’attenzione, anche, di testate ed emittenti televisive estere, interessate a documentare il fenomeno di “mani pulite” e il suo retroterra logistico e organizzativo, trovando spazio sui maggiori quotidiani italiani locali e nazionali (Gi. Za. “Un trentenne miliardario fonda un movimento per la giustizia. E’ c’è anche Robin Hood“, in “L’Indipendente”, 15/2/94; Piana, “Un’associazione milanese estremo baluardo a difesa del pool Mani pulite“, in “La Voce”, 19/11/94; S. Barigazzi, “Giustizia l’è morta. La piazza si dispera“, in “Il Manifesto”, 7/12/94; S. Barigazzi, “Manifestano a Milano. Tra i fischi spuntano le bandiere di Forza Italia“, in “Il Manifesto”, 8/12/94; “Il Corriere Mercantile”, “Banchetti aperti in Via XX Settembre a sostegno dei giudici milanesi“, Genova, 13/2/95; la Repubblica, “Iniziata raccolta di firme a favore di Mani Pulite. Confiscate i beni a mafiosi e corrotti“, Torino, 10.5.95; la Repubblica, “Raid politico-turistico ad Hammamet. Vacanza di otto giorni, tutto compreso, per chiedere l’estradizione di Craxi“, pag. 8, 1/6/95, D.B., “Dalla Città. Petizioni. Fino al 22 raccolta di firme per il pool Mani pulite“, in “La Stampa”, 15/7/95; R.C., “Davanti a S. Croce, Raccolta di firme. Col movimento Robin Hood“, in “Il Piccolo”, Luglio 1995; Verres, “Robin Hood in Valle“, in La Vallè, Aosta, Agosto 1995; A. Carenzo, “Amarcord di un idolo. Nel palazzo aleggia ancora il fantasma di Di Pietro“, in “Il Secolo XIX”, 18/1/96) .

Le attività petitorie dell’Associazione, contro i c.d. decreti “salvaladri” del governo (Biondi e Tremonti), volti a garantire l’impunità ai grandi corruttori di regime e legare le mani alla magistratura, in materia di indagini fiscali e tributarie, vengono riprese, oltre che dai quotidiani, come la Voce (“Seimila firme contro il decreto Tremonti“, 27/7/94), anche, da riviste giuridiche, socio-politiche e settimanali dei consumatori, come “L’Incontro” (“Movimento per la Giustizia. Una petizione contro i corrotti“, n. 4/95) e Il Salvagente (Palau Giovannetti, “C’è un decreto che non deve passare“, in “Il Salvagente”, Anno 3, n. 31, Agosto 1994), ove si denuncia, come il governo, nell’estate 1994, avesse cercato di fare passare alla chetichella, il “decreto Tremonti” (dal nome del Ministro delle Finanze), soprannominato “salvaladri bis” (poi bloccato dalla mancanza del numero legale e dalla protesta popolare), che doveva andare a rimpiazzare l’allora più noto “decreto Biondi”, pure ricusato dalla piazza, attraverso il quale il potere politico intendeva sottoporre al suo incondizionato e discrezionale potere di veto, le verifiche fiscali e tributarie nei confronti dei grandi evasori di Tangentopoli, prima di competenza del Secit della Guardia di Finanza, così impedendo alla Magistratura di indagare liberamente.

Gli anni che seguono, dal 1996 al 1999, che segnano il riflusso dell’azione di Robin Hood e il fallimento di “Mani pulite” (rivelatasi una mera operazione <mediatico-giudiziaria> per ricostruire il volto di una classe politica e di una magistratura che non godevano più di alcuna credibilità, da parte dei cittadini), sono gli anni del violento attacco del potere alle strutture organizzative dell’Associazione che, l’8.6.1999, a mezzo della Polizia Municipale, viene spogliata con violenza e minaccia dei locali di Via Dogana 2, in Milano, sede legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, seppure la magistratura avesse respinto con una duplice decisione, passata in giudicato, la pretestuosa richiesta di rilascio avanzata dalla giunta comunale, proprietaria dell’intero stabile, ove, sono, tuttora, ospitate diecine di associazioni, con ciò dimostrandosi la natura repressiva e discriminatoria dell’illegale azione di “spoglio” (impropriamente definita di “autotutela amministrativa“) e la lampante faziosità del Comune di Milano, che sosteneva intendere “allontanare tutte le associazioni dal centro storico, adducendo la necessità di ridestinare gli spazi ad attività commerciali” (Palau Giovannetti, “Storia di Robin Hood“, in “La Voce di Robin Hood“, N. 1, Ottobre 2002, p. 6; e “Persecuzione politico-giudiziaria“, in “La Voce di Robin Hood“, n. 0, Novembre-Dicembre 1999; e (sempre dello stesso autore) “Il Pretore ci ha dato ragione“, in “Corriere della Sera“, 28.4.96).

La violenta rappresaglia del potere, che intende spazzare via ogni sacca di resistenza e di lotta alla corruzione, non si accontenta di colpire le strutture logistiche dell’Associazione, facendole venir meno qualsiasi sostegno, dopo aver smantellato, clandestinamente, senza alcun preavviso, i suoi uffici e archivi (ove oltre alla mostra umanitaria “Pittori contro la guerra – Artisti per la Pace”, vengono asportati centinaia di fascicoli processuali), ma si abbatte, anche, sui volontari e i responsabili del Movimento per la Giustizia Robin Hood, i quali, senza trovare alcuna tutela, da parte della magistratura, vengono fatti oggetto di continue azioni intimidatorie e <fermi illegali>, da parte di agenti delle forze dell’ordine (che più volte al giorno si presentano ai banchetti di raccolta firme, cercando con ogni pretesto di bloccare la petizione per la restituzione della sede di Via Dogana 2) e dei servizi segreti che minacciano imminenti arresti e ritorsioni, finanche sui parenti, ove gli attivisti si “ostinino” a sostenere l’Associazione.

Fatti della massima gravità, di allarmante pericolosità sociale, su cui, ciò nonostante, non verrà, mai, svolta alcuna indagine, seppure ripetutamente, denunciati e riferiti dalla stampa, che parla di esplicite minacce, ricatti e tentativi di corruzione di attivisti di Robin Hood (L. Piana, “Un’associazione milanese estremo baluardo a difesa del pool Mani pulite“, la Voce, 19/11/95), ben conoscendo il quotidiano, all’epoca diretto da Indro Montanelli, come stiano le cose, avendo già avuto modo di seguire le attività dell’Associazione e di segnalare, al pari di altri quotidiani, anomali sequestri di banchetti per la raccolta firme e turbative, ad opera della Polizia Municipale (“I ghisa contro Robin Hood. Sfrattata da Piazza Duomo, l’Associazione che sostiene Mani pulite“, in “la Voce”, p. 28, 4.2.95; L’Unità, “Vigili sequestrano firme e tavolini a Robin Hood“, p. 23, 4/2/95; Corriere della Sera, “Petizione con rissa“, p. 40, 4/2/95).

Di fronte alla ferma e composta reazione dei volontari che per ben 115 giorni consecutivi, continuano pacificamente a denunciare l’ingiusto sfratto e l’inerzia della magistratura, raccogliendo la solidarietà dei cittadini che, davanti al Tribunale di Milano, sottoscrivono la petizione dell’Associazione, il potere fà scattare una brutale aggressione culminata con l’illegale sequestro di tavoli, firme, penne, striscioni, il fermo di vari volontari e l’arresto del sottoscritto, con la falsa accusa di avere opposto resistenza ai Carabinieri (non a caso appartenenti al “Reparto Servizio Magistrati”, ai quali era stato ordinato di porre fine con ogni mezzo alla scomoda protesta) e di avere provocato “contusioni” a tale M.llo Vicinelli, nel tentativo, si assume, “di impedire l’esecuzione del predetto sequestro“.

Procedimento che, senza, neppure, tenere conto delle testimonianze di numerosi cittadini e di un magistrato, presenti ai fatti, che smentivano le false accuse del M.llo Vicinelli – e nonostante l’annullamento, da parte del Tribunale della Libertà, del provvedimento con cui i Carabinieri avevano proceduto al sequestro, stante l’assoluta illegittimità del loro operato ampiamente sottolineata nell’ordinanza del riesame che ha disposto la restituzione dei materiali in sequestro – si concluderà con una scandalosa condanna a quattro mesi di reclusione, nei confronti di chi l’aggressione l’aveva, invero, solo subita, come confermato da tutti i testi oculari, di certo più affidabili del Vicinelli, la cui dubbia “credibilità” ha prevalso, seppure, risultasse indagato in procedimento connesso per “falso ideologico, abuso di ufficio, violenza privata e turbativa dei diritti politici dei cittadini” (la Voce di Robin Hood, n. 0, novembre-dicembre 1999, “Il Tribunale della Libertà dichiara illegittimo il blitz dei Carabinieri e la Procura archivia le false accuse di oltraggio alla magistratura“).

Sentenza, la cui sommarietà non è sfuggita all’opinione pubblica e alla stampa milanese, la quale ha affermato dalle colonne del quotidiano “Il Giorno” che le lunghe spiegazioni difensive di Pietro Palau Giovannetti, in cui ha rappresentato essere vittima di continue vessazioni da parte delle forze dell’ordine e di una persecuzione ai danni dell’Associazione Robin Hood, da lui diretta, “non gli è bastato per ottenere l’assoluzione“, aggiungendo che: “Il processo non ha chiarito ovviamente l’esatta dinamica del blitz dei carabinieri contro il sit-in, ormai tradizionale, davanti al Tribunale“… che, (ha tenuto a precisare l’articolista) “continua dall’inizio di giugno“…, come a voler sottolineare l’inverosimiglianza dell’impianto accusatorio e la contraddittorietà degli elementi di prova su cui si è basata la condanna, tanto da affermare subito dopo che: “Infatti accusa e difesa sono rimaste sulle loro posizioni in merito al presunto intervento ‘esterno’ da parte di un magistrato che avrebbe dato ordine ai militari di eseguire lo sgombero dei manifestanti“, riferendo, infine l’arringa del difensore circa l’arbitrarietà dell’intervento dei carabinieri e il fatto che “se Falcone tornasse in vita sosterrebbe che esiste anche una mafia giudiziaria“, condividendo la tesi dell’Associazione (Il Giorno, “Robin Hood condannato a quattro mesi. Quattro mesi di carcere per Pietro Palau Giovannetti, accusato di resistenza dopo un sit-in in Tribunale contro i giudici“, p. 35M, 8.10.99).

Condanna che, seppure, palesemente iniqua, è stata confermata anche dalla Cassazione, sesta sezione penale (composta dai giudici Pisanti, Fulgenzi, Ciampa, De Roberto, Conti), con una “sentenza lampo“, che in data 2.5.01, a distanza di soli 18 mesi dai fatti, risalenti al 1.10.99, coprirà ben tre gradi di giudizio, dimostrando come la Suprema Corte possa usare due pesi e due misure non solo nell’accelerare o ritardare il normale iter di fissazione dei processi (per cui spesso, come ben noto a tutti, vengono scarcerati per decorrenza dei termini, frotte di mafiosi e pericolosi delinquenti) ma, anche, nell’applicazione rigorosa delle normative di legge, nella specie eluse, avendo omesso di censurare i molteplici vizi di legittimità in cui sono incorse le decisioni dei giudici di primo e secondo grado, sia in relazione all’omessa valutazione della citata ordinanza del Tribunale della Libertà, ritenuta apoditticamente <irrilevante> (la quale, si ricorda, accertava l’illegittimità dell’operato dei Carabinieri) sia in relazione all’inutilizzabilità delle dichiarazioni del Vicinelli, contenute nel verbale di sequestro, poi, annullato (il quale risultando, peraltro, indagato in procedimento connesso, avendo interesse alla causa, non poteva assumere la qualità di teste), sia in relazione all’omesso avviso all’imputato contumace dell’udienza di appello, dopo la sospensione del giudizio.
Senza parlare poi di una serie di ulteriori eccezioni, afferenti la mancata ammissione delle prove testimoniali, che avrebbero consentito di scagionare l’imputato, nonché la nullità “ab origine” dell’intero procedimento, per avere omesso il primo giudice di sospendere il giudizio e di trasmettere gli atti al Presidente del Tribunale e alla Corte di Cassazione, a seguito della intervenuta ricusazione nei suoi confronti e istanza di rimessione (artt. 37 e 45 c.p.p.).

Vizi, su cui la Suprema Corte di Cassazione, di norma così attenta e rigorosa, a garantire i diritti degli imputati eccellenti (non solo quelli di mafia), non si è, neppure, peritata di pronunciarsi compiutamente, tanto da “dimenticarsi” di considerare che – se è pur vero che la richiesta di ricusazione e di rimessione inibiscono al giudice di definire il giudizio, finché non sia intervenuta ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta dette richieste, e che la sentenza, eventualmente assunta dal Giudice ricusato, è nulla solo se interviene una pronuncia di accoglimento delle istanze de quibus – nella specie, il primo giudice, in persona della Dr.ssa Bianchini, aveva letteralmente omesso di trasmettere gli atti relativi ai ricorsi per ricusazione e legittima suspicione sia al Presidente del Tribunale di Milano, sia alla Corte di Cassazione (come tassativamente previsto dagli artt. 37 c. 2° e 46 c. 3° c.p.p., che impone che il giudice trasmetta immediatamente alla Cassazione la richiesta con i documenti allegati e eventuali osservazioni).
Con la conseguenza che, nessun organo ha, mai, potuto decidere sulle richieste di ricusazione e ‘legittimo sospetto’, avanzate nei confronti del Tribunale di Milano, ragione per cui non si vede come la Cassazione possa sensatamente avere ritenuto sanata la nullità derivante dall’omessa trasmissione degli atti, ovvero sostenuto in buona fede che sarebbe stata necessaria una pronuncia di accoglimento di istanze invero mai trasmesse, per potere rilevare la nullità originaria dell’intero giudizio e della sentenza impugnata che, nella specie, è stata conseguentemente resa in macroscopica violazione del diritto di difesa e per falsa applicazione di norme di diritto.

Motivazioni, quindi, palesemente capziose, illogiche e prive di qualsiasi pregio giuridico, tanto più se si tiene conto che provengono da magistrati di Cassazione, di cui i poco accorti giudici della sesta sezione penale dovranno, pertanto, rispondere, unitamente ai giudici di primo e secondo grado, trattandosi di decisioni affette da falsità ideologiche, plurime attività omissive e dolo revocatorio, idonee a provocare un’ingiusta condanna, nei confronti di chi chiedeva solo giustizia e di ristabilire la legalità infranta, ricevendo la solidarietà da parte di molti degli stessi Carabinieri in servizio presso Palazzo di Giustizia di Milano, che ben conoscono e apprezzano le attività dell’Associazione, ovvero la serietà e l’integrità morale del suo Presidente che, ben lungi dall’essere una persona litigiosa e collerica, ha scelto la strada della nonviolenza e del dialogo, adoperandosi la supremazia della legge della ragione su quella della forza (Sentenza n. 25564/01, Suprema Corte di Cassazione, sesta sezione penale).

La gestione del processo in esame, da parte della magistratura, la quale nel giugno 2005 ha messo in esecuzione l’abnorme condanna, oltre ad altre analoghe, per circa 3 anni di reclusione, di cui parleremo più avanti, non è quindi né un caso isolato né, tantomeno, un errore giudiziario, ma la sciente determinazione del potere di criminalizzare chi si è adoperato per fare emergere la Giustizia, in un Paese in cui – usando le parole del P.M. Gherardo Colombo – la legalità è un <optional> e la verità tarda a venire a galla perché prevale la logica dei ricatti e dell’intimidazione. Chi non cede ai ricatti, perché non ha scheletri negli armadi, viene intimidito, e se non basta, viene messo a tacere per sempre, come Falcone, Borsellino e tanti altri onesti servitori dello Stato.
Poi si darà, ovviamente, la colpa alla mafia, che rappresenta l’unico grande male, dando modo allo Stato (che invece è il bene), di presentarsi come il “Salvatore della Patria“, intorno a cui i cittadini si devono stringere, con fiducia, confidando in quelle stesse istituzioni a cui, ingenuamente, tutte le vittime della malagiustizia (o della mafia) si erano già affidate, venendo, miseramente, tradite, perseguitate, condannate alla morte civile o, barbaramente trucidate, uccise, quando non fisicamente, nello spirito e nella vita privata.

Non mi soffermerò qui a parlare dell’azione persecutoria dello Stato nei miei confronti, seppure sia stato fatto oggetto di oltre 750 procedimenti, con le accuse più disparate, senza alcuna indagine in mio favore, la cui narrazione, anche sintetica, richiederebbe un vero e proprio trattato sugli abusi giudiziari (una sorta di enciclopedia di come difendersi dalla malagiustizia), ma mi limiterò a trattarne, ancora, solo un paio, che riguardano la storia dell’Associazione e il tentativo di screditarne l’azione di denuncia da parte di settori della c.d. <magistratura di regime>, vicina alle logge massoniche, le quali controllando i gangli vitali delle istituzioni, dell’economia e dell’informazione, dagli anni 1996-1999, hanno praticamente imbavagliato la stampa e la televisione, oscurando la pubblicazione di qualsiasi notizia sulle attività del Movimento per la Giustizia Robin Hood e Avvocati senza Frontiere, che continuano silenziosamente ad operare nell’assoluta indifferenza e ostilità delle istituzioni (la Voce di Robin Hood, “Palavobis. Oscurata l’anima di mani pulite!“, p. 3, n. 1, ottobre 2002, Anno III).

Per meglio inquadrare la complessità sociale e la situazione in cui si può venire a trovare un’associazione antimafia che intenda portare avanti con coerenza i suoi fini statutari, rivestono sicuramente interesse degli studiosi sociali altri due blitz delle forze dell’ordine, nella sede del Movimento per la Giustizia Robin Hood, attraverso cui si può comprendere come possa prevalere, nella logica del <Dual State>, la forza <intimidatrice del potere>, su <quella della legalità> che lo stesso Stato dovrebbe, invece, concettualmente, tutelare.

Nella nota concezione di Ernst Fraenkel (1941), basata sull’esperienza dell’Autore con il regime nazista, ma utilizzabile anche per analizzare la situazione italiana, si descrive, infatti, la compresenza nell’assetto statuario di “normatività” e “discrezionalità“, ovvero come la <condizione doppia> rappresenti la complessità di unificazione delle strutture e dei metodi che, secondo Franz Neumann (Autore che ha sviluppato le tesi di Fraenkel), “conducono alla progressiva dissoluzione dello Stato e delle libertà dei cittadini“, configurandosi una funzione dello Stato di soppressione delle libertà politiche e dei diritti dei lavoratori, dei quali venne organizzato il consenso intorno al razzismo imperialistico, tipico del nazionalsocialismo: ciò che, seppure, in altre forme, si sta cercando di ripetere oggi, anche in Italia (Ernst Fraenkel, “Dual State“, Octagon Books, Hardcover, 1969, tr. It. “Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura“, Einaudi, 1983; Franz Neumann, “Behemoth, Struttura e pratica del nazionalsocialismo“, Feltrinelli, 1977).

