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Guida alla separazione

 

“LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI

…NEPPURE PER CHI SI VUOLE SEPARARE!

Nonostante il nostro ordinamento preveda, espressamente, il diritto dei cittadini di presentare personalmente le domande di separazione e divorzio consensuale (secondo lo stesso indirizzo interpretativo delle vigenti norme in materia, da parte del Ministero di Grazia e Giustizia, e in osservanza all’art. 6 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, che prevede il diritto di autodifesa legale), nei Tribunali italiani vige la più assoluta anarchia, per cui non vi è uniformità applicativa in merito alla possibilità di presentare il ricorso per separazione e divorzio congiunto senza il patrocinio di un avvocato, come ci si dovrebbe aspettare in uno Stato di Diritto.

Con la conseguenza che i Tribunali di una stessa regione, quali ad esempio Milano, Torino, Genova, Roma e Agrigento si muovono in maniera del tutto opposta a quelli di Sondrio, Asti, Savona, Civitavecchia, Palermo, Firenze, Trento e tutti gli altri sottoelencati, dando prova che in questo Paese non esiste alcuna sovranità della Legge e del Diritto. I cittadini vengono così costretti a rivolgersi agli avvocati-stregoni del divorzio, vedendosi ingiustamente gravare di pesanti quanto inutili spese legali.

Ciò, nell’evidente proposito di favorire le lobbies di pressione affaristico-giudiziaria, che fanno capo ai locali Consigli dell’Ordine Avvocati e agli Uffici di Presidenza dei rispettivi Tribunali e Corti di Appello.

LA SEPARAZIONE GIUDIZIALE

Viene pronunciata dal Tribunale su richiesta di uno dei coniugi. Può essere richiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare pregiudizio all’educazione della prole.

In caso di separazione consensuale, ex art. 711 c.p.c., non è necessaria l’assistenza tecnica di un legale, seppure in genere giudici, cancellieri e avvocati tendano a scoraggiare l’autodifesa personale delle parti.
IL PROCEDIMENTO DI SEPARAZIONE GIUDIZIALE

La competenza in materia è affidata al Tribunale del luogo in cui risiede il convenuto. La fase iniziale si svolge davanti al Presidente del Tribunale, al quale spetta la fissazione della data in cui dovranno comparire entrambi i coniugi: in questa sede egli tenterà di conciliarli, sentendoli prima separatamente e poi insieme; se la conciliazione riesce o se il coniuge che ha proposto ricorso rinunzia al giudizio, il presidente ordina la redazione del verbale di conciliazione o di rinuncia all’azione. Nel caso di fallimento del tentativo di conciliazione o di mancata comparizione del coniuge convenuto, il presidente provvede anche d’ufficio con ordinanza inoppugnabile a regolare gli atti provvisori e urgenti che reputa opportuni nell’interesse dei coniugi e dei figli. Si tratta di provvedimenti temporanei emessi in attesa della sentenza, che riguardano soprattutto l’autorizzazione a vivere separatamente, l’obbligo dell’assegno di mantenimento, l’affidamento dei figli, l’assegnazione dell’uso dell’abitazione familiare anche qualora questa appartenga all’altro coniuge. Il presidente nomina poi il giudice istruttore dinnanzi al quale proseguirà la causa secondo il rito ordinario fino all’emissione della sentenza: questi può decidere di revocare o modificare il contenuto dell’ordinanza del tribunale. A seguito della separazione i coniugi decadono dal dovere di coabitazione; per quanto riguarda il dovere di fedeltà, la giurisprudenza ritiene che sia da considerare estinto, ma viene fatto divieto di comportamenti lesivi della dignità dell’altro coniuge. La legge disciplina le conseguenze della separazione solo in relazione alla prole, all’aspetto patrimoniale e al cognome della moglie.
I PROVVEDIMENTI VERSO I FIGLI

Qualora vi siano figli minorenni, il giudice deve emettere tutti i provvedimenti necessari nei loro confronti con esclusivo riferimento al loro interesse morale e materiale. Innanzitutto, dichiarare a quale dei coniugi essi saranno affidati. Potrà, in presenza di gravi motivi, ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o, nell’impossibilità, in un istituto di educazione. Inoltre, stabilirà la misura e il modo con cui l’altro coniuge deve contribuire al mantenimento, all’istruzione e all’educazione dei figli, nonché le modalità di esercizio dei suoi diritti nei rapporti con essi: ciò significa che dovrà quantificare l’assegno di mantenimento a favore del coniuge affidatario e le modalità del diritto di visita riguardanti il non affidatario. In ogni caso deve tener conto di quanto pattuito tra le parti senza però che ciò vincoli in alcun modo la decisione del tribunale. Il coniuge cui sono affidati i figli, salva diversa disposizione del giudice, ha l’esercizio esclusivo della potestà su di essi e , salvo che sia diversamente stabilito, le decisioni giornaliere e ordinarie sono di competenza del genitore affidatario; per le scelte determinanti nella vita del figlio occorre il consenso di entrambi i coniugi. Qualora il coniuge affidatario decida su una questione di maggiore interesse senza rispettare quanto pattuito da entrambi è ammissibile il ricorso al giudice. Il coniuge cui i figli non sono affidata conserva sempre il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e conseguentemente può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse.

L’ABITAZIONE NELLA CASA FAMILIARE

Per quanto concerne l’abitazione nella casa familiare, esso spetta di preferenza, e ove ciò sia possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli, anche se la casa non è di sua proprietà. Questa disposizione, volta a consentire al figlio di vivere nel luogo in cui è cresciuto, si ritiene estendibile anche al coniuge affidatario di figli maggiorenni, e riguarda solo la prima casa. Il giudice dà inoltre disposizioni circa l’amministrazione dei beni dei figli e, nell’ipotesi che l’esercizio della potestà sia affidata a entrambi i genitori, il concorso degli stessi al godimento dell’usufrutto legale. Infine i coniugi hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della potestà su di esse e le disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo.