Il primo dei due blitz, avviene ad opera della Polizia Municipale, durante la “Festa della Befana“, un’iniziativa benefica riservata ai soci, in favore delle vittime della malagiustizia. Il 6 gennaio 1996, presso la sede dell’Associazione, ubicata nello stabile di Via Dogana 2, a Milano (ove hanno sede anche molte altre associazioni, tra cui i Verdi e la Libreria delle Donne), mentre stavano iniziando ad affluire i primi partecipanti, fanno irruzione, senza alcun mandato, un gruppetto di agenti della Polizia Annonaria del Comune di Milano, sostenendo che si sarebbe trattato di una “festa illegale“, in quanto “non autorizzata“, e che, da lì a poco, sarebbe stata eseguita <una operazione del Prefetto di Milano per sgomberare l’Associazione…>, la quale, a dire degli agenti, sarebbe risultata non essere in possesso dei requisiti di legge per potere operare, occupando, tra l’altro, abusivamente i locali di Via Dogana.
A nulla sortendo ogni ragionevole invito ad esaminare i documenti attestanti la legittimità delle attività associative (statuto, libro soci, tessere, ricevute pagamenti affitti, etc.), alcuni associati si determinavano a chiedere l’intervento della Polizia di Stato, denunciando il comportamento illegittimo e minaccioso degli agenti della Annonaria, palesemente esorbitante le loro funzioni istituzionali (limitate a comminare, tutto al più, una multa per la pretesa mancanza di autorizzazione, invero non necessaria, trattandosi di una festa privata), i quali impedivano agli altri associati di entrare alla festa, permanendo, senza titolo né ragione, nei locali privati di un’Associazione di Volontariato, da oltre due ore, in attesa di un più vasto preannunciato fantomatico blitz del Prefetto, che poi non è, infatti, mai, avvenuto.

L’arrivo della Digos, anziché di una normale volante della P.S., complicava la situazione, poiché gli agenti intervenuti facevano parte del Commissariato di P.za S. Sepolcro, che per anni aveva coperto ogni illecito edilizio e urbanistico, denunciato dall’Associazione, in relazione all’immobile di Via Zenale 9, in Milano, di proprietà di palazzinari, molto vicini alla Edilnord di Paolo Berlusconi e all’ex Sindaco di Milano, Pillitteri, cognato di Craxi, per cui io stesso, quale inquilino, avevo denunciato un tentativo di corruzione, rifiutando l’offerta di Lire 1.500.000.000, a mezzo di un assegno, con cui l’ex Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano, Michele Saponara, aveva cercato di mettere a tacere le molteplici denunce sporte nei confronti di suoi assistiti, magistrati, avvocati e disonesti funzionari dello Stato (Corriere della Sera, “Rifiuta un miliardo e mezzo di buonuscita. In Via Zenale inquilino resiste allo sfratto e denuncia un complotto“, 27/7/91; A. Sessa, “Giù le mani dalla città. Un comitato popolare dice basta alle speculazioni edilizie.La denuncia di anni e anni di abusi nel centro storico sfocia in una nuova forma di protesta“, in “L’indipendente”, Cronaca di Milano, p. 24, 3/11/1992; D’Amico, “Dopo il blocco della licenza arriva una gru e continuano i lavori. Sfida alla legge in Via Zenale. Totalmente ignorata la decisione della magistratura“, in “Il Giorno”, 29/10/91).

Gli agenti della Digos, malvedendo, quindi, sia il sottoscritto, che li aveva già denunciati, sia le attività dell’Associazione, ritenuta scomoda, rimanevano del tutto inerti, giungendo, persino, a rifiutare di procedere alla richiesta di “scambio di generalità” con gli agenti dell’Annonaria, che a loro volta si erano rifiutati di farsi identificare con nome, cognome e numero di matricola, proferendo continue minacce di arresto e pesanti considerazioni sul legale rappresentante dell’Associazione e la sua vita privata, in relazione alla vicenda di Via Zenale, da cui dopo anni di abusi, violenze e omissive connivenze dei pubblici poteri, era scattato il sequestro penale dell’intero immobile e delle concessioni edilizie, da parte dell’allora ex P.M. di “mani pulite” Antonio Di Pietro.

Singolarmente, gli agenti dell’Annonaria, il cui intervento avrebbe dovuto essere limitato al solo occasionale controllo delle attività ricreative dell’Associazione, nel quadro di quella che si presentava come una normale attività di routine, mostravano, invece, di nutrire ben diverse intenti e funzioni, rivelando esplicitamente di conoscere fatti privati, del tutto estranei alla mera pretesa necessità di autorizzazione per una festa associativa; fatti che, corre osservare, solo gli agenti della Digos gli potevano avere riferito, i quali, va ricordato, senza alcun ritegno, pur svolgendo una delicata attività di vigilanza e prevenzione, nell’interesse dello Stato, non esitavano ad ostentare pubblicamente le proprie personali simpatie politiche, tenendo appesi alle pareti degli uffici della Digos di P.zza S. Sepolcro (ove io stesso in più occasioni ero stato accompagnato), i gagliardetti di “Forza Italia”, anziché quelli del Milan o della squadra del cuore o, tutto al più, i poster della Pirelli, con le fotomodelle in bikini.

L’epilogo della vicenda, finisce, ancora una volta, con una brutale aggressione e il mio illegale arresto, questa volta consumato nei locali privati dell’Associazione, ad opera degli stessi agenti dell’Annonaria (rivelatisi, invero, parrebbe, una squadra speciale agli ordini del vice-Sindaco di A.N., De Corato), i quali afferrandomi per le braccia, le gambe, i capelli e colpendomi con pugni e calci, anche nei testicoli, mi trascinano con la forza, per tre rampe di scale, tra le proteste verbali di una cinquantina di presenti, che ubbidienti ai principi della nonviolenza non oppongono resistenza, come d’altronde, io stesso, che mi limito a chiedere, una volta trasferito in una cella di sicurezza, presso il Comando della Polizia Municipale di P.zza Beccaria (dove passerò la notte, in attesa del processo per direttissima), di venire trasferito all’ospedale per potermi fare medicare dalle ferite, cosa che mi verrà negata, sino alla scarcerazione il giorno seguente, da parte del Pretore (la Repubblica, “Festa della Befana abusiva. In carcere per oltraggio. Nei guai il presidente dell’associazione Robin Hood“, 7/1/97 e <Befana “abusiva”. Il Pretore libera Palau>, 9/1/97; L’Unità, “Brutta Befana per Robin Hood, Palau a giudizio: ha resistito agli agenti“, 9/1/96; Il Giorno, “Festa illegale. I Vigili arrestano Robin Hood con rissa“, 7/1/96; Corriere della Sera, “Robin Hood resiste agli agenti: fermato“, 8/1/96).

Il giudizio per direttissima, svoltosi avanti al Pretore di Milano, dr. Imprudente, così come la successiva sommaria sentenza di condanna a 12 mesi di “libertà vigilata“, nonostante l’incensuratezza dell’imputato, sono, anche, in questo caso, del tutto scandalosi, essendo venuta meno qualsiasi garanzia di imparzialità decisoria, da parte del giudicante che ha dimostrato la sua faziosità e sudditanza al potere politico, non prestando alcun credito ai numerosi testi della difesa, tra cui persone estranee all’Associazione e passanti, fondando la propria abnorme decisione sulle non certo disinteressate testimonianze degli agenti dell’Annonaria, anche in questo caso non utilizzabili, in quanto indagati in procedimento connesso, come nell’altra vicenda precedentemente narrata dei Carabinieri del “Reparto Servizio Magistrati” di Palazzo di Giustizia (Corriere della Sera, “Robin Hood, arresto confermato“, 9/1/96).

Sarà, solo, la sentenza n.2139/98 della IV sezione penale della Corte d’Appello di Milano, presieduta dall’integerrimo dr. Caccamo (il quale già condannò il gotha di Tangentopoli), a ripristinare la verità e a confermare l’esistenza del denunciato preordinato boicottaggio paralegale delle attività del Movimento della Giustizia Robin Hood, ad opera del Comune di Milano e dei gruppi di pressione riferibili ai partiti di governo della città.

Infatti, annullando l’abnorme condanna del Pretore Imprudente, la Corte Ambrosiana stigmatizza l’accaduto, affermando, testualmente, che: “…al di fuori di schemi formali la vicenda deve essere valutata con senso di equità“. “Infatti, il Palau, ritenendo, forse, non del tutto a torto, di avere subito degli abusi nella gestione giudiziaria di vicende che hanno portato alla perdita del patrimonio famigliare ha creduto, e crede, di trovare nel Movimento per la Giustizia una tribuna di protesta aperta a chi avesse subito vessazioni, da parte del potere… che costituisse appoggio e consenso popolare alla lotta contro la corruzione, quella giudiziaria inclusa“. “Le rumorose iniziative e manifestazioni civili non hanno, ovviamente, incontrato il favore delle varie Autorità che negli occasionali interventi non hanno mancato di manifestare il fastidio per quella che vedevano come una azione di disturbo“. “Che il Palau fosse in buona fede lo dimostra il fatto che egli chiese subito l’intervento della Polizia di Stato.
E quel che stupisce è che i funzionari sopraggiunti si sarebbero limitati a cercare di spiegare, a loro dire, che i vigili avevano ragione e fossero poi rimasti spettatori inerti delle seguite diatribe e vie di fatto, senza intervenire quasi si trattasse di fatti che non li riguardavano
“. “Non va poi sottaciuto che appare piuttosto strano che alle vie di fatto fosse passato per primo il Palau se si tiene conto della sproporzione fisica degli antagonisti. Incidentalmente, va rilevato che il Palau nell’occorso riportò lesioni ben più gravi delle piccole contusioni riportate dai due vigili” (sentenza n.2139/98, Corte Appello Milano, 4 sezione penale).

L’autorevole sentenza della Corte Ambrosiana, non piacendo ai poteri forti, scatenerà l’ira della massoneria giudiziaria milanese e il risentito ricorso del Procuratore Generale, alla Cassazione, quindi una serie di “procedimenti di rinvio“, scambi di denunce tra giudicanti e imputato (tra cui lo stesso Pretore Imprudente), nuove assoluzioni del sottoscritto e, infine, una catena di opposizioni alla Procura di Brescia, al tentativo di archiviazione della querela, tuttora insabbiata, contro gli agenti dell’Annonaria e i molteplici magistrati che hanno avuto parte nell’illegittima azione di criminalizzazione e soffocamento dei più elementari diritti politici dell’Associazione . Fatti su cui, allo stato, la Procura bresciana, territorialmente competente per territorio, nonché ogni altra Autorità dello Stato adita, dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, alla Procura Nazionale Antimafia e al Presidente della Repubblica, a distanza di ben 10 anni dalla prima denuncia, non ha, ancora, svolto la benché minima indagine, nonostante l’allarmante valenza criminosa e la pericolosità sociale dei comportamenti posti in essere dai diversi funzionari dello Stato e dai magistrati inquirenti e giudicanti coinvolti (Atto di opposizione, ex art. 410 c.p.p., 7/6/04, P.M. di Brescia, dr. Gallo, R.G.N.R. 13899/03).

Tentativi di insabbiamento e connivenze a parte, resta il fatto che quella parte sana della magistratura, che pure esiste, anche se si fa molta fatica ad individuarla (almeno tra i viventi), ha annullato l’arbitraria condanna a 12 mesi di libertà controllata, inflitta dal Pretore Imprudente, per la pretesa “resistenza” agli agenti della Polizia Annonaria, i quali, senza alcun mandato, avevano fatto irruzione nei locali dell’Associazione, con il pretesto di un controllo di routine, arrestando il promotore, come ancora oggi si usa fare nei Paesi autoritari, privi di diritti certi, credendo che il cammino della giustizia e la storia possano essere fermati dalla repressione, colpendo i simboli della resistenza della società civile.
In proposito, è opportuno sottolineare, come la misura della <libertà vigilata> (art. 228 c.p.p.), rientri tra le tipiche restrizioni, attraverso cui il fascismo ieri e le “democrazie mafiose” oggi (usando la definizione di Panfilo Gentile), organizzino il controllo politico del dissenso, calpestando le libertà fondamentali dei cittadini (Panfilo Gentile, “Democrazie Mafiose. L’altra faccia del sistema democratico. Come i partiti mantengono il potere“, Ponte alla Grazie, 1997).

L’istituto della “vigilanza speciale” che prevede la sorveglianza della persona in stato di libertà controllata, da parte dell’Autorità di pubblica sicurezza, trae le sue origini, infatti, dal codice Zanardelli, risalendo alla fine del diciottesimo secolo, in cui la misura aveva funzioni esclusivamente repressive, volte a salvaguardare la sicurezza e la conservazione della società giuridicamente organizzata, riguardando soggetti ad alta pericolosità sociale, quali possono considerarsi oggi boss mafiosi, serial killer, pericolosi delinquenti, ma non certo il rappresentante di un’ associazione di volontariato che si adopera per il rispetto della legalità e dei diritti dei cittadini più deboli. Sotto tale profilo appare, quindi, del tutto evidente come la misura inflitta a una persona incensurata non avesse altra funzione che quella di sottoporre il soggetto passivo ad uno stretto controllo, da parte dell’Autorità di P.S., della sua vita pubblica e privata, nonché di ingerire pesantemente nella vita dell’Associazione, screditandone il fondatore, allo scopo precipuo di allontanare gli associati.

L’altro blitz, nella sede dell’Associazione, tra i tanti da ricordare, di cui va trasmessa la memoria storica, per comprendere come il potere agisca nel consapevole intendimento di contrastare con ogni mezzo l’azione diretta dei cittadini atta a creare legalità, è avvenuto, ancora, ad opera della Digos, circa un anno dopo, durante l’allestimento della mostra umanitaria “Pittori contro la guerra 1997“, in favore dei bambini profughi dell’ex Zaire. Una manifestazione che si proponeva di diffondere un messaggio di pace e solidarietà per l’educazione al rispetto dei diritti umani e per l’effettiva attuazione della “Dichiarazione Universale”, sancita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948. La mostra, articolata in quattro sezioni, con oltre 400 opere e sculture, provenienti da artisti di tutto il mondo, era patrocinata dalle maggiori Autorità in campo internazionale, tra cui, in particolare:
– l’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra;
– la Rappresentanza Italiana della Commissione Europea;
– l’U.N.I.C.E.F.;
– l’U.N.E.S.C.O. di Parigi;
– Il Ministero della Cultura e il Governo della Croazia;
– la Municipalità di Dubrovnik;
– le maggiori Accademie di Belle Arti in Italia e all’estero;
– la Provincia di Milano;
– la Regione Lombardia;
– la compagnia di bandiera ALITALIA.
L’articolazione della mostra in quattro sezioni, concepite per sviluppare una discussione sui grandi temi della giustizia, della legalità e della guerra, coinvolgendo la partecipazione dell’intera società civile, a partire dai bambini delle scuole elementari, sino agli studenti delle Accademie di Belli Arti, prevedeva in particolare:

– “Concorso non competitivo sul tema della guerra ” (per pittori professionisti e amatori, aperto ai docenti e agli allievi dei licei e Accademie di Belle Arti);

– “I Pittori di Dubrovnik” (rassegna di trenta opere dei maggiori artisti croati per non spezzare la catena della solidarietà);

– “I Colori contro la guerra” (rassegna di disegni di bambini e studenti);

– “l’Etica della politica” (rassegna di quindici “falsi d’autore” con caricature di politici italiani per significare la falsità della politica e che la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi).

L’iniziativa, tenuto conto della sua rilevanza sociale e culturale, veniva pubblicizzata gratuitamente sul quotidiano “la Repubblica” e riviste del settore, oltre che da radiogiornali, televisioni e dall’Alitalia con locandine affisse in tutti gli aeroporti italiani (la Repubblica, “Pittori contro la guerra 1997. Una mostra contro l’ingiustizia e l’indifferenza“, 12/5/97; Corriere della Sera, in “ViviMilano”, (Mostra) Pacifista, 6/3/97; ArteCultura n. 4 Aprile 1997 e n. 5 Maggio 1997).
La presentazione ufficiale della mostra avveniva a Dubrovnik, il 29.3.97, alla presenza dei rappresentanti del Governo di Croazia e del Movimento per la Giustizia Robin Hood, esponendo, in anteprima, una trentina di opere, offerte dai maggiori artisti croati, per significare il legame di solidarietà che unisce le popolazioni colpite dalla guerra e fare arrivare un messaggio forte da una città che era stata distrutta dai bombardamenti e da poco ricostruita (Slobodna Dalmacija, Uskrs, 1997; Dubrovacki Vjesnik, 29.3.97).

Ciò nonostante, in data 8.4.97, gli agenti della Digos di P.za S. Sepolcro, si presentavano in forze presso la sede dell’Associazione, questa volta, però, con un mandato del P.M. Stefano Aprile, con il quale si chiedeva di perquisire i locali di Via Dogana 2, provvedendo al sequestro di 15 quadri, della sezione dedicata all’etica della politica, raffiguranti “falsi d’autore“, con opere di Matisse, Degas, Magritte, Brauner, Picasso, Ligabue, Rousseau, Lautrec, i cui volti dei soggetti originali delle opere erano stati sostituiti con le caricature di alcuni politici italiani della prima e seconda Repubblica, ritratti in pose ironiche, per rendere evidente che la politica deve essere intesa come una missione per il bene della società e non un mestiere per arricchirsi illecitamente.

L’accusa mossa dal P.M. Stefano Aprile, assolutamente infondata e infamante, inspecie per chi propone una mostra all’insegna dell’etica politica, è di “appropriazione indebita“.
A questo punto, corre opportuno precisare che, le opere in questione erano state donate circa due anni prima, da una pittrice non professionista, la quale aveva pubblicamente dichiarato in una intervista alla rivista “Stop”, di essere tra i promotori della mostra umanitaria, dedicata ai bambini profughi dell’ex Zaire (M. Di Leo, “Eccovi il Circo della politica“, Stop, Dicembre 1996).
La concomitanza dell’accusa e del ‘capzioso’ sequestro penale, con l’imminente inaugurazione della mostra, che doveva aprire i battenti pochi giorni dopo, ben evidenzia, anche in questo caso, la funzione palesemente strumentale del provvedimento paralegale del P.M. Stefano Aprile, volto a stroncare sul nascere, con la pesante accusa di “appropriazione indebita”, un’iniziativa destinata a creare solidarietà e simpatie intorno all’Associazione promotrice, che risultavano evidentemente scomode a chi non ha alcun interesse a vedere crescere un movimento spontaneo di cittadini, scollegati dagli interessi della politica dei partiti, i quali si pongono al di là di ogni sterile contrapposizione ideologica per fare emergere la legalità.
Il pretesto per colpire l’invisa Associazione viene costruito a tavolino, attraverso l’anomala intesa tra l’Amministrazione Comunale, guidata da una coalizione di centro-destra, e la Federazione milanese del PDS, partito storico della <opposizione di sinistra>, i quali per interessi convergenti, entrambi malvedono il rafforzarsi nella società civile di una Onlus non controllabile politicamente e per di più impegnata nella lotta alla mafia e alla corruzione che, tanto da vicino riguarda gli stessi apparati burocratico-amministrativi della locale Pubblica Amministrazione e dei relativi partiti di governo e di opposizione (virtuale o reale che sia).
Entrambi i soggetti entrano, infatti, in contatto con l’autrice dei falsi di autore, la quale inizialmente si adoperava per ottenere il patrocinio alla mostra, da parte dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano e del Ministro per i Beni Culturali, On. Veltroni, già Direttore dell’Unità.
Ne consegue che, Comune di Milano e Federazione milanese del PDS, offrono il <loro appoggio> alla pittrice, personalmente, anziché alla Associazione, lusingandola con la promessa di farla partecipare con una “personale” al Festival dell’Unità, con un proprio stand sui falsi d’autore, a patto che ella accettasse di revocare qualsiasi forma di collaborazione alla scomoda Associazione, rientrando in possesso dei quadri, che si ricorda erano stati donati quasi due anni prima, dalla medesima pittrice, la quale rendeva pubblico con una intervista alla stampa, il proprio impegno di offrire il ricavato della vendita all’asta, in favore dei bambini profughi, vittime del conflitto nell’ex Zaire (Di Leo, “Eccovi il Circo della politica“, Stop, Dic. 1996).

Accade, così, che il Responsabile del locale Festival dell’Unità, Luca Bernareggi, inviti la pittrice, già sostenitrice della mostra “Pittori contro la guerra”, ad esporre i falsi di autore al Festival milanese dell’Unità e che, quest’ultima, richieda di tornare in possesso dei quadri, sostenendo, pretestuosamente, di avere appreso dal Comune di Milano (senza meglio precisare da chi), che la mostra “non avrebbe mai avuto luogo” e che l’Associazione avrebbe fatto meglio a rinunciare all’iniziativa se non avesse voluto incontrare ulteriori problemi legali.
Pur avendo ricevuto assenso all’ingiustificata pretesa di restituzione dei quadri, al termine della mostra umanitaria, la pittrice, anziché rivolgersi al Giudice civile, con una normale <azione petitoria>, trattandosi di una mera controversia sul diritto di proprietà dei quadri, sporgeva inopinatamente querela presso il Commissariato di P.S. di P.zza S. Sepolcro (quello dove all’Ufficio Politico della Digos sono in bella vista i gagliardetti di Forza Italia), i cui funzionari dirigenti, senza neppure peritarsi di sentire la versione dell’Associazione, si affrettavano a richiedere il <sequestro preventivo> delle opere, quale preteso “corpo di reato”, presentando, falsamente, il sottoscritto come una persona “socialmente pericolosa“, nonché spingendosi a sostenere, in spregio a qualsiasi contraria evidenza documentale, risultante dai certificati penali, che lo stesso avrebbe subito precedenti condanne per non meglio precisati “reati contro il patrimonio” (Comunicazione di notizia di reato con richiesta di decreto di Sequestro Preventivo, 7/4/97, Questura di Milano, Commissariato della P. di S. di P.zza S. Selpocro, Ispettore Carmelo Di Grazia).
Circostanza che, seppure palesemente falsa, forniva il pretesto per motivare la misura del sequestro cautelare “inaudita altera parte“, onde impedire all’indagato, asseritamente, “pregiudicato” per reati consimili (tenuto conto delle a lui attribuite “indole a delinquere” e “pericolosità sociale“), di “sottrarre o disperdere i quadri“, neanche si trattasse di un trafficante internazionale di opere d’arte o dei preziosi dipinti originali – e, non già, di falsi con mere caricature di modesto valore commerciale.

Il P.M., Dr. Stefano Aprile, su cui la massoneria giudiziaria pilotava il procedimento, si rivelava essere, guardacaso, figlio di Goffredo Aprile, titolare di una <cooperativa rosa>, tempo addietro denunciata dall’Associazione, per avere spogliato con violenza e minaccia, della loro abitazione, dopo una vera e propria frode processuale, un’umile famiglia di operai, che l’aveva acquistata con grandissimi sacrifici.
In tale anomalo contesto, una volta disposto il sequestro, il P.M. respingeva qualsiasi istanza di restituzione dei quadri, motivata a consentire la loro sola esposizione, quantomeno, sino al termine della mostra, onde non privarla della sezione dedicata all’etica della politica, sul presupposto che la sua realizzazione era stata da tempo preannunciata dagli Enti promotori e dalla stessa autrice, costituendo parte integrante dell’importante iniziativa umanitaria.
Ignaro di tutto ciò, anche, l’allora Procuratore Capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, pur edotto dei gravi motivi di <incompatibilità> e <conflitto di interessi>, gravanti sul suo Sostituto P.M., Stefano Aprile, ometteva di provvedere alla sua sostituzione, come richiesto e previsto dagli artt. 36, comma 1, lettera a), b), d) e) e 53 comma 2 c.p.p.; omissione in cui incorreva, a sua volta, il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Milano, pure sollecitato in tal senso, il quale ai sensi del comma 3 del medesimo art. 53 c.p.p., in caso di inerzia del Procuratore Capo, avrebbe dovuto provvedere a designare un magistrato appartenente al suo ufficio (art. 372, lettera b c.p.p.).

La prima edizione di “Pittori contro la guerra“, con oltre 400 opere e sculture esposte, prendeva, quindi, il via in mezzo ad una vera e propria “bufera giudiziaria”, a cui si aggiungeva, infine, l’imposizione del silenzio stampa, nonostante una positiva recensione di Sergio D’Asnasch, Consigliere e Segretario dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia e noto critico d’arte, il quale ebbe a visitare la mostra, in veste di inviato dell’Agenzia giornalistica A.N.S.A., dandone un positivo giudizio critico in cui sottolineava la “validità sociale ed artistica” dell’iniziativa, cosa che riconfermava, più recentemente, in una dichiarazione, rilasciata a fini di giustizia, in relazione al procedimento penale, pendente avanti al Tribunale di Milano, Giudice monocratico, Dr. Zucchetti, a carico del Presidente dell’Associazione, per il reato di appropriazione indebita, nel corso del quale, gli agenti della Polizia di Stato, al fine di sostenere la pretestuosa accusa, erano giunti a negare che “la mostra avesse avuto luogo” e che “esistessero altri quadri, oltre a quelli sequestrati” (Sergio D’Asnasch, “Attestazione autografa“, agli atti del procedimento penale R.G.N.R., n. 6590/01, a carico di Pietro Palau Giovannetti).

Senza perdersi d’animo, i legali dell’Associazione provvedevano a citare a giudizio, con un ricorso, ex artt. 700 e 703 c.p.c., oltre alla pittrice e al P.M. Stefano Aprile, la Federazione milanese del PDS, l’Ispettore di P.S. Carmelo di Grazia, il Comune di Milano e i Ministeri di Interno, Giustizia, Beni Culturali, ritenendoli, solidalmente, responsabili di avere, artatamente, provocato, in esecuzione di un preordinato disegno criminoso, lo spoglio della sezione dedicata all’etica della politica (di cui richiedevano l’immediata restituzione), allo scopo precipuo di boicottare le attività del Movimento per la Giustizia Robin Hood, ovvero la sua affermazione, quale nuova forza emergente espressa dalla società civile (Atto di citazione, Tribunale di Milano, IV sezione civile, procedimento R.G. n. 15228/97).

In proposito, i difensori dell’Associazione, richiedendo in via <cautelare e di urgenza>, la restituzione dei quadri, rilevavano che, seppure il sequestro fosse avvenuto in base ad un “ordine” dell’Autorità Giudiziaria, tale provvedimento doveva ritenersi illegittimo, in quanto affetto da <dolo collusorio>, rivestendo il P.M. la qualità di <coautore dello spoglio>, conformemente a quanto stabilito, in situazione consimile, dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione (Cass. n. 5070/83).
E, ciò, anche, alla luce del fatto che, il P.M. aveva, nelle more, indebitamente, acconsentito a disporre il dissequestro dei quadri, pur in pendenza della controversia sulla proprietà, in accoglimento della richiesta di “restituzione“, avanzata dalla pittrice (la quale era stata, invece, respinta per ben quattro volte consecutive da altri suoi colleghi P.M. di turno: Albertini, Scagliarini, D’Orsi, Scagliarini), affinché li potesse esporre al Festival milanese dell’Unità, come sollecitato dal Responsabile Organizzativo, Luca Bernareggi, a mezzo di una lettera in data 24.7.97, di cui, poi, la difesa della Federazione milanese del PDS, non potendo disconoscerne la provenienza e l’autenticità, ha cercato con ogni mezzo di sostenerne l’inesistenza, tanto da affermare ripetutamente, contro ogni evidenza cartacea e principio di buona fede, che tale lettera “non sarebbe risultata prodotta agli atti del giudizio“.
Circa la palese illegittimità del dissequestro e la malafede processuale del P.M. veniva, altresì, rilevato che questi, prima di provvedere alla “restituzione” ad una delle due parti in causa, non aveva compiuto alcun atto, volto a rimettere la controversia sulla proprietà dei quadri, al Giudice civile, come, tassativamente, previsto dall’art. 263 c. 3° c.p.p.

Evidenziando, poi, che tale omissione e l’ingiustificata contumacia del P.M., costituissero la prova incontrovertibile dell’insostenibilità e strumentalità della <pseudoimputazione> di “appropriazione indebita“, ovvero della consapevolezza, da parte della pubblica accusa, della materiale impossibilità di ottenere una sentenza di condanna.
Verdetto che, infatti, non è tuttora giunto, seppure il procedimento penale sia in corso da oltre 8 anni e i legali dell’Associazione abbiano ampiamente dimostrato la piena proprietà e disponibilità delle opere, da ben quasi due anni prima la pretestuosa denuncia, pilotata da chi aveva in animo di arrestare la crescita spontanea di un movimento antimafia e anticorruzione nel cuore della capitale finanziaria del Paese.
Nonostante tali evidenze, nessun giudice civile né penale, ha trovato il coraggio di ristabilire la legalità, provvedendo a tutelare le libertà associative del Movimento per la Giustizia, restituendogli, quantomeno, se non i quadri, la dignità morale che gli compete, cosa che, comunque, purtroppo, non servirà a salvare le vite umane di quei 400.000 profughi dell’ex Zaire, morti di stenti, che “Pittori contro la guerra 1997”, nel suo piccolo, si proponeva di aiutare.

Quale ultimo atto dell’infaticabile azione di boicottaggio, da parte dello Stato, attraverso cui si è cercato paralizzare la mostra e qualsiasi attività associativa, vale la pena dulcis in fundo ricordare la disattivazione di tutte le linee telefoniche, di telefonia fissa e mobile, riferibili all’Associazione e finanche all’abitazione dello scrivente, ad opera della Telecom Italia e della TIM (quella che Beppe Grillo definì “un’associazione di stampo telefonico”), le quali, all’epoca, agivano, ancora, in pieno regime di monopolio, su concessione del Ministero delle Telecomunicazioni.
Storia che appare utile narrare, onde far comprendere <le ramificazioni> dell’azione repressiva da parte dello Stato e la forma <tentacolare> che la stessa può assumere nel tentativo di avvolgere le vittime nelle proprie spire, soffocandone ogni possibilità di resistenza.

In una prima fase, si trattò di una incessante serie di turbative, in cui Telecom e Tim, adducendo falsamente che non sarebbero stati effettuati i pagamenti di alcune fatture, sospendevano contemporaneamente il servizio per vari giorni di ben tre diverse utenze, ignorando ogni contestazione, circa la violazione del Regolamento di Servizio, che prevede che il gestore monopolista prima di privare l’utente del servizio, lo debba mettere in mora e attendere la soluzione della controversia, ove sorgano contestazioni sul pagamento delle bollette telefoniche (Art. 13, commi 2° e 5° del Regolamento di Servizio Telecom Italia).

Nella fase terminale del boicottaggio, nonostante l’instaurarsi di varie denunce e citazioni per spoglio delle linee telefoniche, ai sensi degli artt. 700 e 703 c.p.c., nei confronti di Telecom, TIM e Ministero Telecomunicazioni, gli Enti resistenti, anche grazie all’inerzia dei giudici, che negavano qualsiasi tutela, coprendone l’illegittimo operato, si spingevano a risolvere “unilateralmente” ogni contratto di utenza telefonica, seppure fosse stata raggiunta piena prova in giudizio, dell’avvenuto integrale pagamento delle fatture, nonché offerta garanzia fidejussoria, a mezzo libretto bancario, sino alla concorrenza delle somme indebitamente pretese (Atto di Appello, in data 26/8/03, avverso sentenza Tribunale di Milano, n. 9410/02 – R.G. 3001/01, Corte Appello Milano).

I vari giudici investiti dei procedimenti azionati dalla Associazione, menomata nella sua libertà di comunicazione, anziché censurare gli illeciti comportamenti del Gestore, chi ritenendosi “calunniato“, chi “oltraggiato“, chi, ancora, addirittura, “minacciato“, per il contenuto degli scritti difensivi e le “insistenti istanze” dell’Associazione per giungere alla definizione dei numerosi giudizi – su cui a distanza di quasi 9 anni, non è, ancora, stata pronunciata una sentenza definitiva – si spingevano a sporgere una serie di denunce alla Procura di Brescia, accanendosi nei confronti del sottoscritto, quale rappresentante legale dell’Associazione.
A seguito di ciò, il Tribunale penale di Brescia, in questo caso, in tempi inusitatamente brevi (da vera e propria giustizia scandinava), tanto da non curarsi, neppure, della regolarità degli avvisi al difensore dell’imputato, circa la comunicazione del rinvio d’ufficio dell’udienza dibattimentale e, senza, svolgere alcuna indagine in favore dell’imputato, né preoccuparsi di citarlo a deporre sui fatti per sentire la sua versione, mai raccolta, pronunciava una frettolosa sentenza di condanna contumaciale a quattro mesi di reclusione, ritenendolo responsabile del reato di “minacce” (art. 336 c.p.), consistite: “nell’essere improvvisamente entrato” – così si assume nel capo d’imputazione – “…nella stanza del Giudice; nel chiedere di assumere rapidamente la decisione della propria causa; nell’impedire di chiudere la porta, gridando: “non ho paura di lei la tampinerò”; nel costringere la dr.ssa Magda Alessi, appartenente alla 11^ sezione civile del Tribunale di Milano, ad assumere una decisione allo stesso favorevole nella causa, n. 4395/98, nei confronti di Telecom Italia s.p.a. e altri” (Atto di appello in data 1.3.03, avverso sentenza Tribunale penale di Brescia, n. 3500/02, c/Pietro Palau Giovannetti).

A nulla giovava, neppure, rivolgersi alle più alte cariche dello Stato, tra cui l’allora Presidente del Consiglio dei Ministro, On. D’Alema (Esposto 4.11.98), il quale nella sua funzione di Presidente del “Comitato Permanente per l’Attuazione della Carta dei Servizi Pubblici“, era istituzionalmente preposto a svolgere funzioni di sorveglianza e di controllo, in applicazione delle Direttive Comunitarie (Direttiva CEE 95/62), Direttive del Ministro delle Poste in data 31.10.95 e 22.11.95, nonché Direttive dello stesso Presidente del Consiglio dei Ministri, in data 27.1.94, in relazione alle sanzioni da applicarsi al Gestore del Servizio telefonico pubblico, in caso di violazione delle funzioni istituzionali, circa il diritto alla libertà di comunicazione telefonica, sancita anche dalla Corte Costituzionale.

In proposito, si ricorda che, la Corte Costituzionale, seppure ignorata, ha autorevolmente ritenuto che, in relazione alle ipotesi di recesso, senza giusta causa, anche la clausola sulla morosità non determini il recesso, risolvendosi “in un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, in danno del consumatore” (Corte Cost., sentenza n. 1104/88). Aggiungendo, poi, che: “tale significativo squilibrio appare ancora più evidente, ove si consideri che l’Ente viola i principi fondamentali dell’ordinamento, collegati alla violazione del diritto di comunicazione telefonica. Diritto che si è ritenuto rientrare nella sfera dei diritti inalienabili, ai sensi dell’art. 2 Cost. (Cass. n. 2914/90), dovendosi conseguentemente ritenere che la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), debba avvalersi necessariamente di un mezzo di diffusione, quale il servizio telefonico, e tale servizio allo stato dell’attuale progresso socio-economico deve ritenersi un servizio pubblico essenziale” (in Foro It. I, 1989, I, C. 7).

Diversi anni dopo, una volta che, ormai, l’Associazione era stata sloggiata dalla propria sede, senza disporre delle proprie linee telefoniche, intervenivano due sentenze di rinvio, da parte della Suprema Corte di Cassazione (Sezione terza, nn. 13754/02 e 2058/04), che accoglievano i ricorsi dei legali dell’Associazione contro le sentenze emesse dai giudici milanesi: quelli per intenderci che avevano negato qualsiasi tutela, invano, invocata, ottenendo la condanna a quattro mesi di reclusione della parte ricorrente, in tempi e forme del tutto scandalose per una giustizia che possa reputarsi degna di questo nome.
A seguito di tali decisioni le domande di ripristino dei contratti e delle linee telefoniche sono, quindi, ora, rimbalzate al Tribunale di Milano, che a distanza di quasi 9 anni dai fatti, deve ancora decidere, proprio come nel precitato caso dello spoglio dei quadri della mostra “Pittori contro la guerra 1997”.
E l’odissea non sembra finire qui (Atto di citazione in riassunzione, Tribunale di Milano, Sezione IV civile, dr. Manunta, R.G. n 66945/03).

Quest’ulteriore emblematico episodio di “malagestio” dell’Amministrazione della Giustizia che suggella 20 anni di continue turbative e boicottaggio paraistituzionale delle attività dell’Associazione, rappresenta l’estremo tentativo dell’apparato repressivo dello Stato e di chi ne controlla le leve di comando di mettere a tacere una voce scomoda e indipendente, cercando di soffocarne proprio la <libertà di comunicazione telefonica> che a, seguito dello sviluppo tecnologico e del progresso economico, è divenuta un diritto essenziale, equiparabile alla libertà di manifestazione del pensiero, come statuito dalla già citate massime della Corte Costituzionale e dalle Direttive della CEE, in materia.
La concomitanza dello spoglio delle linee telefoniche e dei quadri della sezione dedicata all’etica della politica, a cui fa seguito, nel giugno del 1999, lo spoglio violento della sede dell’Associazione, non è una coincidenza temporale, determinata dal caso, ma la lucida scelta di tempi e tecniche repressive, attraverso cui lo Stato e i suoi apparati territoriali, facendo leva su una magistratura, priva di una cultura dei diritti, in larga parte asservita agli interessi dell’establishment, hanno deciso di <sospendere> le tradizioni normative e le garanzie costituzionali, nei confronti di chi ne rivendicava l’applicazione, determinando <quella “eccezione” della discrezionalità che conferma la regola dell’arbitrarietà>, tipica dei regimi totalitari o, se si preferisce, dei Paesi privi di diritti certi.