GLI EFFETTI SUI RAPPORTI PATRIMONIALI TRA I CONIUGI

L’obbligo di contribuzione al mantenimento dell’altro coniuge sussiste solo se la separazione non sia in alcun modo addebitabile al richiedente e a condizione che quest’ultimo non possegga adeguati redditi propri. In caso di pronunzia di addebitabilità è applicabile l’assegno alimentare e non quello di mantenimento. Il giudice può imporre al coniuge di prestare idonea garanzia reale o personale, se esiste il pericolo che egli possa sottrarsi all’adempimento dell’obbligo, e , in caso di inadempienza, su richiesta dell’avente diritto può disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e ordinare a terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto. Tutti i provvedimenti emessi in relazione ai rapporti patrimoniali tra i coniugi e ai figli possono essere revocati o modificati, anche quando la sentenza sia passata in giudicato, qualora sopravvengono giustificati motivi.

SUCCESSIONE A SEGUITO DI SEPARAZIONE

Qualora muoia uno dei coniugi separati, l’altro è ammesso a succedergli in qualità di erede legittimo o necessario, ma a condizione che non gli sia stata addebitata la separazione. Se si è invece in presenza di una pronunzia di addebito già passata in giudicato, il coniuge sopravvissuto decade dal diritto dell’eredità, tuttavia gli è dovuto un assegno vitalizio, se percepiva gli alimenti. Allo stesso modo, la separazione non estingue il diritto all’assistenza medica mutualistica, alla pensione di reversibilità e ai contributi dovuti in base al trattamento di fine rapporto, ma sempre a condizione che non sussista alcuna pronunzia di addebito a carico del coniuge richiedente.

USO DEL COGNOME DEL MARITO

Il giudice può vietarlo alla moglie quando tale uso sia gravemente pregiudiziale al marito e può parimenti autorizzarla a non usarlo, qualora possa derivarle grave pregiudizio.

LA RICONCILIAZIONE

I coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con un’espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione. Ciò si verifica, ad es., quando due coniugi separati riprendono a convivere e ristabiliscono la comunione spirituale e materiale tra loro; rapporti sessuali occasionali non comportano invece la riconciliazione. A seguito della riconciliazione cessano gli effetti della sentenza di separazione. Essa inoltre preclude che la separazione possa essere nuovamente pronunziata per fatti e comportamenti avvenuti prima della riconciliazione: una nuova separazione può essere dichiarata solo a seguito di fatti avvenuti dopo di essa. Quando la riconciliazione avviene prima della sentenza produce l’abbandono della domanda di separazione personale già proposta.

LA SEPARAZIONE CONSENSUALE

Si svolge con un procedimento più rapido e permette ai coniugi di non sottoporre le proprie questioni private dinnanzi al giudice e di procedere con maggior economia: per tale ragione risulta essere più diffusa rispetto alla separazione giudiziale. Requisiti essenziali sono il consenso tra le parti e l’omologazione del giudice. L’accordo deve vertere su tutti i punti richiesti perché possa attuarsi lo stato di separazione: dunque i coniugi devono determinare a chi saranno affidati i figli, le modalità di contribuzione al mantenimento degli stessi e del coniuge legittimato, la disponibilità della casa familiare. Inoltre, qualsiasi clausola stabilita tra i coniugi che sia in contrasto con norme imperative è nulla: ad es., il coniuge cui spetti l’assegno alimentare non può rinunciarvi; allo stesso modo, non può esimersi dal mantenimento dei figli, a meno che non versi in stato di bisogno. Raggiunto l’accordo è necessario ricorrere al giudice affinché pronunci l’omologazione; il ricorso deve essere presentato da entrambi i coniugi o da uno solo; il presidente del tribunale deve ascoltarli e cercare di conciliarli: qualora la riconciliazione non riesca si dà atto nel processo verbale del consenso alla separazione e delle condizioni riguardanti i coniugi e i figli.

 

TRIBUNALI CHE AMMETTONO IL DIVORZIO CONGIUNTO

SENZA L’ASSISTENZA DI UN AVVOCATO

ABRUZZO LANCIANO, PESCARA, TERAMO
CALABRIA REGGIO CALABRIA
CAMPANIA BENEVENTO, S. ANGELO DEI LOMBARDI
FRIULI VENEZIA GIULIA TOLMEZZO, UDINE, GORIZIA
LAZIO CASSINO, CIVITAVECCHIA, FROSINONE, RIETI
LIGURIA IMPERIA, LA SPEZIA, SANREMO, SAVONA
LOMBARDIA CREMA, CREMONA, LODI, SONDRIO
MARCHE ANCONA, CAMERINO, FERMO, URBINO
MOLISE ISERNIA, LARINO
PIEMONTE ACQUI TERME, ALBA, ALESSANDRIA, ASTI, CASALE MONFERRATO, TORTONA, VERCELLI
PUGLIA BARI, FOGGIA, LECCE, TARANTO
SARDEGNA CAGLIARI, LANUSEI, ORISTANO, SASSARI
SICILIA AGRIGENTO, BARCELLONA POZZO DI GOTTO, ENNA, MARSALA, MODICA, PALERMO, RAGUSA, SCIACCA, SIRACUSA, TERMINI MESERE
TOSCANA FIRENZE, GROSSETO, MASSA, SIENA
TRENTINO TRENTO, ROVERETO
UMBRIA SPOLETO
VENETO ROVIGO

Se il tribunale della tua città non è in questa lista puoi scriverci una mail a movimentogiustizia@yahoo.it, indicando, senza impegno, i comuni di residenza dei due coniugi già separati. Ove possibile, cercheremo di assisterti con un nostro avvocato fiduciario presente nella tua città, in base a tariffe convenzionate e assolutamente contenute.
Stiamo anche valutando l’opportunità di denunciare gli uffici giudiziari che non consentono ai cittadini di accedere al diritto di autodifesa, chiedendo accertarsi l’ordine di interessi che genera una simile disparità di comportamenti tra le diverse sedi giudiziarie.