Il programma che l’Associazione si proponeva di realizzare, attraverso la mostra “Pittori contro la guerra 1997“, collegando le organizzazioni impegnate nella tutela dei diritti, aprendo la sede di Via Dogana alle iniziative della società civile, offrendo tutela gratuita alle vittime della malagiustizia, lanciando campagne per la confisca dei patrimoni illeciti e per l’istituzione di una Commissione di controllo sull’operato di politici e magistrati, a cui potenzialmente potevano collaborare gli oltre 250.000 cittadini che avevano firmato le sue petizioni, era talmente temibile, da parte di chi voleva conservare i logori equilibri, su cui, tuttora, si regge l’organizzazione dello Stato, che è sembrato quasi “indispensabile“, cercare di sopprimere con qualsiasi mezzo, chi “osava” turbare quell’assetto di potere che, seppure moralmente inaccettabile alle gente per bene, per chi amministra il potere, viene inteso come il cardine dell’ordine sociale e della sicurezza dello Stato.

Ripercorrendo il manifesto di presentazione di “Pittori contro la guerra 1997”, si legge, infatti, testualmente che: “il Movimento per la Giustizia Robin Hood, quale associazione di volontariato, intende proporre alle persone di buona volontà e alle migliaia di associazioni umanitarie che agiscono sparse in ogni parte del mondo (e di cui spesso si ignora la reciproca esistenza), la creazione di una forte federazione internazionale con statuto depositato presso le Nazioni Unite (mantenendo le singole autonomie e competenze), in modo di potere pesare concretamente sul piano interno e internazionale con proposte e iniziative volte a garantire l’effettivo rispetto dei diritti umani nel mondo.
Il significato che potrebbe, ad esempio, assumere una campagna contro la produzione di armi da guerra o per interventi umanitari a favore di popolazioni colpite da conflitti bellici, promossa contemporaneamente da migliaia di associazioni non governative in ogni parte del mondo, è certo di diversa incidenza rispetto ad ogni singola iniziativa di ogni singola associazione, localmente circoscritta.
La proposta è quindi quella di iniziare a lavorare insieme, creando momenti di incontro e collegamenti, per costruire un ordine mondiale di pace e solidarietà tra i popoli, nel rispetto delle diversità culturali, etniche, sociali, politiche e religiose, ovvero un’etica universale dei diritti umani
“.
E’ oggi possibile affermare (prosegue il documento) una nuova cultura universale, capace di mutare i rapporti sociali e attuare i principi etici di uguaglianza e solidarietà tra gli uomini, estirpando dai loro cuori l’egoismo, l’odio e l’arroganza, da cui nascono le guerre.
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo pronunciata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite deve venire oggi concretamente attuata in ogni parte del mondo. Gli stati membri dell’O.N.U. ne hanno formalmente assimilato i principi fondamentali nei loro ordinamenti con leggi specifiche con cui uniformare l’organizzazione sociale, consolidando il principio supremo di “ORDINE INTERNAZIONALE”, fondato sul rispetto dei diritti umani universali e, conseguentemente, il principio di “NON LIBERTÀ DEGLI STATI” ad agire in spregio alle convenzioni internazionali.
Ma le brutalità e le gravi forane di ingiustizia che affliggono più o meno tutti i paesi del mondo testimoniano come siamo, ancora, ben lontani dall’effettivo rispetto dei diritti umani. I cosiddetti diritti di “PRIMA GENERAZIONE” (civili e politici), strettamente legati al diritto alla vita, alla libertà di pensiero e di associazione, a ricevere un processo equo, in tempi rapidi, da un tribunale imparziale, vengono, ancora, violati in gran parte del mondo, così come quelli definiti di “SECONDA GENERAZIONE” (economici, sociali e culturali) e di “TERZA GENERAZIONE”‘ (pace, ambiente, sviluppo).
Pensiamo a quanto accade nell’ex Zaire dove oltre un milione di persone e bambini hanno dovuto abbandonare i loro villaggi, le loro case, e si trovano senza acqua, viveri, medicine e mezzi di sussistenza, senza che la Comunità internazionale sia riuscita ad intervenire, come ha denunciato lo stesso Alto Commissario, Ogata Sadako, che ha lanciato un allarmante appello lo scorso aprile. La cultura occidentale (dalla Magna Charta nel 1200) ha inventato i cosiddetti diritti di prima generazione e il linguaggio giuridico.
Benché i diritti di prima generazione siamo stati concepiti in Europa, proprio nell’ambito di questo continente si è affermato il colonialismo e la giustificazione etica dello “STATO ARMATO”, a protezione del brutale sfruttamento economico delle risorse naturali e umane dei paesi in via di sviluppo.
A superamento di questa logica è auspicabile che si progetti una nuova concezione dello Stato, intervenendo sull’organizzazione delle istituzioni, con particolare attenzione alle strutture educative, che devono diventare scuole di educazione alla cittadinanza, per sviluppare la massima attenzione e ricettività ai bisogni dei cittadini. Attraverso nuove forme di cooperazione internazionale e specifici progetti delle Nazioni Unite, oggetto dell’attuale dibattito, sarà possibile risolvere il problema dei flussi migratori e della fame nel mondo, sulla base di valori umani universali. In tal modo alla “cittadinanza anagrafica” si sostituirà lo “STATUTO GIURIDICO DELLA PERSONA UMANA“, fondato sui principio della cittadinanza universale (cittadini del mondo)
“.
Per frenare le gravi forme di ingiustizia e le sistematiche violazioni dei diritti fondamentali (conclude il documento) è necessario sviluppare un’azione dal basso delle “ORGANIZZAZIONI NON GOVERNATIVE” che sempre più numerose partecipano alle attività delle Nazioni Unite, assumendo una funzione determinante del processo in atto per la concreta attuazione dei principi, posti a base della Dichiarazione del 1948” (P. Palau Giovannetti, “Una mostra per il rispetto dei diritti umani nel mondo, contro le guerre, l’ingiustizia e l’indifferenza“, in Presentazione “Pittori contro la guerra 1997”).

Negli anni che seguono, l’attività dell’Associazione, spogliata di sede, numeri telefonici di riferimento, archivi, fascicoli processuali, indirizzari soci e visibilità sui media (tanto da fare credere abbia cessato di esistere), subisce un forte rallentamento, concentrandosi sulla propria difesa legale, resa sempre più difficoltosa dal moltiplicarsi dei procedimenti e dalle resistenze della magistratura, in ogni sede e grado, riottosa a riconoscere le sue giuste ragioni, accertando la verità, a cui si affianca la difesa legale dei soggetti più deboli e dei tanti cittadini che, ogni giorno, loro malgrado, vengono costretti a subire soprusi legalizzati da parte delle varie mafie di potere. Si apre, così, una seconda fase nella storia della Associazione.

L’istituzione degli sportelli di “S.O.S. Giustizia” viene affidata alla struttura di “Avvocati senza Frontiere”, una rete che offre, gratuitamente, orientamento legale e la necessaria assistenza alle persone in stato di bisogno, attraverso cui è stato possibile raccogliere migliaia di casi, risolvendo molte situazioni di denegata giustizia, che spesso potevano sembrare impossibili da rovesciare.
Di tali attività, svolte da operatori del settore a livello di volontariato, ne parliamo nel paragrafo successivo, limitandoci a ricordare, a chiusura di questa prima parte che, l’Associazione, oltre ai numerosi riconoscimenti internazionali e patrocini per le sue attività in difesa della pace e della legalità, è stata insignita dell’Alto riconoscimento dell’O.N.U., “Thanksgiving for Peace“, in occasione della Giornata Mondiale delle Nazioni Unite, svoltasi a Milano, il 28 ottobre 2000, e che, nonostante, magistratura e Stato Italiano l’abbiano privata di qualsiasi tutela e sostegno finanziario, facendole venire meno l’assegnazione di nuovi locali, ove esercitare la propria attività, nonché ogni indispensabile cooperazione istituzionale, la stessa continua ad esistere e a godere di buona salute, testimoniando dal proprio sito internet, seguito in ogni parte del mondo, e dalle colonne di “la Voce di Robin Hood” (organo del Movimento per la Giustizia), a quale punto le istituzioni dello Stato possano ridursi nel cercare di frenare l’affermazione della legalità e dei diritti umani (www.associazioni.milano.it/robinhood/).

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Corriere della Sera, “Robin Hood, arresto confermato“, 9/1/96;

Sentenza n. 2139/98, Corte di Appello di Milano, 4° Sezione penale;

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Marina Di Leo, “Eccovi il Circo della Politica“, Stop, Dicembre 1996;

Comunicazione di notizia di reato con richiesta di decreto di Sequestro Preventivo, 7/4/97, Questura di Milano, Commissariato della P. di S. di S. Selpocro, Ispettore della Polstato Carmelo Di Grazia;

Sergio D’Asnasch, “Attestazione autografa“, agli atti del procedimento penale n. 6590/01, Tribunale di Milano, a carico di Pietro Palau Giovannetti;

Regolamento di Servizio Telecom Italia, art. 13, commi 2° e 5°;

Atto di Appello, in data 26/8/03, avverso sentenza Tribunale di Milano, n. 9410/02, tra Movimento per la Giustizia e Telecom Italia (R.G.A. n. 3001/01, Corte Appello Milano);

Atto di appello in data 1.3.03, avverso sentenza Tribunale penale di Brescia, n. 3500/02, c/Pietro Palau Giovannetti;

Esposto 4.11.98 al Presidente del “Comitato Permanente per l’Attuazione della Carta dei Servizi Pubblici“, On. Massimo D’Alema;

Direttiva CEE n. 95/62;

Direttive Ministero Poste e Telecomunicazioni 31/10/95 e 22/10/95;

Direttiva Presidenza del Consiglio dei Ministri 27/1/95;

Sentenza Corte Costituzionale n. 1104/88, in Foro Itialiano I, 1989, I, C. 7;

Sentenza Suprema Corte di Cassazione, Sezione terza, n. 13754/02, Palau Giovannetti Pietro e Movimento per la Giustizia Robin Hood contro Telecom Italia S.p.A.;

Sentenza Suprema Corte di Cassazione, Sezione terza, n. 2058/04, tra Movimento per la Giustizia Robin Hood e Telecom Italia S.p.A.;

Atto di citazione in riassunzione, Tribunale di Milano, Sezione IV civile, dr. Manunta, R.G. n. 66945/03;

Palau Giovannetti, “Una mostra per il rispetto dei diritti umani nel mondo, contro le guerre, l’ingiustizia e l’indifferenza“, in Presentazione “Pittori contro la guerra 1997”.

CASE POPOLARI: COME UNA CAUSA POSSA DURARE 30 ANNI

CASE POPOLARI: COME UNA CAUSA POSSA DURARE 30 ANNI

(da “La Voce di Robin Hood”, p. 3 n. 1, Ottobre 2002, Anno III)

Una tra le cause più scandalose di cui si sia occupata l’Associazione negli ultimi dieci anni è sicuramente quella degli assegnatari delle case popolari dell’ALER, la cui gestione dimostra come una causa di lavoro o di locazioni ad uso abitativo per l’accertamento del canone sociale o dell’equo canone, ove sussistano pressioni e interessi, possa durare anche oltre 30 anni, sovvertendo le ragioni delle parti più deboli e i principi di diritto.

E’ il caso dell’azione, intentata da alcune migliaia di famiglie, titolari di alloggi popolari, che chiedevano l’accertamento del vincolo di pertinenzialità dei box assegnati unitamente all’abitazione e l’applicazione del canone sociale, nei confronti dell’ex I.A.C.P. (ora ALER), che pretendevano, invece, indebitamente, dapprima, di praticare l’equo canone, eppoi, canoni da libero mercato, sostenendo trattarsi di “unità commerciali”.

Una storia costellata di abusi, omissioni, connivenze, infedeltà professionali, falsità in atti pubblici, sottrazione di sentenze ed interi fascicoli di ufficio, nonché dal sistematico stravolgimento delle norme di diritto e delle regole processuali.

Il tutto, per paralizzare l’esecuzione di due vittoriose sentenze che, sin dagli anni Ottanta, accoglievano in toto le domande pilota, all’epoca svolte da circa 1500 inquilini, riconoscendo il canone sociale, ovvero per impedire che, altre 7500 famiglie assegnatarie di altrettanti alloggi popolari, nella Regione Lombardia, potessero pretendere l’applicazione della riduzione del canone di locazione, in osservanza alle leggi dello Stato che, a seguito della modifica dell’art. 41 sexies della Legge Urbanistica, effettuata dall’art. 18 L. 765/67, definiscono il regime delle pertinenze, ex art. 818 c.c., e il conseguente assoggettamento al regime giuridico della cosa principale, sancendo il vincolo di pertinenzialità dei box locati unitamente all’abitazione (Sentenze Cassazione nn. 9115/90 e 11731/92).

Il caso perviene agli sportelli di Avvocati senza Frontiere circa sette anni fa, quando ormai si era persa ogni traccia delle vittoriose sentenze che imponevano allo IACP l’applicazione del canone sociale, dovendosi ritenere, il locale box, compreso nella superficie abitativa dell’alloggio principale, in base ai principi vigenti sopracitati.

Ciò, mentre l’ALER, che era subentrato allo IACP, non si accontentava più di pretendere il solo equo canone, anziché quello sociale previsto dalla legge n. 392/78, bensì esigeva, dietro minaccia di sfratto ed ingiunzioni coattive, il pagamento di canoni di libero mercato, mai pattuiti, né accettati dagli assegnatari che, in gran parte, si erano rifiutati di firmare i nuovi contratti vessatori.

I protagonisti narrano che gli ex difensori, vicini ad alcuni sindacalisti corrotti, gli avrebbero fatto credere che le cause sarebbero state <definitivamente perse>, tanto da averli indotti a pagare delle somme per spese, mentre avevano poi scoperto che non era vero e si trattava di un imbroglio in loro danno, per costringerli a pagare molto di più del dovuto.

Importi da capogiro, se prendiamo in considerazione il dato che le circa Lire 100.000 al mese, pagate da ciascun assegnatario, senza titolo, vanno moltiplicate per oltre 9000 famiglie in tutta la Lombardia e per tutti gli svariati anni da cui sta durando la causa, con il beneplacito dei giudici milanesi e della Cassazione.

Fatte le opportune indagini, i legali di Avvocati senza Frontiere scoprono che è tutto vero e la realtà è molto più grave di ogni ipotesi.

Gli ex difensori, non solo hanno ingannato i propri assistiti, facendogli credere che le loro diverse cause erano state definitivamente perse, ma gli avevano addirittura sottaciuto, dolosamente, che avrebbero avuto la possibilità di proseguirle in sede di riassunzione, in quanto la Cassazione, a seguito di alcuni ricorsi dello IACP, non si era pronunciata nel merito, ma aveva semplicemente <cassato con rinvio>, ragione per cui l’annosa controversia, che si trascinava per alcuni dal 1973, era ancora tutta da decidere.

Ma non è tutto.

I legali dell’Associazione scoprivano che uno dei due ex infedeli difensori, in concorso con i difensori dello IACP ed i giudici della Cassazione (che avevano il dovere di controllare preliminarmente la regolarità delle notifiche), aveva dichiarato falsamente di avere ricevuto tempestivamente la notifica del ricorso, al seguito del quale la Cassazione, poi, annullava la vittoriosa sentenza n. 953/83 del Tribunale di Milano, favorevole agli inquilini assegnatari.

A questo punto, i legali dell’Associazione ripartivano da capo, con una nuova azione avanti al Tribunale di Milano, facendo rilevare di essere stati costretti, dopo 25 anni di cause tra le parti, che avevano sempre dato ragioni ai ricorrenti, a ricominciare la causa, ex novo, a seguito di una serie di gravissime inadempienze degli ex legali che, da una parte, avevano “inspiegabilmente” omesso di eccepire la improcedibilità del giudizio di legittimità di cui alla sentenza di rinvio n. 518/86, per mancata integrità del contraddittorio nei confronti di 402 litisconsorti su 453, risultando il ricorso notificato solo a 33 di essi, con il conseguente passato in giudicato della sentenza impugnata e, dall’altra, di riassumere i giudizi per la restante parte dei ricorrenti, giungendo, maliziosamente, a fargli, addirittura, credere che si sarebbe trattato di sentenza definitiva, inimpugnabile e contenente una pesante condanna alle spese!

Tali fatti, costituenti notizie di reato, venivano portati anche a conoscenza della Procura di Milano, di cui si chiedeva invano l’intervento, ex artt. 70, co. 1° , n. 4 e co. 2° ultima parte c.p.c. e 11 c.p.p. (in relazione ai reati ipotizzati di “malversazione ai danni dello Stato, concussione ed estorsione aggravata e continuata”, nonché “abuso continuato in atti d’ufficio, falso ideologico e favoreggiamento”), rilevando che, singolarmente, analoghe gravi inadempienze si erano verificate, anche, per quanto attiene la parallela sentenza di rinvio della Corte di Cassazione n. 4609/95, relativa al secondo scaglione di ricorsi (per i residenti del quartiere Bicocca), in cui i ricorrenti, seppure assistiti da un diverso legale, non venivano edotti della possibilità di riassumere il giudizio.

E’ inutile dire che le cause siano tutt’ora in corso, senza la possibilità di ottenere alcuna tutela cautelare immediata, volta ad inibire gli sfratti e le pretese di canoni extra legem, pur in assenza di sottostanti contratti di locazione, in base ai quali l’ALER possa legittimamente fondare le proprie pretese, che appaiono, quindi, di natura estorsiva.

Il Tribunale di Milano, la Procura, la Corte di Appello e la Cassazione, a cui si è pure rivolto un ricorso per <revocazione straordinaria>, ex art. 395 c.p.c. (in relazione alla precitata nullità della sentenza n. 518/86, sussistendo il presupposto del <dolo collusorio bilaterale> come ipotizzato dalla giurisprudenza di legittimità), hanno fatto muro, erigendo un vero e proprio cordone protettivo degli illeciti interessi dell’ALER e dei terzi soggetti aventi causa, respingendo e archiviando, allo stato, ogni ricorso e denuncia.

La Corte di Cassazione, dopo avere ammesso il ricorso per revocazione, fissando udienza pubblica, è giunta al punto di inventarsi di sana pianta, grazie ad un anomalo intervento del P.G., che “non sarebbe stata addirittura prodotta la copia autentica della sentenza impugnata”, respingendo quindi il ricorso, già regolarmente iscritto a ruolo (ovviamente munito della copia autentica della sentenza n. 518/86) per pretesa inammissibilità.

Ancora una volta, dopo 30 anni, senza entrare nel merito.

Questo è quindi il dato comune che in genere emerge dai tanti casi qui esaminati.

Ove i giudici non giungano ad utilizzare tali espedienti per respingere le domande dei dominati, la strada della motivazione di diritto, oltre che meno sbrigativa, appare più problematica, in quanto è più complesso trovare delle motivazioni che abbiano una parvenza di logicità giuridica, stante che, di norma, il torto dei dominanti è eclatante e non si può ricorrere, come in penale, a <leggi ad personam>.

Basti pensare che le difese nel merito dell’ALER sono unicamente fondate sul fatto che la libertà di praticare il canone di libero mercato ai box pertinenziali, di cui non nega il vincolo con l’alloggio, traggono origine da una normativa della Regione Lombardia, entrata in vigore in epoca successiva alla stipula dei contratti per cui è causa.

Normativa che, oltre a non avere efficacia retroattiva, contrasta con la legislazione nazionale e, in particolare, con la L. 392/78, che all’art. 13 prevede l’applicabilità del canone sociale, nonché con ogni altra diversa legislazione regionale, che, nella peggiore delle ipotesi, prevede l’applicabilità dell’equo canone.

Ciò nonostante, nessun giudice ha, allo stato, accolto l’istanza di rimettere gli atti alla Corte Costituzionale, in relazione all’illegittimità costituzionale degli art. 27 e 28 della L.R. 91- 92/83, modificata dalla L.R. 28/90 (ove possa ritenersi che dette norme, come sostenuto dall’ALER, legalizzerebbero l’applicazione del canone di libero mercato ai box pertinenziali), in relazione a quanto disposto dagli artt. 3 e 25 della Costituzione, in quanto in palese con l’art. 13, lettera b) della L. 392/78 e gli artt. 817 e 818 c.c., nonché con l’art. 41 sexies della Legge urbanistica n. 1150/42, introdotta dalla Legge Ponte n. 865/67, ovvero con le più recenti disposizioni della L. n. 122/89 che stabiliscono i criteri di pertinenzialità.

Sul punto si sottolinea come sia evidente la violazione dell’art. 3 della Costituzione, in relazione al principio dell’uguaglianza di tutti di cittadini di fronte alla legge, in quanto una dettagliata analisi delle legislazioni regionali, in materia di determinazione dei canoni di locazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica non può che portare ad un’unica conclusione circa la evidente singolarità della legislazione regionale lombarda, di cui alla L.R. 28/90, rispetto alle altre legislazioni regionali.

Al riguardo, i legali dell’Associazione hanno evidenziato che diverse legislazioni, nel quadro del principio del decentramento amministrativo, adottato dalla Legge Bassanini, demandano ai comuni i criteri di determinazioni dei canoni, altre esplicitamente si riferiscono al disposto della l. 392/78.

Si indicano, alcuni esempi che possono illuminare l’illegittimità dei comportamenti di ALER e della giurisprudenza anche di legittimità che in taluni casi ha ammesso la libertà da parte di ALER di praticare canoni di libero mercato:

ABRUZZO: la L.R. 25 ottobre 1996 n. 96 all’art 22 prevede “Per la determinazione del canone di locazione degli alloggi di cui all’art. 1 degli enti gestori tengono conto dei caratteri oggettivi degli alloggi e del reddito complessivo del nucleo familiare degli assegnatari…….In relazione ai caratteri oggettivi degli alloggi gli enti gestori definiscono il canone di locazione secondo le disposizioni di cui agli artt. 12 al 15, dal 17 al 24 della legge 392/78… (L.R. 25 ottobre 1996 n. 96);

CAMPANIA: la L.R. n.del 14.08.1997 n. 19 all’art. 19 prevede: ” il canone degli alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica …è determinato secondo il seguente schema: CANONE A – canone sociale non superiore all’ 8% del reddito impositivo familiare, articolato nel modo seguente in relazione alla composizione del nucleo familiare, in ogni caso si applica un canone minimo di l. 5.000 per ciascuno dei vani convenzionali, il cui numero determina trasformando la superficie dell’unità immobiliare di cui all’art. 13, comma 1 lett. a della legge 392/78- CANONE B – canone di riferimento determinato con le modalità previste dagli articoli da 12 a 24 della legge 27 luglio 1978 n. 392.. (L.R. n.del 14.08.1997);

LIGURIA : la L.R. del 21.06.1996 n. 27 all’art 4 prevede: ” l’elemento oggettivo sulla base del quale si calcola il canone convenzionale di locazione è costituito dal canone fissato con le modalità previste dagli articoli da 12 a 24 della legge 27 luglio 1978 n. 392… (L.R. del 21.06.1996);

SARDEGNA: la L.R. n.7 del 05.07.2000 all’art. 2 prevede: ” il canone di riferimento è determinato con le modalità previste dagli articoli da 12 a 24 della Legge n. 392 del 1978, salvo quanto previsto nei commi seguenti… (L.R. n.7 del 05.07.2000);

MARCHE: la L.R. n. 44 del 22.07.1997 all’art. 34 prevede: il canone oggettivo degli alloggi di cui all’art. 2 è determinato in relazione ai caratteri oggettivi degli alloggi ai sensi degli articoli da 12 a 24 della legge 27 luglio 1978 n. 392… (L.R. n. 44 del 22.07.1997);

Il PIEMONTE invece nella legge regionale 28 marzo 1995 n. 46 all’art. 18 compie una importante distinzione. Al comma primo si legge che “il canone di locazione degli alloggi di cui all’art. 1 è determinato in relazione ai caratteri oggettivi degli alloggi ai sensi degli articoli da 12 a 24 della legge 392/78, nella misura del 3,85 per cento del valore locativo dell’immobile locato. Il secondo comma precisa: “alle autorimesse e ai posti macchina in autorimesse di uso comune è applicato, con contratto separato rispetto a quello dell’alloggio, un canone determinato dal Consiglio D’Amministrazione dell’Ente gestore (L.R. 28 marzo 1995 n. 46).

Bisogna dunque evidenziare che, sinora, nessun giudice ha voluto prendere atto da un lato che per esigere il pagamento di canoni a libero mercato è necessaria la stipula di un diverso contratto di locazione di quelli esistenti tra le parti, dall’altro che la determinazione non è necessariamente effettuabile a prezzo di mercato.

In definitiva, la normativa regionale lombarda non solo è in contrasto con la normativa nazionale oltre che viziata da irretroattività, ma è anche in contrasto con le altre legislazioni regionali in materia.

 

 

UNA VITA DA CANCELLIERE DI TRIBUNALE PER FINIRE SFRATTATO DAI GIUDICI

UNA VITA DA CANCELLIERE DI TRIBUNALE PER FINIRE SFRATTATO DAI GIUDICI

“L’uomo, sofferente di diabete, negli anni ’90 aveva chiesto un prestito di 60 milioni e gli usurai gli hanno portato via tutto. Ora è su una strada” (Manuela D’Alessandro, Libero, p. 33, 29/6/04).

Così titola l’unico quotidiano italiano che ha parlato del caso, seppure la storia di Francesco Santomanco sia un caso eclatante e paradigmatico di malagiustizia, trattandosi di una persona anziana e malata, vittima dell’usura, che è stata buttata fuori con la forza pubblica dalla sua abitazione, legato brutalmente con le cinghie alla barella, perché non voleva uscire dalla casa in cui aveva vissuto tutta la vita.

Ciò nel poco nobile scopo di dare esecuzione all’illegittima vendita giudiziaria che aveva visto aggiudicare l’appartamento di sua proprietà, a quotazione del tutto vile, ad una società immobiliare che opera, con probabili illecite aderenze nel Tribunale di Milano, all’ombra del cosiddetto cartello della “compagnia della morte”.

Una parabola kafkiana, scrive Manuela D’Alessandro, di un uomo che ha speso una vita per la giustizia e che dalla giustizia “rischia ora di venire risucchiato in un buco nero”.

“Nella storia del cancelliere vi sono due mostri e un eroe. In ordine di comparizione: l’usura, la magistratura – quando sembra fare di tutto per dimenticare la sua funzione precipua di organo decidente – e (l’Associazione) di Avvocati senza Frontiere”.

“Sorprendentemente, nessuno dei sei giudici dei due tribunali coinvolti, quello milanese e quello bresciano, ha sospeso l’esecuzione dello sfratto coatto. Eppure sussistevano almeno due valide ragioni per farlo. Santomanco è stato riconosciuto dalla stessa magistratura vittima dell’usura… Inoltre soffre di diabete in forma avanzata… La riprova di ciò sono le modalità con cui è stato buttato fuori di casa: legato a doppia cinghia su una barella e con la maschera a ossigeno sul volto. Quello che sconcerta, aggiunge Palau, è come si sia giunti a questo epilogo drammatico.

Nell’ultimo anno io e i legali dell’Associazione abbiamo presentato venti ricorsi per bloccare l’esecuzione dello sfratto. I giudici, senza mai entrare nel merito dei fatti e negare le nostre ragioni, si sono rimpallati la questione da una scrivania all’altra per decidere di chi fosse la competenza.

Così gli usurai hanno potuto portare a termine lo spoglio dell’immobile dove viveva Santomanco”.

Difficilmente la stampa dà notizia di questi ordinari abusi nei confronti delle persone inermi, in quanto mettono in luce il male profondo della nostra società e delle Istituzioni, incapaci di tutelare i deboli, poiché protese a difendere gli interessi dei potenti.

Dell’allucinante odissea giudiziaria di Francesco Santomanco, Dirigente della Cancelleria della 3° sezione civile della Corte d’Appello di Milano, da oltre due anni non ne ha parlato più nessuno, nonostante sia la storia di un uomo onesto che ha denunciato i suoi aguzzini e gli stessi giudici che hanno permesso lo spoglio violento della sua abitazione.

Ciò grazie all’assoluta inerzia della magistratura bresciana e della Prefettura di Milano, a cui si è vanamente rivolto, ai sensi della Legge antiusura, denunciando la vasta “collusione ambientale”, che coinvolge, in generale, le Istituzioni, a seguito della quale si è visto brutalmente gettare in mezzo alla strada, seppure ultrasessantacinquenne, affetto da gravi patologie e privo di altra dimora.

La selvaggia esecuzione è, infatti, avvenuta con il beneplacito del Presidente del Tribunale di Milano, dr. Cardaci e di un gruppo di giudici civili (D’Orsi, Massenz, Canu, Massari, Ferrero, Zevola, D’Ambrosio, Fabiani), che hanno fanno quadrato per difendere una vendita illegittima e l’errore (o il dolo) del giudice che l’ha disposta, senza tenere conto dell’origine usuraria ed estorsiva dei crediti posti a base della stessa e dell’irrisorietà del prezzo di stima.

In buona sostanza, i giudici si sono deliberatamente “palleggiati” per ben un anno gli oltre 20 ricorsi in opposizione all’esecuzione di rilascio forzoso, omettendo di provvedere sulle reiterate istanze di sospensione dello sfratto, presentate dal difensore, così consentendo di portare ad estreme conseguenze il disegno criminoso dei gruppi usurari, tanto da provocare l’apertura di un procedimento penale avanti alla Procura di Brescia per “abuso continuato in atti d’ufficio, falso ideologico e favoreggiamento, finalizzati all’estorsione”.

Procedimento che vede, peraltro, anche, l’inerzia del P.M. di Brescia che non ha, neppure, provveduto a distanza di mesi, sull’istanza di sequestro penale e conservativo dell’immobile.

Inerzia che caratterizza anche la Procura Generale della Cassazione e i Ministeri dell’Interno e della Giustizia, a cui si è, invano, richiesto di intervenire per ristabilire la legalità e fare luce sullo oscuro ambiente delle vendite giudiziarie del Tribunale di Milano, notoriamente controllato dalla c.d. “compagnia della morte”, per cui furono arrestati un gruppo di avvocati e cancellieri, senza, peraltro, intaccare il livello più alto e le complicità dei magistrati (La Repubblica, “La Scommessa del Tribunale di Milano”, 11.11.2003).

LA STORIA.

L’incredibile storia di ordinaria ingiustizia, per chi conosce il reale funzionamento delle aste giudiziarie e il clima di oscure connivenze istituzionali in cui versa la giustizia italiana, nasce a seguito di un prestito di Lire 60.000.000 e successive pretese aventi palese natura usuraria ed estorsiva, da parte di società finanziarie e soggetti privati con influenti aderenze nel sottobosco affaristico-giudiziario, per cui il nostro malcapitato di turno è stato ingiustamente sottoposto al duplice pignoramento, sia della propria abitazione che di un secondo immobile di famiglia, entrambi molto appetibili, in quanto siti in zona centrale di Milano, che sono stati ovviamente stimati a valore infimo, onde potere pilotare l’acquisto su società immobiliari e soggetti vicini al torbido ambiente delle aste giudiziarie, come detto, notoriamente controllate dalla famigerata “compagnia della morte”.

La somma iniziale di Lire 60.000.000, seppure restituita con tassi sempre crescenti, è via via lievitata fino a quasi Lire 900.000.000, costringendo la vittima a firmare cambiali, ipoteche ed obbligazioni di ogni sorta, senza che esistesse alcuna ulteriore dazione di danaro o nuovo “prestito”, con la conseguente evidente natura usuraria ed estorsiva delle maggiori esorbitanti somme poi pretese in sede di pignoramento immobiliare, a seguito del quale è stata disposta la vendita dei due immobili, nonostante plurime opposizioni, istanze di riduzione del pignoramento e denunce.

Mentre il debito saliva così vertiginosamente alle stelle la famigerata “compagnia della morte”, grazie alle diffuse complicità tra giudici, notai e periti della 3^ sezione del Tribunale di Milano, riusciva a fare scendere, al di sotto di qualsiasi immaginabile valutazione di mercato, la stima dei due immobili, siti in pieno centro di Milano (euro 1500 al mq.!).

Con il risultato di riuscire a derubare “in forma legale” il malcapitato soggetto passivo, che, oltre all’usura, diviene vittima anche di un’estorsione paragiudiziaria, avallata dai magistrati. Ciò nonostante, ad avviso dei giudici denunciati che si sono dichiarati incompetenti a decidere, non esisterebbero motivi per sospendere l’illegittima procedura esecutiva.

Per capacitarsi dell’abnormità di tale negazione di tutela basta ricordare che il Giudice dr.ssa Massenz ha iniquamente negato la riduzione del pignoramento e una nuova stima, nonostante trattasi di due immobili, entrambi di alto pregio e valore commerciale, per cui la vendita di uno solo al reale valore di mercato sarebbe stata sufficiente a coprire l’intera pretesa creditoria.

Infatti, il perito, geom. Lapomarda, denunciato per falsa perizia, ha valutato appena Euro 1500 al mq. i due immobili, quando dai bollettini della CCIAA e da stime più oggettive e non mendaci, da noi prodotte, risultano valori in zona di almeno 6000 Euro per mq. Una discrepanza talmente vistosa che non poteva esimere i giudici da maggiori approfondimenti e dalla richiesta rinnovazione della stima, posto che, a 1500 Euro al mq., ormai, non si trovano case da comprare, neppure nelle estreme periferie urbane.

In tale contesto, il sig. Santomanco ha proposto, come detto, una serie di opposizioni ex art. 615 e 617 c.p.c. con impugnazione di falso della CTU di stima e del decreto di trasferimento degli immobili, chiedendo l’intervento del P.M. di Brescia, territorialmente competente ex art. 11 c.p.p., in relazione ai reati ipotizzati di falsa perizia, usura, frode processuale, abuso continuato in atti d’ufficio e falso ideologico, finalizzati all’estorsione, anche a carico dei giudicanti che risultassero responsabili di concorso e/o favoreggiamento.

Onde meglio spiegare i gravi abusi ed omissioni in cui sono incorsi il Presidente del Tribunale dr. Cardaci e i vari giudici, via via incaricati, va detto che gli stessi, pur senza mai negare le gravi ragioni del sig. Santomanco ad ottenere la sospensione dello sfratto, ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c., hanno fatto il “giuoco delle tre tavole” (questa vince e questa perde), palleggiandosi per un anno, tra Giudice dell’opposizione all’esecuzione (615) e Giudice dell’opposizione agli atti esecutivi (617), i vari ricorsi proposti, al fine precipuo di paralizzare qualsiasi opposizione e ragione, onde consentire alle controparti di portare a termine lo spoglio violento degli immobili.

In proposito, si noti bene che tale distinzione di diritto, dal punto di vista pratico è solo apparente, in quanto si tratta di funzioni racchiuse nello stesso ufficio giudiziario e spesso nella persona del medesimo giudice che, nella specie, togliendosi il cappello, come nei giuochi di prestigio, si qualificava, a seconda della bisogna, o nell’una o nell’altra veste.

Infatti, dapprima, il Presidente del Tribunale di Milano, dr. Cardaci e la dr.ssa Gabriella D’Orsi, Presidente della 3° sezione esecuzioni immobiliare (già indagata a Brescia per avere favorito l’acquisto all’asta, a prezzo irrisorio, di un appartamento in favore della figlia), assegnavano al Giudice della “opposizione agli atti esecutivi” (617) le svariate “opposizioni all’esecuzione”, proposte ai sensi dell’art. 615 c.p.c., i quali senza entrare nel merito e negare la fondatezza delle ragioni addotte, dichiaravano competente a decidere il giudice dell’opposizione all’esecuzione (615), pur senza, tuttavia, mai rimettere gli atti a tale giudice funzionalmente competente.

Infine, dopo avere denunciato tali espedienti, falsità ideologiche e gravi omissioni alla Procura di Brescia, nonchè il ritardo con cui era stata disposta l’assegnazione dei ricorsi ex art. 615 c.p.c., il giudice teoricamente funzionalmente competente, dr.ssa D’Ambrosio, concludeva nel caso del primo immobile di Via Menotti (aggiudicato da una società immobiliare) che “ormai lo sfratto aveva avuto luogo”, mentre nel caso dell’immobile di Via Bellotti che la competenza a decidere sull’invocata sospensione del rilascio coattivo sarebbe stata (sic!) del “giudice dell’opposizione agli atti esecutivi”…! Proprio come nel giuoco delle tre tavole.

Peccato che a perdere questa volta siano i cittadini onesti e l’immagine stessa della giustizia che ormai tutti possiamo capire sia priva di credibilità e prospettive se non si cambia direzione (Fonti: atti procedimenti P.M. di Milano, dr. Spataro, R.G.N.R. 14114/03/21, nonché R.G.N.R. 1036/04 P.M. Brescia).

IL DRAMMATICO BRUTALE EPILOGO.

Dalla notte del 24 giugno 2004 l’anziano malato cancelliere ultrasessantacinquenne vittima dell’usura trovava rifugio e dimora al Dormitorio pubblico di Viale Ortles, con i vestiti lacerati e una prognosi di gg. 5 per le varie lesioni inflittegli, a seguito del brutale sfratto con la forza pubblica, che nessun giudice ha voluto sorprendentemente sospendere, anche per breve tempo, nonostante la pendenza di diversi procedimenti e le gravi ragioni addotte, che traggono origine da una preordinata azione estorsiva e dalla sottostima della sua abitazione, alienata a valori infimi.