ORISTANO. MOBBING NELL'ARMA DEI CARABINIERI

L’ODISSEA del maresciallo dei carabinieri Antonio Cautillo. 

Una vicenda che si trascina da 3 legislature in cui sono state presentate ben 6 interrogazioni parlamentari “a risposta scritta” al Ministro della Difesa con richiesta di far luce sulla vicenda mediante “l’avvio di una indagine interna al fine di accertare motivazioni e responsabilità”. Nell’inerzia delle istituzioni sono state sporte una serie di querele allo stato senza esiti.

di Christian Fiore

Con questo post vorrei spostare l’attenzione verso l’Arma dei Carabinieri. Il “protagonista” di questa triste ed imbarazzante storia è il Maresciallo dei Carabinieri Antonio Cautillo. Questa volta si parla di mobbing tra colleghi (se così si possono chiamare) delle Forze dell’Ordine.
Il Maresciallo, in servizio a San Giusto (Oristano), racconta che i problemi iniziarono già nel 1990; Una serie di piccole umiliazioni, le divergenze di opinione o conflitti personali occasionali o questioni riguardanti il servizio lo portarono ad essere emarginato sino ad arrivare al boicottaggio o ad azioni illecite.

Per dirla chiara – afferma il Maresciallo – gli impedivano di svolgere il suo lavoro, almeno secondo quanto lui sostiene. E glielo impedivano, i superiori, con tutte quelle piccole vessazioni che vanno a nozze con un sistema particolarmente formale e burocratizzato come quello della forze dell’ordine, dove se sbagli mezza virgola in un verbale, sei rovinato.”

Emarginato dall’arma senza una spiegazione.
Il Maresciallo, molto provato dalla situazione e dalla risposta (pari a zero) di quello Stato che ha sempre servito con molta dedizione, stigmatizza così : “Che strano Paese: un generale dei cc viene condannato a 14 anni per reati da criminalità organizzata (ed in 10 anni di processi ha continuato tranquillamente a dirigere il ROS di tutt’Italia, comandare i poveri CC), il CGA si é già pronunciato riconfermandogli la fiducia (notizia TG3 di qualche giorno fa), ed uno di certificata onestà e rettitudine morale, si rivolge alle Istituzioni ma non ottiene nemmeno riposte. In un Paese rovesciato come questo in cui viviamo, pare che l’onestà stia diventando un disvalore”.

Facciamo una sorta di riepilogo:

  •  per 7 volte é stato ingiustamente chiamato in aula, sempre mandato assolto, sempre é riuscito a dimostrare l’estraneità alle accuse mossegli.
  • Sono stati chiesti chiarimenti al Ministro della Difesa Ignazio La Russa, con ben 6 interrogazioni parlamentari “a risposta scritta”, sia alla Camera che al Senato ma tutte, ad oggi, sono rimaste senza risposta.

Interrogazioni che hanno tutte per oggetto la “discriminazione sul posto di lavoro” che dal 1997 ad oggi sono state fatte ad Antonio.

  • una richiesta di risarcimento danni per discriminazioni sul lavoro pari a 1.200.000 euro, inviata direttamente al Ministero della Difesa.
  • ha presentato n.18 istanze per conferire col Ministro della Difesa, allo scopo di ottenere il riesame in autotutela delle illegittime discriminazioni (punizioni, trasferimenti d’autorità, denunce penali, dall’esito favorevole)in difesa della sua dignità professionale ed il proprio posto di lavoro, ma tutte, ad oggi, sono rimaste senza risposta;
  •  Date le mancate risposte tanto attese e considerato il prolungarsi del “mobbing”, si é rivolto alla competente A.G., con il deposito di 17 querele.
 Secondo quanto riportato dalle diverse interrogazioni al Maresciallo Cautillo gli sarebbe stato impedito di svolgere le mansioni inerenti il proprio grado e formazione rendendo “estremamente difficile la condizione di rapporto lavorativo”.
Da qui i numerosi provvedimenti disciplinari. Molte le punizioni: una di queste è dovuta al fatto di essersi rivolto al Presidente della Repubblica, poi trasferimento d’autorità, minacce di destituzione permanente dall’Istituzione ed infine una settima denuncia per disobbedienza al Tribunale Militare.
Di seguito amici, un intervista che chiarisce meglio i punti chiave della vicenda (fonte: radio radicale).

http://www.radioradicale.it/scheda/305472/cittadini-in-divisa

Tutti gli interroganti pongono infine la stessa domanda, quali siano i motivi per i quali il Ministro della Difesa non abbia ancora deciso di RISPONDERE al maresciallo che gli chiede verità e giustizia per 18 volte (con istanze scritte, sottoscritte e protocollate in caserme dei CC) e se questo non sia in qualche modo addebitabile alle convinzioni politiche dello stesso.
Dal canto suo Cautillo fa appello all’articolo 14 per la salvaguardia dei diritti dell’uomo che garantisce “il godimento dei diritti e libertà riconosciuti deve essere assicurato senza distinzione (..) di opinione politica” e alla legge n. 382 ( 11.7.1978) “Norme di Principio sulla Disciplina Militare”, art. 17 dove si legge: “Nei confronti di militari (..) Sono vietate le discriminazioni per motivi politici o ideologici”.