In particolare, va denunciato che l’esecuzione ha avuto luogo con modalità violente, nonostante le sue gravi condizioni di salute, attestate dal medico della A.S.L. presente e dai sanitari che lo avevano giorni prima dimesso dall’ospedale Fatebenefratelli, ordinandogli un periodo di cure domiciliari e assoluto riposo per almeno tre mesi.

Da ultimo, occorre segnalare la sparizione e mancata registrazione della denuncia penale contro l’Ufficiale Giudiziario, gli agenti di P.S., i barellieri e lo stesso medico della A.S.L. che hanno dato causa, con i loro accondiscendenti e colpevoli comportamenti, allo spoglio violento dell’abitazione del sig. Francesco Santomanco, in cui lo stesso Presidente di “Avvocati senza Frontiere” ha riportato delle lesioni e subito un fermo illegale di 10 ore, pur essendosi semplicemente opposto verbalmente al tentativo (pure illegale) di sequestrare la macchina fotografica di un professionista free lance che lavorava per le Agenzie stampa, il quale aveva ripreso gli atti di violenza subiti dal Sig. Santomanco che, pur respirando faticosamente con la bombola di ossigeno, era stato afferrato per le braccia e le gambe, trascinato e legato a forza sulla barella, nonostante avesse rifiutato il ricovero coatto, denunciando che nessun cittadino può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario contro la sua volontà (art. 32 c. 2 Cost.).

Anche in questo caso un diritto che, seppure enunciato dalla Costituzione Italiana (libertà di cura), non è stato garantito, né dalla Polizia di Stato, né dalla A.S.L., né dai barellieri della Misericordia Città di Milano (i quali, pur essendosi dapprima rifiutati, poi si sono lasciati convincere dalle intimidazioni ricevute), né tantomeno dalla Magistratura alla quale sono stati denunciati i gravi fatti.

In buona sostanza, la Polizia di Stato ha preferito avventarsi su un anziano infermo e sul fotografo, impossessandosi del rullino e mettendo le manette all’esponente di una Onlus, che reclamava il rispetto della legalità; le Autorità Sanitarie e gli stessi volontari della Ambulanza “Misericordia Città di Milano” hanno preferito, invece, lavarsene le mani, accondiscendendo a ciò che dapprima loro stessi avevano reputato illegittimo (il medico firmando il ricovero rifiutato dal paziente e i barellieri trascinandolo e legandolo a forza sulla barella); mentre i Magistrati aditi delle Procure di Milano e Brescia hanno preferito, i primi fare sparire la denuncia-querela 22.9.04 (tuttora priva di registrazione), e i secondi omettere di svolgere qualsiasi indagine nei confronti dei colleghi di Milano, affossando ogni procedimento (Denuncia-Querela del 22.9.04 Francesco Santomanco e Pietro Palau Giovannetti, Procura Repubblica presso il Tribunale di Milano – non registrata) .

UN’ALTRA ESECUZIONE SELVAGGIA DI ALER CONTRO DUE ANZIANI

UN’ALTRA ESECUZIONE SELVAGGIA DA PARTE DELL’ALER CONTRO DUE ANZIANI INVALIDI

 

Il caso dei coniugi Antonio Ferrari e Vilde Elda Bini, due vecchietti ultrasettanticinquenni invalidi e gravemente malati, che, anziché venire aiutati dalle istituzioni, si vedranno buttare in mezzo alla strada e spogliati della loro unica abitazione, dove sono vissuti per oltre 30 anni, nasce con il passaggio dalla gestione Gescal a quella dell’Istituto Autonomo Case Popolari (IACP), allorquando l’ex IACP e in seguito l’ALER pongono in essere una serie di condotte volte a conseguire un flusso ininterrotto di illeciti profitti (extra legem) nei confronti dei 9000 assegnatari di alloggi popolari della Lombardia, i quali godono del canone sociale a condizioni agevolate rispetto al mercato.

Il meccanismo è quello classico utilizzato dagli speculatori del settore immobiliare: da una parte gonfiare fraudolentemente le spese accessorie e dall’altra separare le richieste di pagamento del canone dell’abitazione da quello del box pertinenziale, per cui vengono via via pretese somme sempre maggiori, prima in base all’equo canone eppoi al libero mercato, ignorando le leggi previgenti in materia di canone sociale e pertinenzialità tra abitazione e box (per cui non può venire preteso un canone disgiunto nè tantomeno a valori di libero mercato), nonché le stesse numerose pronunce del Tribunale e della Corte di Appello di Milano, tutte favorevoli agli assegnatari, tra cui i coniugi Ferrari.

In tale contesto, dopo 25 anni di cause vittoriose, durante i quali Iacp e Aler hanno ciò nonostante continuato a pretendere indebitamente maggiori somme, dietro minaccia di sfratto e azioni ingiuntive, il caso perviene agli sportelli di Avvocati senza Frontiere circa sette anni fà, quando ormai si era dimenticata l’esistenza delle vittoriose sentenze che imponevano all’ex IACP l’applicazione del canone sociale, dovendosi ritenere il locale box, compreso nella superficie abitativa dell’alloggio principale, in base ai principi vigenti.
Ciò mentre l’ALER, che era subentrato allo IACP, non si accontentava più di pretendere il solo equo canone, anziché quello sociale, più favorevole, previsto dalla legge n. 392/78, bensì esigeva, sempre dietro minaccia di sfratto ed ingiunzioni coattive, il pagamento di canoni a valori di libero mercato, mai pattuiti, né accettati dagli assegnatari che, in gran parte si erano rifiutati di firmare i nuovi contratti vessatori.
A questo punto il Sig. Ferrari, unitamente ad altre 200 famiglie, patrocinate da Avvocati senza Frontiere, chiede al Tribunale di Milano di dare esecuzione alle sentenze vittoriose che in oltre 25 anni di cause avevano visto la piena soccombenza dello Iacp, inibendo all’Aler di pretendere somme maggiori da quelle stabilite contrattualmente.
Senonché, i vari giudici milanesi incaricati erigevano un vero e proprio muro protettivo, anche in sede penale, per consentite all’Aler di continuare ad esigere somme palesemente non dovute, negando ai ricorrenti qualsiasi forma di tutela cautelare immediata, volta ad inibire gli sfratti e le pretese di canoni extra legem, pur in assenza di sottostanti contratti di locazione, in base a quali l’ALER possa legittimamente fondare le proprie pretese, che appaiono quindi di natura estorsiva (il caso è più diffusamente spiegato in altre pagine web dedicate all’Aler).

E così che, mentre le cause di merito continuano a venire trascinate da svariati decenni, che giungiamo allo sfratto degli anziani coniugi Ferrari e Bini, per cui ieri i legali di Avvocati senza Frontiere hanno depositato l’ennesimo ricorso per la sospensione dell’esecuzione.

G8 GENOVA: CONDANNATI IN APPELLO I VERTICI DELLA POLIZIA

 

G8 GENOVA: CONDANNATI IN APPELLO I VERTICI DELLA POLIZIA.

Nella tarda serata di ieri e’ stata resa nota la sentenza che ribalta quella di primo grado per i disordini e l’irruzione della polizia alla scuola Diaz, nella notte tra il 20 e il 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova.
I giudici della Terza sezione della Corte d’Appello di Genova, dopo oltre undici ore di camera di consiglio, hanno infatti condannato venticinque imputati su ventisette a pene da tre anni e otto mesi fino a cinque anni, con l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni..
Sono stati ritenuti colpevoli anche i vertici della polizia, assolti nella sentenza di primo grado. Secondo i giudici, anche loro erano a conoscenza di quello che sarebbe accaduto nella scuola Diaz. Il capo dell’Anticrimine Francesco Gratteri e’ stato condannato a quattro anni, l’ex comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini a cinque, l’ex vicedirettore dell’Ucigos Giovanni Luperi (attualmente all’Agenzia per le informazioni e la sicurezza interna) a quattro anni, l’ex dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola (ora vicequestore vicario a Torino) a tre anni e otto mesi, l’ex vicecapo del Servizio centrale operativo Gilberto Caldarozzi a tre anni e otto mesi.
Molti dei funzionari condannati in appello hanno fatto carriera dal G8 di Genova del 2001 a oggi. E in quelle giornate presidente del Consiglio era sempre Silvio Berlusconi che ora dovra’ decidere se rimuovere dai loro attuali incarichi coloro che sono stati riconosciuti colpevoli e fornire una propria versione dei fatti risalenti a nove anni fa.
Le polemiche tornano a riguardare anche Giovanni De Gennaro, attualmente al vertice del Cesis, l’ufficio di coordinamento dei servizi segreti. All’epoca dei fatti del G8 di Genova, De Gennaro era capo della polizia. Nell’aprile 2008 era stato chiesto il suo rinvio a giudizio per istigazione alla falsa testimonianza proprio per i fatti Genova e in particolare per cio’ che era accaduto alla scuola Diaz. De Gennaro e’ stato poi assolto da questa accusa in una sentenza emessa nell’ottobre 2009.
Pio Macchiavello, il procuratore generale della Corte d’appello di Genova, aveva chiesto oltre 110 anni di reclusione per i ventisette imputati. Il magistrato ha usato parole molto dure nella requisitoria: ”Non si possono dimenticare le terribili ferite inferte a persone inermi, la premeditazione, i volti coperti, la falsificazione del verbale di arresto dei novantatre no-global, le bugie sulla loro presunta resistenza. Ne’ si puo’ dimenticare la sistematica e indiscriminata aggressione e l’attribuzione a tutti gli arrestati delle due molotov portate nella Diaz dagli stessi poliziotti”.
In primo grado erano stati condannati solo tredici imputati e ne erano stati assolti sedici, tutti i vertici della catena di comando della polizia che agiva a Genova nel luglio 2001.
In primo grado furono infatti assolti Francesco Gratteri, attualmente capo dell’Antiterrorismo, Giovanni Luperi; Gilberto Caldarozzi e Spartaco Mortola. Un inasprimento di pena – da tre anni a quattro anni – e’ stato previsto nella nuova sentenza per gli agenti che hanno materialmente picchiato i manifestanti che avevano deciso di stazionare nella scuola Diaz.
Per i funzionari che firmarono i verbali che davano la versione ufficiale dei fatti negando il pestaggio indifferenziato la Corte ha stabilito pene per tre anni e otto mesi ciascuno. Prosciolti, per intervenuta prescrizione, Michelangelo Fournier, il funzionario di polizia che aveva dichiarato, dicendosi pentito, che quanto avvenuto alla scuola Diaz assomigliava a ”macelleria messicana” e l’agente Luigi Fazio.
In aula, al momento della lettura delle sentenza, c’erano molti cittadini stranieri (tedeschi e inglesi in particolare) che nella notte del 20 luglio 2001 erano nella scuola Diaz: hanno applaudito a lungo il verdetto. Positivo il commento dell’ex senatrice Heidi Giuliani, mamma di Carlo, il ragazzo ucciso da un carabiniere nella stessa giornata del 20 luglio dei fatti alla scuola Diaz di nove anni fa: ”Avere una risposta di giustizia fa sempre piacere in questo paese”.
Soddisfatta pure Enrica Bartesaghi, presidente del comitato Verita’ e giustizia per Genova: ”E’ incredibile, non ci aspettavamo questa sentenza, si riapre uno spiraglio di fiducia. E’ stata riconosciuta la catena di comando. Tutti quelli che c’erano sono responsabili”. Soddisfazione anche da parte degli avvocati dei manifestanti. Secondo Stefano Bigliazzi, uno di questi: ”E’ stata confermata la nostra tesi che i vertici di polizia sono responsabili dell’operazione di quella notte”.

Da: ASCA

GENOVA: VIOLENZE DELLA POLIZIA

TORTURATA N° 81

Subiva minacce anche a sfondo sessuale da persone che stavano all’esterno “entro stasera vi scoperemo tutte”; subiva percosse al suo passaggio nel corridoio da parte di agenti; colpita con violenza con una manata alla nuca; costretta a firmare i verbali relativi al suo arresto, che la stessa non voleva firmare; mostrandole le foto dei suoi figli, prospettandole che se non avesse firmato non avrebbe potuto rivederli.

TORTURATO N° 11

Percosso con calci e pugni alla schiena e insultato, costretto a stare coricato a terra prono con gambe e braccia divaricate e testa contro il muro; ingiuriato con frasi, ritornelli ed epiteti a sfondo politico (“comunisti di merda” “vi ammazzeremo tutti”); percosso al passaggio nel corridoio e insultato anche con sputi; costretto a stare a carponi da un agente che gli ordinava di abbaiare come un cane, e di dire “Viva la polizia italiana”.

TORTURATA N° 21

Percossa nel corridoio durante l’accompagnamento ai bagni, le torcevano il braccio dietro la schiena nonché colpita con schiaffi e calci; insultata con epiteti rivolti a lei e alle altre donne presenti in cella: “troie, ebree , puttane”, ingiuriata con sputi al suo passaggio in corridoio; minacciata di essere stuprata con il manganello e di percosse; costretta a rimanere, senza plausibile ragione, numerose ore in piedi.

I giorni 27 e 29 gennaio 2005 a Genova, è cominciato il processo con l’udienza preliminare a carico di 47 funzionari ed agenti delle forze dell’ordine e del corpo delle Guardie Carcerarie, medici ed infermieri: 12 carabinieri, 14 agenti di polizia, 16 guardie penitenziarie, 5 tra medici e infermieri accusati delle violenze commesse ai danni degli arrestati e dei fermati, da venerdì 20 alla domenica 22 luglio 2001, nella caserma di Genova Bolzaneto.

Non essendo previsto nel nostro ordinamento uno specifico reato di tortura, la Procura della Repubblica ha chiesto il rinvio a giudizio per i reati di abuso d’ufficio, lesioni, percosse, ingiurie, violenza privata, abuso di autorità contro gli arrestati, minacce, falso, omissione di referto, favoreggiamento personale.

Nessuno dei presunti responsabili delle torture è stato nel frattempo rimosso o almeno sospeso dai propri incarichi.

link:Comitato Verità e Giustizia per Genova.

http://www.veritagiustizia.it

Sfrattati per soli 20,00 euro di "morosità"

Sfrattati per soli 20,00 euro di “morosità”

A quali giudici affidiamo i ns. diritti?

Un’altra sentenza destinata a fare discutere quella che il 3 marzo u.s. i giudici della terza sezione civile della Cassazione, Relatore Dr. Mario Finocchiaro, sono chiamati a pronunciare nella causa promossa dal Sig. Umberto Ippolito, un operaio in cassa integrazione, assistito da “Avvocati senza Frontiere”, contro la Cefalo Vecchio s.a.s., società immobiliare di proprietà di Roberto Mazzotta, Presidente di Banca Popolare di Milano, assistito dall’avv. Emanuele Cirillo, Presidente dell’Ordine Avvocati di Monza.

Siamo ormai abituati a sentirne di tutti i colori dai giudici della Cassazione, ma quanto, forse, resterà senza precedenti giuridici nella storia del diritto è che una famiglia di onesti lavoratori possa vedersi buttare in mezzo alla strada per appena quarantamila lire di differenza sul calcolo degli interessi di mora dell’affitto, con il beneplacito del Supremo organo di legittimità, il quale, pare, ritenga sussistere la gravità dell’inadempimento, tale da giustificare la risoluzione del contratto, ai sensi art. 1455 c.c. (art. 55 L. 392/78).

Così minacciano di andare le cose se il Collegio dovesse accogliere le poco accorte richieste del Relatore, Dr. Finocchiaro e del P.M. di udienza, Dr. Scardaccione, i quali il 3 marzo u.s. hanno richiesto il rigetto del ricorso, sostenendo, senza probabilmente avere letto attentamente gli atti, che la morosità consisteva in Lire 40.000.000, anziché in sole Lire 40.000, e che il ricorso non avrebbe contenuto (sic!) “motivi di diritto ma solo di fatto”.

La storia della famiglia del Sig. Ippolito risale agli anni ’80 e segue la fortuna del banchiere Mazzotta, già assurto alle cronache giudiziarie per fatti di corruzione, ai tempi di Tangentopoli, la cui società ha preteso ininterrottamente dagli inquilini degli immobili di sua proprietà canoni e spese condominiali gonfiati a dismisura, godendo di facili sfratti concessi “senza guardare troppo per il sottile” da taluni giudici del Tribunale di Monza e della Corte di Appello di Milano.

Giudici i quali, come accaduto giorni fa in Cassazione, hanno fatto di tutto e di più per cercare di disconoscere i diritti degli inquilini che hanno sempre contestato la sussistenza della pretesa morosità, chiedendo vanamente una perizia contabile sulle somme effettivamente dovute sia per canoni sia per spese.

Domande, mai, illegittimamente, esaminate nel merito dai giudici di prime cure, i quali, per di più, senza considerare che il Sig. Ippolito aveva pagato integralmente le somme indebitamente pretese, non hanno, neppure, tenuto conto di un macroscopico “errore” nel calcolo degli interessi di mora, valutati in lire 40.167 in più, rispetto al dovuto (è stato applicato il tasso del 10% anziché quello di legge, all’epoca vigente, del 5%).

Senza contare poi che, viceversa, è il Sig. Ippolito a risultare creditore di ben 70.000,00 Euro, per somme versate in eccedenza nell’arco degli ultimi vent’anni, come evidenziato da una Consulenza contabile disposta dal Tribunale di Monza in una parallela causa che accerta che non sono dovuti dagli inquilini i canoni e le spese nella misura indebitamente pretesa dalla società del Mazzotta.

Apparirebbe, quindi, del tutto sconcertante che la Cassazione oggi avallasse l’errore materiale di calcolo e di diritto in cui sono incorsi i giudici del Tribunale di Monza e della Corte di Appello di Milano, che non avrebbero certo potuto legittimamente dichiarare “grave” il preteso inadempimento di appena lire 40.167, anche laddove si volesse considerare effettivamente dovuta, contro realtà, tale differenza derivante da un errore di calcolo.

Errore che, nella specie, ove oggi venisse incautamente ripetuto dal Supremo Collegio, sarebbe veramente diabolico ed un vero e proprio stravolgimento delle norme giuridiche, tenuto conto che l’asserita risibile morosità di L. 40.167 si fonda, altresì, sull’omessa applicazione della legge sull’equo canone (artt. 45 e 79 L. 392/78) e delle procedure in materia di prove e di indebito arricchimento.

Infatti, le 40.167 lire di differenza non dipendono solo dal predetto errore di calcolo, ma, altresì, dall’erronea lettura del contratto di locazione, in base al quale il canone annuo previsto non era di L. 4.000.000, oltre le spese, come fraudolentemente asserito nell’intimazione di sfratto, convalidata dai giudici di prime cure, bensì di L. 2.800.000.