Ideologie politiche a parte (indipendentemente dalla fazione alla quale “appartenete”), credo che, come minimo, meriti una risposta.

Fatto ciò, mi rendo disponibile per l’eventuale possibilità di pubblicare aggiornamenti in merito alla storia del Maresciallo dei Carabinieri Antonio Cautillo.

 

 

  

 

 
 

 

 

(da Articolo21) 6 interrogazioni parlamentari ( 4 nell’arco di quest’anno), 16 istanze per conferire con il Ministro della difesa, un appello al Capo dello Stato, una richiesta di risarcimento danni per discriminazioni sul lavoro pari a 1.200.000 euro, inviata direttamente al Ministero della difesa. Questi sono i dati “numerici” che correlano la vicenda del maresciallo dei Carabinieri Antonio Cautillo, in servizio presso la stazione di Santa Giusta, Oristano.

Tutte le interrogazioni hanno per oggetto la “discriminazione sul posto di lavoro” che il Maresciallo Cautillo avrebbe subito dal 1997 fino adesso. Secondo quanto riportato dalle diverse interrogazioni al maresciallo sarebbe stato impedito di svolgere le mansioni inerenti il proprio grado e formazione rendendo “estremamente difficile la condizione di rapporto lavorativo”. Il maresciallo è stato infatti sottoposto anche a numerosi provvedimenti disciplinari, unitamente a “varie punizioni, una per essersi rivolto al Presidente della Repubblica, trasferimento d’autorità, minacce di destituzione permanente dall’Istituzione, una settima denuncia per disobbedienza al Tribunale Militare”.

Nel corso degli anni, inoltre, e sempre all’interno del contesto lavorativo, ha subito numerose denunce con conseguenti processi presso la Procura militare dai quali risulta essere stato sempre assolto per insussistenza dei fatti addebitatigli.

Questo quanto si legge nelle diverse interrogazioni, che, nel corso di quest’anno non hanno ricevuto risposta alcuna, come non ha trovato risposta la richiesta di conferire avanzata al Ministro della difesa, come stabilito e garantito dall’articolo 39 del regolamento di disciplina militare, nel rispetto di quanto stabilito dal decreto ministeriale n. 603 del 1993.

Tutti gli interroganti pongono infine la stessa domanda, quali siano i motivi per i quali il Ministro della Difesa non abbia ancora deciso di incontrare il maresciallo, per cosentirgli così l’esposizione diretta dei fatti e se questo non sia in qualche modo addebitabile alle convinzioni politiche dello stesso.
Dal canto suo Cautillo fa appello all’articolo 14 per la salvaguardia dei diritti dell’uomo che garantisce “il godimento dei diritti e libertà riconosciuti deve essere assicurato senza distinzione (..) di opinione politica” e alla legge n. 382 ( 11.7.1978) “Norme di Principio sulla Disciplina Militare”, art. 17 dove si legge: “Nei confronti di militari (..) Sono vietate le discriminazioni per motivi politici o ideologici”.

Le 4 interrogazioni parlamentari sono disponibili sul sito www.ficiesse.it

http://stopthecensure.blogspot.com/2010/08/mobbing-il-caso-del-maresciallo.html

http://christianfiore.wordpress.com/2010/08/24/antonio-cautillo-inerzia-istituzionale/

 

Signor giudice, un suo errore mi ha messo sul lastrico. Lo corregga!

E’ la denuncia accorata di un imprenditore di 44 anni di Chioggia vittima di un giudice veneziano che ci allega la lettera che ha scritto ad un magistrato del Tribunale di Venezia, rimasta senza risposta, seppure pubblicata con risalto dalla stampa locale.

La decisione del magistrato è ritenuta basata su un presupposto completamente errato e gravemente viziata da ultra-petizione.

Il silenzio del giudice chiamato in causa non depone ovviamente a suo favore, anche perchè il provvedimento ha di fatto decapitato ogni iniziativa imprenditoriale del soggetto passivo, provocando la vendita all’asta di tutti i suoi beni, nonostante le prove documentali e le perizie di due diversi tecnici che smentivano le pretese creditorie della controparte.

Ecco la lettera.

Le scrivo questa lettera di mia iniziativa, sconsigliato vivamente dal mio legale.

Ritengo di non arrecarLe alcun disturbo, di non ledere la Sua posizione di magistrato e di rispettare sostanzialmente le regole.
Sono l’amministratore, legale rappresentante e socio accomandatario di una società immobiliare.