Con la conseguenza che le rate asseritamente scadute non erano di L. 1.265.276 cadauna, bensì di L. 890.000 cadauna e, quindi, che, a maggiore ragione, non sussisteva palesemente alcuna pretesa morosità e motivo di sfratto né, tantomeno, alcun residuo interesse di L 40.167 sul pagamento dei canoni di locazione, che erano sempre stati, per oltre 12 anni, regolarmente corrisposti, pur contestando le indebite maggiorazioni che hanno determinato, come sopradetto, un maggior credito del sig. Ippolito di ben Euro 70.000,00, che i giudici, scandalosamente, hanno ignorato, limitando la loro attenzione alla sola ridicola questione della pretesa morosità di ben 20 euro… (!) avanzata pretestuosamente dalla società del Dr. Mazzotta con evidente malafede e altre finalità.

Senza, poi, tenere conto, dulcis in fundo, dell’ulteriore errore – allarmante se si considera che è stato posto in essere da magistrati – che gli interessi sono stati calcolati nella misura del 10% e non già in quella minore di legge all’epoca vigente pari al 5% e, per di più, che gli aggiornamenti Istat applicati non operano sulle spese ma solo sui canoni e non in misura superiore al 75% della variazione annuale.

Fatti per i quali Avvocati senza Frontiere ed il Sig. Umberto Ippolito, ipotizzando malafede e dolo collusorio, da parte degli organi giudicanti, hanno già depositato un particolareggiato esposto alla Procura di Brescia per falso ideologico, abuso e interesse privato in atti d’ufficio, a carico dei primi giudici di Monza e Milano, auspicando di non doversi ripetere anche presso la Procura di Perugia, a carico dei giudici della Cassazione, cosa per cui hanno già notiziato il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ed il Presidente della 3° sezione civile, Dr. Nicastro, affinché assumano i più opportuni provvedimenti.

DI TOMMASO. UN’INTERA FAMIGLIA DISTRUTTA DAL CONNUBIO TRA MALASANITA’ E MALAGIUSTIZIA. APPELLO PER AIUTARE IL FIGLIO.

DI TOMMASO. UN’INTERA FAMIGLIA DISTRUTTA DAL CONNUBIO TRA MALASANITA’ E MALAGIUSTIZIA. APPELLO PER AIUTARE IL FIGLIO.

Il sig. Pietro Di Tommaso è morto due volte, prima per l’incuria dei medici, e poi per la complicità di tutti coloro che in seno alla magistratura ne coprono le gravi responsabilità per oscuri interessi e/o perversi vincoli corporativi. Connivenze e omissioni che qualche anno dopo hanno provocato la morte precoce anche della moglie, distrutta dal dolore e dall’impossibilità di trovare giustizia. Attraverso il figlio Daniele ne ricostruiamo la triste storia, lanciando un appello alle istituzioni e alle persone di buona volontà affinché gli sia resa al più presto giustizia e offerto un lavoro per potere sopravvivere.

Daniele infatti dopo la morte dei genitori ha subito un forte trauma, perdendo anche il lavoro di informatico e attualmente versa in condizioni assai precarie, anche sotto il profilo psicologico e dei meri mezzi di sussistenza economica. Tale grave situazione depressiva è aggravata dalla generale indifferenza delle istituzioni al suo caso, nei cui confronti non nutre più ormai alcuna fiducia, percependo una vera e propria ostilità da parte della magistratura, che ritiene responsabile di lentezze, inadempienze e collusioni. Ma vediamone la storia.

Nel febbraio 2001 il sig. Pietro Di Tommaso, di anni 62, padre di Daniele, accusava forti dolori al ginocchio per i quali il medico di base gli prescriveva la somministrazione di antibiotici. Poiché il dolore al ginocchio aumentava i familiari decidevano di recarsi al Pronto Soccorso dell’Ospedale S. Camillo, ove il paziente veniva sottoposto ad una risonanza magnetica, in esito alla quale i medici non riscontravano alcun problema e lo rispedivano a casa.

Ciò nonostante, il dolore continuava ad aumentare e così, dopo una visita di controllo, il sig. Pietro Di Tommaso veniva trasferito alla Clinica S. Vincenzo presso il reparto di Urologia. Qui, eseguite alcune analisi cliniche, era dimesso dopo pochi giorni. Le sue condizioni, però, ben lungi dal migliorare, addirittura peggioravano con comparsa di febbre molto alta e di una grave infezione, trascurata dai sanitari. Iniziava, così, la lunga e dolorosa odissea del povero sig. Di Tommaso che, nell’arco di pochi mesi, lo avrebbe condotto alla morte.

Nell’aprile 2001 veniva nuovamente ricoverato presso la Clinica S. Vincenzo, ove subiva, lo stesso giorno del ricovero, un primo intervento chirurgico per l’asportazione di una fistola, al quale seguiva, a distanza di pochi giorni, un secondo intervento e, di lì a poco, finanche un terzo per un grave e massiccio sanguinamento causato all’atto della rimozione del catetere e addirittura un quarto nel maggio, allorquando il paziente veniva dimesso, senza che si fosse risolto il problema dell’infezione (i medici che ebbero in cura il Di Tommaso sono Scorza Carlo, D’Elia Marco, Di Lorenzo Angelo, Gaffi Marco).

Ed è così che nel Giugno il malcapitato paziente subisce un ulteriore ricovero nella medesima clinica, da cui viene ancora frettolosamente congedato, seppure versi in condizioni precarie, senza neppure sottoporlo ad una visita specialistica di urologia (come risultante dalla cartella clinica n. 1112 del giugno 2001). Cosa ancora più inquietante e criminale, senza neppure prescrivergli una cura farmacologica che potesse tenere sotto controllo l’infezione in corso, come certificata dalla cartella clinica.

Nel luglio il povero Di Tomaso viene nuovamente ricoverato, uscendo poco dopo con l’applicazione di un catetere. Il successivo ottobre, ancorché fosse stata programmata la sostituzione del catetere, il medico curante non riesce ad applicare il nuovo. Trasferito al S. Camillo, viene vanamente eseguito analogo tentativo, a seguito del quale il Di Tommaso viene incredibilmente mandato a casa senza provvedere alla necessaria sostituzione del catetere, seppure per lui di importanza vitale. Infatti, pochi giorni dopo torna ad avvertire stati febbrili, iniziando ad urinare sangue dal taglio della ferita chirurgica improvvidamente provocatagli dall’asportazione della fistola.

Nonostante le rassicurazioni dei nuovi medici del S. Camillo, la situazione clinica non migliora. Quindi il Di Tommaso che accusava anche forti dolori alla spalla, persistendo i sintomi dell’infezione e della febbre, viene nuovamente ricoverato presso il reparto di Urologia dell’Ospedale S. Camillo ove, a causa della febbre alta, risultava impossibile l’intervento chirurgico per l’inserimento del catetere. Alcuni giorni dopo, nonostante la persistenza del quadro febbrile, i sanitari decidevano di sottoporre nuovamente il paziente ad un altro intervento chirurgico per “fistola uretro cutanea. Sepsi urinaria”.

A seguito della comparsa nell’immediato postoperatorio di “crisi respiratoria”, il Di Tommaso veniva trasferito al reparto rianimazione Marchiafava, ove subiva l’ennesimo intervento chirurgico, questa volta di tracheotomia. Dieci giorni dopo veniva trasferito alla rianimazione dell’Ospedale Spallanzani, ove le sue condizioni peggioravano progressivamente e, dopo due attacchi cardiaci, il sig. Di Tommaso decedeva il 21.12.2001 per “shock settico; insufficienza respiratoria; scompenso cardiocongestizio; fistola uretrocutanea perineale; insufficienza renale acuta”. Anziché avvisare i familiari del decesso, seppure questi fossero in attesa fuori dalla sala di rianimazione, i sanitari li mandavano a casa, informandoli solo qualche tempo dopo.

Superato lo smarrimento, i familiari incaricavano uno specialista in Medicina Legale, onde effettuare una consulenza volta ad accertare eventuali profili di responsabilità professionale nella condotta dei sanitari che avevano avuto in cura il povero sig. Pietro Di Tommaso. Consulenza dalla quale è emerso che il decesso “debba essere attribuito ad una serie di atti medici imperiti ed imprudenti”. Ed è a questo punto che, anziché trovare equa riparazione, comincia il calvario giudiziario dei famigliari e il secondo omicidio del padre di Daniele, ad opera della giustizia, che anni dopo comporterà anche la morte della madre, stanca di chiedere giustizia e bussare inutilmente alle porte delle tante istituzioni pubbliche e associazioni, tra cui il Tribunale dei diritti del malato.

Nel luglio 2002, l’allora legale della famiglia Di Tommaso depositava atto di denuncia-querela presso la Procura di Roma, ipotizzando il reato di omicidio colposo. Il procedimento veniva assegnato al P.M. dr.ssa Catia Summaria che, nel corso delle indagini preliminari, acquisiva la documentazione sanitaria e incaricava la dr.ssa Daniela Marchetti ed il prof. Stefano Margaritona di redigere una consulenza, ove veniva attestato che “nella condotta dei sanitari che hanno avuto in cura il Di Tommaso si possono individuare alcuni atti non conformi allo standard di diagnosi e trattamento accettati in casi consimili dalla letteratura scientifica”. Sulla base di tali conclusioni peritali, venivano notificati gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari ai quattro medici che avevano avuto in cura il sig. Di Tommaso.

Sennonché, del tutto inspiegabilmente, in seguito, i Periti modificavano il loro giudizio sulla sussistenza di responsabilità penali, giungendo alla conclusione opposta, e cioè che “si ritiene non vi siano fondati elementi per sostenere un ipotesi scientificamente valida di censura nell’operato dei sanitari che ebbero in cura Di Tommaso per il periodo che va dall’Aprile 2001 al decesso del paziente”.

Sulla scorta di tali nuove sconcertanti considerazioni, nel luglio 2004, il P.M. richiedeva disporsi l’archiviazione del caso, a cui veniva proposta immediata opposizione dai famigliari, ritenendo le conclusioni dei consulenti del P.M. fossero totalmente infondate e mendaci. Infatti, attraverso una propria perizia di parte, la famiglia Di Tommaso riusciva a dimostrare come i consulenti del P.M. avessero arbitrariamente ribaltato il loro giudizio, unicamente sulla base di false e indimostrate attestazioni degli indagati, senza che tali asserzioni trovassero alcun riscontro nella documentazione sanitaria in atti; anzi, come alcune di queste affermazioni si ponessero addirittura in contrasto con i dati clinici esistenti. Infatti, nella nuova mendace relazione dei periti del P.M. compare a sorpresa una presunta “complicanza diabetica”, prima mai nominata né esistita che a dire dei sanitari indagati avrebbe provocato il decesso del Sig. Di Tommaso, il quale invero non è mai stato affetto da tale patologia…!

In tale contesto, il legale della famiglia Di Tommaso, Avv. Maccioni Stefano, rinuncia senza alcuna motivazione al mandato, impedendo alla stessa di fare luce sull’operato di medici, periti, giudici e degli stessi avvocati delle parti, che sembra intendano coprirsi vicendevolmente, affossando le indagini e impedendo l’accertamento della verità.

Il 2 giugno 2005 per il dolore si spegne prematuramente anche la Sig.ra LORETI Romilde, che non riesce a darsi pace per la morte del marito, ucciso prima dall’incuria del sistema sanitario eppoi da quello della giustizia di parte. Daniele non si da per vinto e da solo continua a lottare per fare emergere la verità sulla morte del padre, causata dall’imperizia e negligenza dei sanitari. Lo sgomento per la prematura morte dei genitori lo porta a trovare la forza di scontrarsi con un sistema di potere cinico e corrotto di cui fanno parte periti, avvocati e magistrati senza scrupoli che hanno dato l’oggettiva impressione di intendere coprire con ogni mezzo le gravi responsabilità dei sanitari.

Nel dicembre 2005, dopo una seconda arbitraria richiesta di archiviazione, grazie all’esemplare coraggio e opposizione di Daniele, coadiuvato da Avvocati senza Frontiere, che ne ha pubblicato il caso, dopo ben quattro anni dai fatti è stato finalmente richiesto il rinvio a giudizio di tre sanitari del Presidio Ospedaliero Integrato Portuense (ora denominato POLICLINICO DI LIEGRO).

Ma, intanto, Daniele, scosso per la morte dei genitori, è rimasto disoccupato, dopo il licenziamento, non ce la fa più e chiede aiuto. E’ un bravo informatico. Chi potesse aiutarlo in qualsiasi forma potrà segnalarlo all’Associazione Movimento per la Giustizia Robin Hood, anche telefonicamente allo 02/890.72.122.

Purtroppo, il corso della giustizia si preannuncia ancora lungo e tortuoso, nonostante la richiesta di rinvio a giudizio e le conclusioni rassegnate nella nuova Perizia eseguita dal dott. RIZZOTTO, specialista in urologia, andrologia, e nefrologia, Direttore del Dipartimento di Chirurgia della A.s.l. di Viterbo e Primario all’Ospedale Belcolle di Viterbo, il quale tra l’altro afferma che: “il Di Tommaso è stato ricoverato inutilmente fino al 25 agosto 2001” e che… “Elementi di censura professionale per negligenza, imprudenza, imperizia, si possono riscontrare a carico dei sanitari che hanno avuto in cura il Di Tommaso durante i primi tre ricoveri, segnatamente il terzo. Da quel punto in poi il destino del DI TOMMASO era inesorabilmente segnato”.

Nonostante ciò, infatti, l’udienza preliminare del 1.12.05 è stata rinviata, senza discussione, al 19.1.06, perché uno degli imputati (D’Elia) ha prodotto certificazione, proveniente dalla stessa azienda ospedaliera ove esercita la sua professione medica, affermando che non poteva essere presente per “crisi gottosa acuta”. Inizia così la terza fase del calvario giudiziario di Daniele, costellata da una serie di ostruzionismi burocratici, cavilli, omissioni e ritardi, architettati ad arte, mediante uno stillicidio di intoppi ed eccezioni di nullità. All’udienza del 19.1.06 la parte offesa ed il P.M. chiedono il rinvio a giudizio dei medici, ma i legali degli imputati eccepiscono l’inutizzabilità delle indagini eseguite oltre i termini di legge, senza che il P.M. avesse richiesto proroghe, ivi compresa la relazione medico legale del dott. RIZZOTTO…

Ed è così che dopo 5 anni si ricomincia da capo con una nuova perizia per “stabilire le cause del decesso del Sig. Di Tommaso” e la nomina di un diverso perito, che non si capisce bene perché cambia, essendo forse sgradito il Dr. Rizzotto, il quale ebbe già a pronunciarsi sfavorevolmente agli imputati.

Nel frattempo, il P.M. Summaria dispone lo stralcio della posizione del Gaffi, quarto medico indagato, per poi cercare di archiviare più agevolmente il caso, sostenendo che la sua condotta, anche se connotata da presumibili profili di negligenza nell’aver posposto di 5 giorni il ricovero, non apparirebbe rilevante nella causazione della morte del Di Tommaso.

A seguito di ulteriore motivata opposizione, Il Giudice, Dott. CARINI, respinge la richiesta di archiviazione del P.M. e fissa udienza per il giorno 16.2.06, alla quale non si presenta nè il Gaffi nè il suo difensore, in quanto la notifica era stata eseguita oltre i termini di 10 giorni, ragione per cui la trattazione viene rinviata all’udienza del 6.4.06. Nel frattempo viene nominato il nuovo perito e il Giudice esclude la costituzione di parte civile del Movimento per la Giustizia Robin Hood che con l’assenso della parte lesa, quale Onlus riconosciuta che tutela diritti diffusi dei cittadini, chiedeva un risarcimento anche simbolico, tenuto conto del danno che tali comportamenti provocano alla collettività e alla immagine stessa delle istituzioni sanitarie.

Chi volesse aiutare Daniele potrà contattarlo direttamente allo 06-5400648 o al 328-4228786. Man mano, cercheremo di aggiornare il caso, raccontandone gli sviluppi processuali e denunciandone i tentativi di insabbiamento, per cui allo stato il procedimento si trova ancora in fase di indagine con una nuova consulenza medico-legale, affidata a nuovi periti, per stabilire, ad oltre cinque anni dai fatti, le responsabilità per la morte del sig. Di Tommaso…

 

TRIBUNALE DI TOLMEZZO MORTE SOSPETTA DI UN ALPINO

 

TRIBUNALE DI TOLMEZZO MORTE SOSPETTA DI UN ALPINO

ANGELO GARRO e ANNA CREMONA

Via Castel Morrone 5 – 20129 Milano

Telefax: 02.7389527 Cell. 338.9351886

E-mail: angelogarro@libero.it

http://www.alpinorobertogarro.it

Milano, 12 gennaio 2004

…… ………………………………………………………

Ad: Avvocati Senza Frontiere

<avvocatisenzafrontiere@hotmail.com> < movimentogiustizia@yahoo.it>

Io e mia moglie Anna, milanesi, siamo i genitori di un giovane militare di 19 anni, nostro unico figlio, deceduto con tre altri commilitoni, in circostanze misteriose e mai volute chiarire, durante il servizio di leva negli alpini, in Friuli, il 9 giugno 1998. Morte attribuita (riteniamo falsamente) ad un “incidente stradale”, ma, invero, avvenuta a seguito di un inspiegato scoppio e conseguente disintegrazione dell’auto (la circostanza è confermata a verbale) su cui nostro figlio viaggiava.

Anziché indagare sulle cause all’origine del preteso incidente stradale e dell’anomala esplosione che aveva provocato una strage di persone innocenti, la Procura di Tolmezzo si è da subito affrettata a richiedere del tutto ingiustificatamente l’archiviazione del caso, consentendo al conduttore bosniaco dell’autoarticolato investitore di sparire nel nulla. Come se vi fosse un interesse a coprire qualcosa o le responsabilità di qualcuno, dopo soli nove giorni il camion fu illegittimamente dissequestrato e rispedito in Austria, senza alcuna perizia (nonostante si trattasse di corpo di reato che avrebbe dovuto rimanere nella disponibilità degli organi inquirenti).

Singolarmente nessuno ha mai ritenuto interrogare n° 5 commilitoni testimoni oculari né tantomeno parlare della morte di un’anziana donna e svolgere la benché minima indagine sui fatti, mentre il P.M. dr. Enrico Cavalieri avoca a sé ogni nostra denuncia.

Nel frattempo viene smantellato e trasferito tutto lo Stato Maggiore della Caserma.

Ma andiamo con ordine.

La sera del 9 giugno 1998, ormai superato l’8° mese di naja, (naja che svolgeva con molto entusiasmo, tanto da firmare due giorni prima la “rafferma” quale V.F.B. volontario a per un altro anno), dopo averlo sentito al telefonino alle ore 22,30 come solevamo fare tutte le sere, cioè solo cinque minuti prima del Suo decesso; veniamo svegliati in piena notte da una telefonata in cui il Suo comandante col. Paolo Plazzotta ci annunciava la Sua morte e ci invitava per il mattino successivo a presentarci in caserma a Venzone in Friuli per il dovuto riconoscimento.