Da inizio 2008 stiamo sostenendo una lite contro il titolare di una ditta (ed ora i suoi eredi) per un contratto di appalto mai onorato dal predetto e che mi vede soccombere a seguito di un decreto ingiuntivo (seguito da precetto e pignoramento) che Lei ha concesso a favore della controparte. E’ ormai chiaro nel giudizio di opposizione che sono state emesse fatture “stra” gonfiate, sono stati fatturati lavori inesistenti, sono state modificate ad arte le date di esecuzione dei lavori.
Tuttavia io soccombo davanti al decreto ingiuntivo “provvisoriamente” esecutivo da Lei concesso che troverà esecuzione il 30.06.2010 (con la vendita all’asta di tutti i beni della società – circa 540.000 euro il valore di perizia – contro un credito massimo accertato dal perito di euro 20.000 ca). Lei ha concesso quel decreto sul presupposto completamente errato che 96.000 euro di fatture non fossero mai state pagate. Tuttavia la controparte non ha mai richiesto il pagamento di quelle fatture.
Io ho compiuto 44 anni il 01.07.2010, il giorno successivo alla vendita coatta dei beni della mia società. Ho iniziato a lavorare a soli 13 anni per non gravare sulla mia famiglia con il primo dei miei vezzi (il motorino); da allora sono sempre stato finanziariamente autonomo. Ho acquistato la mia abitazione a soli 29 anni ed ho avviato varie attività con il solo intento di migliorare la situazione economica generale mia e della mia famiglia. Non sono certo un “bamboccione”. La mia fedina penale è pulita e non avevo mai messo piede in un’aula di Tribunale prima del gennaio 2008. Dopo circa 30 anni di duro lavoro, senza mai una lite di qualsivoglia natura, senza mai aver recato danno a chicchessia, trovo Lei che, a seguito di un banalissimo errore, mi porta via tutto quello che ho.
Sino ad oggi, tra perizie, avvocati, interessi passivi, ecc. questa lite nella quale Lei mi ha trascinato mi è costata oltre 80.000 euro; a questi vanno aggiunti i danni agli immobili ancora in possesso della controparte ed il minore valore delle valutazioni del perito (circa 170.000 euro in meno delle tre offerte di compravendita in nostro possesso sui cespiti di Canal di Valle). Il danno arrecatomi supera abbondantemente il mezzo miliardo delle vecchie lire. A questo va aggiunto il patrimonio dell’intera società (circa 300.000 euro), la perdita dei crediti di natura fiscale, l’impossibilità di continuare ogni attività, ecc.
Valuti nel Suo intimo se un minimo di onestà intellettuale e di volontà di ammettere i propri errori e un’eventuale accelerazione dell’iter della causa di opposizione al D.I. sarebbero stati o meno opportuni. Le ricordo che Lei ha respinto ogni nostra istanza di abbreviare i tempi e che tra l’ammissione di testimoni per accertare situazioni da noi mai contestate e rinvii continui per le più svariate motivazioni la causa è rimasta bloccata per oltre 12 mesi. Ritengo vergognoso che, dopo aver appurato un errore (compiuto in buona fede), un esponente della magistratura non si attivi per correggerlo. Non mi interessano riti, procedure, metodi, ecc., ritengo che un minimo di onestà intellettuale sia migliore di qualsiasi procedura. Ritengo dall’alto della mia ignoranza del codice di procedura civile, che la legge consenta di modificare una scelta che provoca grave pregiudizio ad una parte.
Le chiedo scusa per non essermi espresso in un “legalese” adatto alla circostanza; ritengo comunque che Lei già conosca la situazione e pertanto potrà tollerare qualche lieve difetto di forma. Non posso e non voglio chiederLe di ammettere un palese errore che mi vedrà impegnato per i prossimi dieci e forse più anni della mia vita in una causa contro lo Stato e poi presso la Corte dei Conti per verificare il recupero del danno erariale nei Suoi confronti. Le comunico semplicemente che nel mio più profondo intimo, dopo aver pregato Dio perché tuteli la salute della mia famiglia, gli chiedo semplicemente che un giorno Lei possa vivere la stessa esperienza di profonda e matura giustizia che sto vivendo io (spero Lei abbia percepito il sottile sarcasmo; nel dubbio mi permetto di evidenziarlo).
E’ maturata in me la convinzione che – visto il modo in cui viene amministrata la giustizia – rispettare le regole della vita civile (siano leggi o mere norme comportamentali) non serve a nulla quando si finisce in quei tritacarne che Voi chiamate aule di giustizia. Molto meglio delinquere e sperare che vada sempre tutto bene; se così non sarà ci saranno sempre condizionali, amnistie, grazie, riduzioni di pena, sconti per buona condotta, permessi premio, prescrizioni, ecc.
Al di là delle mie preghiere, considerazioni e convinzioni personali, la mia richiesta è semplicissima. Le chiedo formalmente di attivarsi presso l’Associazione Nazionale Magistrati, affinché per pura par condicio, nelle pagine del sito dove vengono ricordati i magistrati massacrati dalla malavita, siano anche aggiunti i nomi dei cittadini massacrati ingiustamente dai magistrati. Se volesse accedere al sito per meglio capire a cosa mi riferisco l’indirizzo è: http://www.associazionemagistrati.it/articolo.php?id=154.
Antonio Duse
Chioggia (Venezia)

(29 agosto 2010)

La copia di tutto il fascicolo processuale (alto ormai tre spanne) è a disposizione di chiunque voglia visionarla.

http://www.gazzettino.it/articolo.php?id=116591&sez=LADENUNCIADELGIORNO.

 

GORIZIA, IL NAUFRAGIO DELLA GIUSTIZIA

In tema di malagiustizia a Nordest segnaliamo questa interessante denuncia giornalistica sul naufragio delle inchieste per le morti dell’amianto di Stato (Fincantieri di Monfalcone). A completamento della quale occorre ricordare che il Procuratore della Repubblica di Gorizia Carmine Laudisio, principale responsabile dell’insabbiamento delle inchieste,  è stato trasferito e promosso alla Procura Generale di Trieste. Mentre, il  procuratore generale  Deidda (che non era intervenuto contro l’inerzia di Laudisio) è stato a sua volta promosso e trasferito (è il nuovo procuratore generale di Firenze). Si chiama progressione automatica di carriera a cui hanno diritto tutti i magistrati. Da parte sua, l’ex procuratore della Repubblica di Trieste Nicola Maria Pace (quello di Unabomber di cui abbiamo segnalato le gravi responsabilità nel relativo articolo) è stato pure promosso e trasferito. Ora è il nuovo Procuratore della Repubbliica di Brescia. Ma in cambio ha lasciato qui sua figlia che è sostituto procuratore a Udine. Tradizione di famiglia… (N.d.R.).