Riconoscimento che il mattino dopo in caserma ci fu impedito con una serie di giustificazioni che in seguito si rivelarono solo menzogne, impedendoci così anche di dare un ultimo addio al nostro unico figlio; ma il Comando di quella caserma andò oltre, quando alla nostra domanda: quando si svolgeranno i funerali? Ci fu risposto che, essendo le salme sotto magistratura i tempi sarebbero stati lunghi, tanto da convincerci a tornarcene a casa, e così fu per tutti i genitori presenti in quella circostanza, e in attesa di essere richiamati.

Invece il mattino successivo, e in assenza di tutti i genitori dei militari caduti, nel cortile della caserma, (e neanche in chiesa), si svolse la “cerimonia di commiato” come vollero chiamarla, dei quattro militari, dal Reggimento, dai commilitoni, dalla caserma.

Grandi assenti i genitori mai avvisati.

Ma non finì qui la serie di soprusi ingiustificabili avvenuti: Un filmato in nostro possesso ottenuto fortunosamente, documenta la cerimonia, le parole dette, e la partenza di quattro Carri Funebri con le quattro bare separatamente e singolarmente, per i luoghi d’origine dei militi fra cui nostro figlio; Milano, Modena, Parma e Taranto.

Purtroppo, a Milano, dove noi genitori, avvisati appena in tempo stavamo aspettando e nonostante le “scorte armate”, arrivò un volgare e anonimo furgoncino da mercato (truffa ai danni dello Stato) contenente due bare anonime avvolte nella bandiera Tricolore. Quindi consegnata la “nostra” bara, il furgoncino proseguì per Modena per un’altra “consegna”.

Ci sono voluti tre anni di proteste, di manifestazioni per le vie di Milano, una raccolta di 17mila firme, Interrogazioni Parlamentari presentate da tutti i partiti presenti in Parlamento, l’interessamento del Presidente del Senato Mancino e del Presidente della Camera Violante che incontrammo entrambi nei Loro uffici a Roma, due Mozioni del Consiglio Comunale di Milano votale all’unanimità, una Mozione del Consiglio Provinciale di Como, per ottenere finalmente la riesumazione della salma di nostro figlio onde poterne accertare finalmente la vera identità e sapere se fosse veramente tornato definitivamente a casa, o continuare a considerarlo un desaparecido avendo sempre sospettato e temuto uno scambio di salme fra i quattro militari che nessuno aveva mai visto dopo la morte. Ma dovemmo inoltre subire una serie di intimidazioni anche gravi da parte di alcuni alti ufficiali delle FF.AA. nel tentativo di dissuaderci dal continuare nella nostra battaglia per conoscere la verità. Nonostante tutto ciò, vincemmo! Ma a quale prezzo! E con quale risultato!

Il prosieguo della nostra vicenda è ancor più drammatico in quanto a riesumazione avvenuta e avendo fortunatamente ritrovato nostro figlio (per le altre tre famiglie i dubbi restano), abbiamo dovuto constatare e scoprire anche il “vilipendio a cadavere art. 410 c.p.” avendolo il Suo Comando gettato nella bara completamente nudo, sporco e scomposto (tutto è documentato con fotografie e Relazione Medico Legale rilasciata dall’Istituto di Medicina Legale di Milano e dalla magistratura milanese intervenuta per Rogatoria).

Una serie di denunce presentate alla Procura di Tolmezzo competente per territorio ottengono sempre l’immediata archiviazione senza indagini. Sono ormai quattro le denunce presentate e fra Avvisi di archiviazioni (spesso vergognose e assurde che siamo pronti ad esibire), Opposizioni all’archiviazione e quindi definitive Archiviazioni, nonché nuove denunce; tanto da rivolgerci alla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo (che ci rispose positivamente), infine, abbiamo finito con il denunciare anche questo magistrato al C.S.M. al Ministro della Giustizia (incontrandolo di persona), ecc. ecc. per la sua ostinata ed arrogante presunzione dimostrata rifiutandosi in cinque anni di incontrarci ed ascoltarci, rifiutando anche di incontrare il nostro ultimo legale. (Per le avversità incontrate siamo stati costretti a cambiare ben quattro Studi Legali…).

Ormai da troppo tempo ci chiediamo come sia stato possibile in un Paese così “civile” e così cattolico che avvenimenti così vergognosi possano accadere! E perché!?

Inoltre perché nessuno risponde mai ai nostri tanti appelli? (n° 19 al solo Capo dello Stato).

Noi delle risposte ce le siamo date, ma essendo solo supposizioni, non supportate da prove certe, vengono considerate solo inutili illazioni di due genitori sconvolti a cui è stato scippato l’unico figlio. Ma tanto è successo a noi!

E’ amaro constatare che, in tutta questa storia, dalla morte sospetta dei quattro militi, ai funerali non di stato e blindati all’interno della caserma Feruglio, al trasporto fraudolento e oltraggioso tacitamente approvato, dalla violata Consegna Militare inspiegabile ma non troppo, per arrivare al vilipendio di cadavere, questi Ragazzi al servizio dello Stato siano stati trattati al pari di carne senza valore, calpestandone ogni parvenza di rispetto per la dignità umana. Eppure il nostro Capo dello Stato, di questo Rispetto si riempie quotidianamente la bocca, dimostrando così di predicar bene, ma razzolar male; tanto come già detto, non si tratta dei suoi figli,ma figli dei suoi sudditi.

Rendendoci conto che quanto narrato sia già lungo, mi fermo qui per non annoiare, anche se la storia è più lunga e più complessa, fatta anche di estorsioni di denaro da parte di avvocati disonesti e di una infinità di domande senza risposte, come per esempio:

– Perché ci fu impedito di fare il dovuto riconoscimento a nostro figlio previsto per legge ed essendo presenti e darGli un ultimo addio?

– Perché mentirono dicendoci che tutti i militi erano completamente a pezzi?

– Perché non furono ricomposti cristianamente e dignitosamente?

– Perché non ci fu permesso di partecipare alle esequie militari in caserma?

– Perché non furono eseguite autopsie, perizie, e quanto altro?

– Perché fu fatto sparire il testimone chiave bosniaco?

– Perché le indagini si chiusero in soli cinque giorni?

– Perché non si indagò sullo scoppio dell’auto a benzina?

– Perché non si indagò nemmeno sull’Unabomber?

– Perché non si indagò in una possibile faida interna alla caserma (nonnismo)?

– Perché fummo “invitati” a dimenticare?

– Perché ogni nostra denuncia finisce sempre nelle mani dello stesso magistrato che ha dimostrato di esserci avverso archiviandoci sempre tutto?

– Perché si rifiuta da sempre di incontrarci? (lo stesso succede ai genitori di Ilaria Alpi)

– Perché abbiamo dovuto lottare per tre anni per sapere dove era veramente sepolto nostro figlio?

– Perché e cosa si vuole nascondere dietro queste morti?

– Ma soprattutto: chi mise la bomba sull’auto del Bergonzini?

In tal modo vengono ingannate e snobbate migliaia di famiglie colpite da questa catastrofe che è la morte di un proprio congiunto al servizio dello Stato, tanto che di altre storie simili di famiglie sparse per l’Italia abbiamo notizie certe, ma nessuno ne parla; Perché?

Riteniamo di poter affermare che lo Stato Italiano, gioca con carte truccate e bara verso i suoi cittadini che tanto ignari non sono, eppure Esso riesce ancora a gabbarli.

Ci rivolgiamo alla Vs. attenzione per denunciare ed informare la pubblica opinione dell’ingratitudine che il nostro Paese riserva ai suoi caduti; considerando che tale trattamento viene riservato anche ai caduti delle Forze dell’Ordine.

Conclusione: nessuna giustizia per chi muore al servizio dello Stato!

Distinti saluti

Angelo Garro e Anna Cremona

 

TRIBUNALE DI PORDENONE CASO CARNIER

 

TRIBUNALE DI PORDENONE
(Caso CARNIER)
USURA BANCARIA LEGALIZZATA DA GIUDICI E PREFETTURA

 

Un caso emblematico di profonda malagiustizia, quello del prof. Pietro Arrigo Carnier, noto e stimato storico che, anch’egli con la sua famiglia rischia nei prossimi giorni di febbraio 2004 di venire spogliato della propria unica abitazione e vedersi gettare in mezzo ad una strada alla veneranda età di 76 anni, a seguito di usura bancaria e di una procedura esecutiva illegittima.

Per chi non avesse avuto modo di leggere i molteplici articoli sul caso, apparsi sulla stampa locale, il Prof. Carnier si è trovato costretto a denunciare alla Procura di Bologna, vari giudici di Pordenone, tra cui i dott.ri Manzon, Zaccardi, Lazzaro ed altri, per l’ipotizzato favoreggiamento di alcuni Istituti di credito e concorso in usura, in relazione alla vendita all’asta della sua abitazione, che ritiene illegittima, in quanto effettuata nonostante la pendenza di una causa di opposizione alla vendita, ove vengono contestati i tassi anatocistici praticati dalle banche (con punte in taluni casi di oltre il 110%).

L’art. 569 c. 4^ c.p.c. prevede, infatti, che il Giudice non possa disporre l’asta, sino all’esito della sentenza che decide sull’opposizione alla vendita (all’epoca non ancora intervenuta, mentre l’asta era invece già stata abusivamente eseguita in data 26.2.03). Da qui la denuncia per abuso di ufficio e falso ideologico, finalizzati all’estorsione dell’immobile, alienato a soli 180.000 Euro, contro una stima di quasi Lire 1 miliardo.

La storia di ordinaria malagiustizia riguarda alcune banche Venete che, a seguito di un’erronea dichiarazione di protesto per appena 5.000.000 delle vecchie lire (che ha provocato la revoca di ogni affidamento bancario e lo strangolamento finanziario), hanno imposto di mettere all’asta l’abitazione degli anziani coniugi Carnier del valore di quasi un miliardo di lire!
A nulla è valso chiedere ripetutamente la sospensione della vendita e una Perizia Contabile, volta a stabilire la reale situazione debitoria, onde potere accedere alla conversione del pignoramento, facendo rilevare ai Giudici Manzon e Zaccardi, nonché al Presidente del Tribunale, dr. Lazzaro, con una serie di reclami, che risulta del tutto assurdo pretendere che il debitore estorto paghi crediti gravati da tassi usurari con punte del 110%, come attestato dallo Studio Murer, uno dei maggiori studi di revisori dei conti del Veneto, a cui la famiglia Carnier si è rivolta, che ha certificato che la somma pretesa va ridotta di ben Lire 365.247.460!

I Giudici incaricati (prima il Manzon, eppoi Zaccardi, dopo la ricusazione del primo), omettendo di ricalcolare gli interessi, hanno così avvallato le pretese usurarie delle banche e quest’ultimo non si è, neppure, voluto astenere, seppure a sua volta ricusato e denunciato alla Procura di Bologna (territorialmente competente per i reati commessi da Giudici del Veneto) per favoreggiamento, falso ideologico, concorso in usura, omissione e abuso continuato in atti di ufficio.

Scandalosamente, la locale Prefettura ha altresì negato alla famiglia Carnier i benefici previsti dalle recenti Leggi antiusura (proroga di 300 gg. dello sfratto e fondo di solidarietà), adducendo a pretesto contrariamente alle evidenze documentali e all’attestazione della Procura di Bologna che il Presidente del Tribunale di Pordenone, dr. Lazzaro, anch’egli indagato, avrebbe dato parere negativo, dichiarando (n.d.r.: falsamente) che il procedimento penale sarebbe stato (sic!) “archiviato”.

REPLICA AL PRESIDENTE LAZZARO DELLL’A.N.M. PORDENONESE E INVITO ALL’ASSOCIAZIONE MAGISTRATI AD UN PUBBLICO DIBATTITO SUL CASO CARNIER E ALTRI CONSIMILI

Sulla vicenda è intervenuto lo stesso Presidente del Tribunale di Pordenone, dr. Antonio Lazzaro e il Segretario della locale sottosezione dell’A.N.M. Rodolfo Piccin, che con una nota alla stampa, in relazione alle contestazioni mosse dai legali di “Avvocati senza Frontiere”, hanno sostenuto che il Tribunale “non sarebbe tenuto a conoscere come sia sorto il debito e perché non sia stato onorato”, concludendo che “il comportamento del giudice ricusato, dr. Enrico Manzon, sarebbe sempre stato equilibrato e che le denunce di Carnier sarebbero state archiviate dalla competente autorità giudiziaria di Bologna per la loro inconsistenza”.
A queste affermazioni risponde Avvocati Senza Frontiere, ricordando che le cose non stanno così e il Presidente del Tribunale di Pordenone ben avrebbe fatto a documentarsi meglio.
Il procedimento penale a carico del dr. Manzon e di altri giudici di Pordenone è infatti, tuttora subjudice, avanti alla Suprema Corte di Cassazione e non può, quindi, considerarsi tecnicamente “archiviato”.
Il dr. Lazzaro ben dovrebbe sapere che un conto è la richiesta di archiviazione e un altro è il provvedimento definitivo che ne statuisce il passaggio in giudicato.
Con l’ovvia conseguenza che i giudici Manzon, Zaccardi, Fontana, Moscato, Zoso, Botteri e Cobucci Riccio non avrebbero potuto continuare a giudicare (proteggendosi a vicenda) i vari ricorsi, reclami e ricusazioni proposte nei loro confronti, per manifesta incompatibilità e conflitto di interessi.
Va, infine, decisamente, confutato l’assunto della locale A.N.M., secondo cui il prof. Carnier “avrebbe impedito al giudice di prendere in considerazione la domanda di differimento dell’asta, non avendo provveduto al deposito del quinto ritenuto necessario”.
Il Giudice, infatti, come già detto, in pendenza di opposizione aveva l’ineludibile obbligo di sospendere la vendita, sino all’esito della causa, e disporre una Perizia contabile per stabilire le somme, effettivamente spettanti, sgravate dai tassi usurari, come previsto per legge e dalle note sentenze della Cassazione e Corte Costituzionale che vietano le clausole contrattuali nei contratti di conto corrente che prevedono la capitalizzazione trimestrale degli interessi, introducendo il principio del tasso bancario usurario.
In stridente contrasto con tali norme e principi di diritto il Tribunale di Pordenone ha invece pretestuosamente negato la Perizia contabile, demandando l’accertamento alla fase della distribuzione del ricavato, cioè a vendita eseguita, rendendo, pertanto, materialmente, impossibile alla famiglia dell’anziano professore di accedere alla procedura della conversione del pignoramento e conoscere l’esatta misura del quinto da versare.
Questi non possono certo ritenersi comportamenti equilibrati, come sostenuto dal Presidente del Tribunale di Pordenone che invitiamo con la locale A.N.M., se esiste in loro un minimo di onestà intellettuale, a un pubblico dibattito a TeleSerenissima sul tema e su altri casi eclatanti che ci sono stati segnalati, da parte di tanti legali e persone inermi che ritengono la giustizia più sensibile agli interessi delle banche che a quelli sacrosanti dei cittadini vittime dell’usura.

COME LA CASSAZIONE RIESCE AD ELUDERE LA LEGGE PINTO

 COME LA CASSAZIONE RIESCE AD ELUDERE LA LEGGE PINTO

Il Sig. B. L. della provincia di Udine, di professione agente di commercio, nel lontano 1982 si opponeva all’ingiunzione di pagamento dell’imposta locale sui redditi (ILOR) per l’anno 1979, unitamente alla moglie Sig.ra G. F., ricorrendo alla locale Commissione Tributaria di primo grado, poi a quella di grado successivo in appello.
In entrambe le occasioni la Commissione Tributaria di Udine respingeva i ricorsi.

A questo punto il Sig. B. L., nell’anno 1984, ricorreva alla Commissione Tributaria Centrale con sede in Roma, che nel gennaio del 2005, dopo quasi 23 anni di contenzioso, accoglieva il ricorso, stabilendo che il pagamento di tale imposta non ero dovuto da parte del ricorrente.
Il Sig. B. L., patrocinato dall’Associazione Avvocati Senza Frontiere di Milano, a questo punto, in considerazione dell’irragionevole durata del contenzioso, proponeva ricorso secondo quanto previsto dalla legge Pinto (n.89/2001) presso la Corte d’Appello di Bologna, competente per territorio.

Purtroppo le possibilità di accoglimento della richiesta di risarcimento sono limitate.
Forse che i Giudici del distretto emiliano ritengono che un contenzioso possa durare la bellezza di 23 anni senza che vi sia violazione della normativa comunitaria?
Nient’affatto.. Il punto è un altro: come si suol dire fatta la legge, trovato l’inganno…

Con due recenti sentenze la prima n. 17139/04, la seconda 18739/04, la prima sezione della Corte di Cassazione ha affermato che la disciplina sull’equa riparazione, ex lege 89/2001, per violazione del termine ragionevole di durata del processo, non è applicabile alla materia tributaria, a meno che la contestazione esorbiti dalle vertenze aventi ad oggetto la pretesa fiscale dello Stato e sia, invece, riconducibili a controversie relative a diritti e doveri di carattere civile o assimilabile alla materia penale.

Tale giurisprudenza è assolutamente sconcertante in quanto stravolge il dettato normativo dell’articolo 3, comma 3, della legge 89/2001 che testualmente stabilisce : ” il ricorso è proposto nei confronti […] del ministro delle Finanze quando si tratti di procedimenti del Giudice tributario..
Con tale decisione la Legge Pinto viene privata di ogni sostanziale autonomia nell’ordinamento interno, ne riduce la funzione di assicurare piena tutela ai diritti riconosciuti in materia giurisdizionale, segnatamente al diritto di avere un giudizio in tempi ragionevolmente accettabili, in attuazione del dettato di cui all’art. 111 della Costituzione, laddove prescrive la ragionevole durata di “ogni” processo, ivi compreso quello tributario.
A tali conclusioni perviene la totalità degli operatori del diritto, come si può leggere nel commento della sentenza da parte della Dr.ssa Laura Triassi riportato nel numero 36 di sabato 9 ottobre 2004 di Diritto e Giustizia.

Il punto è un altro e non è giuridico…

Presso la Commissione Tributaria Centrale di Roma, rimasta in vigore solo per i contenziosi ante riforma 1992, i tempi decisori erano a dir poco biblici: in media 20 anni…Poiché le Casse dello Stato languono e non si riesce a far fronte alla spesa corrente (salvo levare l’ICI agli immobili ecclesiastici anche di natura commerciale…) la Suprema Corte ha pensato bene di stravolgere la normativa per impedire i risarcimenti ai cittadini vittime della lunghezza processuale!

Un bizantinismo certamente poco onorevole e che ha un’unica conseguenza: ancora una volta paga il cittadino…