GORIZIA, IL NAUFRAGIO DELLA GIUSTIZIA.

Risultati sconcertanti dell’ultima ispezione ministeriale. Le responsabilità del procuratore della Repubblica e dei vertici di tribunale e corte d’appello. Ferme da 10 anni le indagini sugli operai morti per amianto nei cantieri di Monfalcone.

A cura di Roberto Ormanni

Una procura della Repubblica che si è fatta prescrivere tra le mani centinaia di casi di morte per amianto, un tribunale fermo da due anni, una corte d’appello dove presidente e procuratore generale stanno a guardare nonostante siano al corrente di quanto accade in tribunale e in procura. Questo in sintesi il quadro devastante della giustizia a Gorizia, dove da alcune settimane gli ispettori del ministero della Giustizia sono alle prese con una realtà raccapricciante, che supera di gran lunga anche la più fervida immaginazione.

Non è la prima volta che l’ufficio ispettivo di via Arenula si imbatte in “anomalie” (chiamiamole così) nella giustizia della città triestina. Ogni cinque anni il ministero manda gli ispettori a verificare il funzionamento degli uffici giudiziari: sono le ispezioni ordinarie. Iniziative di routine. Già cinque anni fa i funzionari ministeriali lasciarono Gorizia consegnando una serie di “prescrizioni”, ossia indicazioni ai responsabili degli uffici su cosa fare e come per rimettere in sesto, alla meno peggio, la baracca.

Poi, dopo qualche tempo, come prevede la procedura, un’altra nota del ministero chiedeva conto delle correzioni apportate all’organizzazione giudiziaria. A questo documento i capi degli uffici di Gorizia risposero: fatto, tutto a posto.

Invece non è stato fatto nulla anzi, la situazione è precipitata. La giustizia a Gorizia si trova, oggi, in fondo ad un baratro. Un buco nero nel quale ha cominciato a scivolare due anni fa, senza che nessuno abbia osato segnalare i problemi. Sa, qui siamo tutti amici, si sono giustificati alcuni magistrati interrogati dagli ispettori…

Magistrati e giudici onorari sono rimasti in silenzio, presidente del tribunale e procuratore della Repubblica non hanno aperto bocca (anzi, il problema principale è stato causato proprio dal procuratore della Repubblica) il presidente della corte d’appello e il procuratore generale non ne hanno parlato con nessuno. E neanche gli avvocati, di solito sempre pronti a protestare per il cattivo funzionamento della macchina giudiziaria, questa volta hanno detto nulla. Evidentemente faceva comodo, per diverse ragioni, a tutti.

Ma vediamo in cosa si sono imbattuti gli ispettori del ministero della Giustizia.

La procura della Repubblica di Gorizia sarebbe l’ufficio inquirente competente a indagare sulle morti per amianto verificatesi nei cantieri navali di Monfalcone.

Una lunghissima serie di decessi, verniciatori, costruttori, operai, meccanici: tutti riconducibili alle scorie di amianto. Per anni, prima che venisse accertato dagli studi scientifici quanto fosse nociva la sostanza, moltissimi cantieri hanno largamente fatto uso di amianto, lega utilissima, efficace, a basso costo e di facile lavorazione.

Le polveri, le scorie, i residui, i fumi si sono sedimentati per anni nei polmoni, sono filtrati nel sangue, hanno causato la morte. Lentamente, progressivamente, inesorabilmente.

Alla procura di Gorizia ci sono circa 750 fascicoli d’indagine per altrettante ipoesi di omicidio colposo. Indagini che, però, sono ferme da 12 anni. Nei fascicoli non c’è nulla oltre la denuncia, il certificato di morte dell’operaio, la causa di morte secondo i sanitari.

In alcuni casi i pubblici ministeri non hanno firmato nemmeno la delega d’indagine. In pratica, nessuno sta indagando. A dispetto delle centinaia di denunce, delle manifestazioni organizzate dalle associazioni di parenti delle vittime che si sono susseguite in questi anni. A dispetto, soprattutto, delle dichiarazioni pubbliche che sono state fatte, spesso, proprio da quei magistrati, come il procuratore capo di Gorizia o il procuratore generale di Trieste, secondo i quali sarebbe stato garantito il massimo impegno per ricostruire fatti e responsabilità. Ma quale impegno: nemmeno uno straccio di consulenza tecnica è stata disposta.

Come non bastasse, su nessuno di quei fascicoli c’è indicato neanche il nome di un presunto, ipotetico responsabile. Eppure quelle aziende avevano, tutte, un amministratore delegato, un responsabile della sicurezza. Ma i pubblici ministeri di Gorizia non sanno niente. Ufficialmente. Tutte le indagini sono ancora oggi, dopo anni, contro ignoti.

I fascicoli avrebbero potuto essere riuniti in un’unica indagine, o magari in due o tre tronconi, e procedere speditamente. Ma anche questo era troppo lavoro, evidentemente. Su 750 morti sono stati celebrati nemmeno una decina di processi, tutti diversi, qualcuno è ancora in corso, e in udienza non sono presenti neppure i pubblici ministeri togati, quelli che hanno svolto l’indagine. Il procuratore Laudisio ci spedisce giovani onorari, che hanno enormi difficoltà a ricostruire storie vecchie di anni.

E in decine di casi la strada seguita dalla procura di Gorizia è stata quella dell’archiviazione: “visto che la vittima ha lavorato per diverse aziende nel corso degli anni, e dal momento che non è possibile stabilire con precisione quando è cominciata la patologia che ne ha causato la morte, si archivia non essendo possibile individuare responsabilità certe per il reato di omicidio colposo”. Ecco come sono motivate le archiviazioni. Peccato che non si sia nemmeno tentato di trovarli i responsabili, non si è nemmeno provato ad affidare una perizia che potesse stabilire in quanto tempo la malattia ha portato l’operaio alla morte e dunque in che periodo della sua vita è insorta e, di conseguenza, in quale fabbrica – delle tante che facevano uso di amianto –  lavorara all’epoca.

Il pubblico ministero si è così sostituito al giudice: ha deciso che le prove sono insufficienti prima ancora di avviare il processo. Le sanno, queste cose, i familiari dele vittime? Chiedono verità da anni, ma l’unica verità è che nessuno fino ad ora l’ha cercata, la verità.

Da quando l’ispezione del ministero è in corso, qualche magistrato ha rilasciato interviste alla stampa locale: “certo, c’è qualche ritardo – ha detto in sostanza parlando dell’incredibile inerzia della procura – ma ora tutto è a posto e le indegini ripartiranno”. Non c’è nulla da far ripartire, nella maggior parte dei casi.

L’inefficienza degli uffici giudiziari di Gorizia non si ferma qui: due anni fa il procuratore Carmine Laudisio ha consegnato al presidente del tribunale, Matteo Giovanni Trotta, una comunicazione: finché non saranno coperti i posti di viceprocuratore onorario questa procura della Repubblica non invierà più magistrati a partecipare alle udienze in tribunale. Una singolare forma di protesta per la mancanza di magistrati, si potrebbe pensare. Un modo per poter avere uomini e mezzi necessari a far fronte alle esigenze di giustizia. Chi dovesse pensare questo sbaglia.

Il procuratore di Gorizia, Carmine Laudisio, ha in organico sei pubblici ministeri togati e 6 onorari. In servizio ce ne sono 6 togati e 2 onorari. A conti fatti, gli mancano quattro magistrati onorari. Questo è tutto. A fronte di otto pubblici ministeri la procura deve seguire tre udienze al giorno. E un carico di lavoro investigativo di circa duemila fascicoli l’anno, in tutto. A Napoli un pm, un solo magistrato, ne segue tremila all’anno. Da solo. A Roma siamo a circa duemila, come a Milano. A Gorizia ce ne sono duemila diviso otto. Anche se fossero quattromila…

Invece secondo il procuratore di Gorizia se non arrivano altri quattro magistrati onorari la procura non può seguire i processi. E per questo da due anni i processi vengono sistematicamente rinviati.

Proprio così: sono saltate tutte le udienze. Centinaia, migliaia di udienze. I giudici onorari aprivano l’udienza e la rinviavano “per assenza del pm”, quelli togati non l’aprivano nemmeno, la rinviavano a scatola chiusa. La ragione della differenza sta nel fatto che gli onorari se non aprono l’udienza non incassano i dieci euro o giù di lì previsti per l’udienza. Dunque, il ministero della Giustizia, le casse pubbliche, per due anni hanno pagato giudici onorari inutilmente.

Quei provvedimenti di rinvio “per assenza del pm” non sono mai arrivati oltre i confini della corte d’appello di Trieste. Nessuno, anche in questo caso, ha creduto di dover denunciare nulla. Peccato che da nessuna parte del codice di procedura pernale, o dell’ordinamento giudiziario, sia previsto un rinvio per assenza del pubblico ministero. Anche perché, è bene precisarlo, in questo caso i termini di prescrizione non si interrompono, perché il rinvio è colpa del sistema giudiziario, non dell’imputato o della difesa.

Il risultato è stata la cancellazione di decine di processi per prescrizione.

Almeno, intanto, la procura avesse utilizzato il tempo libero per svolgere indagini… nemmeno questo è accaduto, visto che i morti per amianto sono sempre in attesa di una giustizia che, a questo punto, non arriverà mai più.

Nonostante il folle provvedimento del procuratore Laudisio fosse stato trasmesso sia al presidente del tribunale, Trotta, sia al procuratore generale della corte d’appello di Trieste Beniamino Deidda, sia al presidente dela corte d’appello Carlo Dapelo, nessuno dei capi degli uffici giudiziari ha informato il ministero.

Ora spetterà agli ispettori decidere quali siano le responsabilità disciplinari.

Noi ci limitiamo ad osservare che se il dirigente di un ospedale interrompesse le prestazioni di pronto soccorso perché l’organico dei medici non è completo, verrebbe arrestato.

Basta, tutto questo, per avere un’idea della situazione della giustizia a Gorizia? No, non basta ancora.

Oltre alle indagini mai avviate, ai processi saltati, all’inerzia dei capi (il procuratore generale è il titolare dell’azione disciplinare) anche i processi, civili e penali, che sono riusciti miracolosamente ad arrivare a sentenza, hanno dovuto attendere tempi biblici per avere le motivzioni delle sentenze. In alcuni casi tra la decisione e il deposito della motivazione sono trascorsi oltre mille giorni. Di media, per avere la motivazione di una sentenza, a Gorizia, è necessario aspettare circa un anno. Contro i 90 giorni previsti dalla legge.

Per non parlare dell’esecuzione delle pene: le sentenze di condanna di primo grado sono state sistematicamente sospese quando anche uno solo degli imputati presentava appello. Una strana regola: uno per tutti, tutti per uno. Se un imputato impugnava la condanna in secondo grado bastava una richiesta della cancelleria al giudice del tribunale che aveva emesso la condanna: cosa dobbiamo fare con la sentenza per coloro che non hanno impugnato? E il giudice rispondeva: lasciate tutto fermo, vediamo l’appello come va. Anche in questo caso, una regola che non esiste: il codice, infatti, prevede che per gli imputati che non fanno appello la condanna passa in giudicato e deve essere eseguita. Se poi, al termine del processo d’appello avviato da uno degli imputati, la pena viene ridotta, allora la riduzione si applica anche a chi non ha fatto appello. Ma intanto la condanna deve essere eseguita.

La legge, però, a Gorizia conta poco. Ciò che conta è la follia e l’inefficienza. Questa volta l’ispettorato del ministero della Giustizia è deciso ad andare fino in fondo. Noi ci auguriamo che anche la procura della Repubblica di Bologna, competente a valutare eventuali reati commessi dai magistrati del distretto di Trieste, voglia verificare cosa è successo a Gorizia.
http://www.ilparlamentare.it/Articolo.aspx?id=1&idAr=108&lingua=I&super=Parlamentare&sender=elenco&time=all&idPag=6
 

27.9.2010. IL CORAGGIO DI DENUNCIARE. PROTESTA A MONTECITORIO DELLE VITTIME DEL SISTEMA POLITICO-GIUDIZIARIO MASSOMAFIOSO

 
In adesione alla richiesta del promotore del Comitato Francesco Carbone pubblichiamo il testo del comunicato stampa, dando il ns. pieno sostegno alla manifestazione e alle vittime di questo sistema politico-giudiziario massomafioso asservito agli interessi di poteri corrotti e criminali che, da parte nostra, abbiamo  continuamente denunciato, quale Associazione antimafia, in oltre 25 anni di continuo impegno sociale, in difesa dei soggetti più deboli.
Quale contributo alla migliore riuscita dell’iniziativa segnaliamo la possibilità per tutti gli aderenti vittime di abusi giudiziari di farci pervenire i loro casi che provvederemo alla tempestiva pubblicazione nella mappa della malagiustizia, onde rendere più visibili le singole vicende e meno vulnerabili e isolati i vari protagonisti.
Per segnalare il tuo caso: movimentogiustizia@yahoo.it
(Il sito di Avvocati senza Frontiere è uno dei primi siti giuridici in Italia con una media di 45.000 contatti al mese e 3000 utenti).
     
Comunicato Ufficiale della Protesta del 27.9.2010 indetta dal Comitato SpontaneoIl coraggio di denunciare“.
LA PROTESTA E’ APARTITICA E NON PERMETTEREMO A NESSUN MOVIMENTO O PARTITO POLITICO DI STRUMENTALIZZARE LE SOFFERENZE DI CHI HA SUBITO MALA GIUSTIZIA.

Si comunica che il giorno 27 Settembre 2010, a Roma in Piazza Montecitorio e’ stato programmato un Sit-In permanente per pretendere pacificamente e civilmente un dialogo con chi di dovere e istituzionalmente gia’ preposto, per esigere i nostri sacrosanti Diritti sanciti dalla Costituzione Italiana.

Tutti noi Pretendiamo un confronto ragionevole con il Ministro dell’Interno, con il Ministro della Giustizia, il Presidente della Camera e con la Commissione Giustizia per far si che si prendano i piu’ immediati provvedimenti per combattere la Malagiustizia in Italia, inquisendo e sospendendo immediatamente Giudici e Magistrati per le palesi e documentate scorrettezze Penali per favorire elementi con cui sono eventualmente collusi e facenti parte della stessa Casta Massonica Politico-Giudiziaria Mafiosa.

Bisogna mettere con le spalle al muro (in senso metaforico) i titolari dei suddeddi organi Istituzionali obbligandoli a far si che chiunque non faccia il proprio dovere, venga immediatamente allontanato, togliendogli quel potere che immeritatamente usa per favorire la crescita dell’attivita’ Criminosa Massonica Politica Forense e Giudiziaria a discapito di singoli cittadini onesti e denuncianti, all’erario dello Stato e all’Onorabilita’ dello Stato. Vogliamo che questo Sistema Tumorale venga estirpato da una vera Magistratura e noi siamo in grado attraverso le nostre denunce di localizzare tutti i Tumori presenti all’interno di Tribunali e Procure.

Pretendiamo che chi di competenza estirpi immediatamente questi Tumori prima di arrivare al Collasso Totale del Sistema.

Sistema colonizzato criminosamente dalla Casta Massonica Politico-Giudiziaria e Forense.

Voglio ricordare a tal proposito qualche articolo della Costituzione palesemente non attuato e palesemente scavalcato e raggirato criminosamente con la commissione di reati Penali da parte di Giudici, Magistrati, Avvocati e Forze Politiche.

ART. 1   La Sovranita’ appartiene al Popolo

ART. 2   La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo

ART. 3   Tutti i cittadini hanno pari dignita’ sociale e sono eguali davanti alla legge

ART. 21  Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione

ART. 24  Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi

ART. 25  Nessuno puo’ essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge

ART. 28  I Funzionari e i dipendenti dello Stato sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti

ART. 54  Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il Dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

ART. 111  La giurisdizione si attua mediante il Giusto Processo regolato dalla legge

ART. 112  Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale.

Tali articoli sono inosservati quasi totalmente in quanto il Popolo, specialmente quello onesto e che ha il coraggio di denunciare, viene posto nelle piu’ misere delle condizioni e tartassato di vessazioni, minacce e denunce (spesso false), senza che il Popolo Italiano ne venisse a conoscenza a causa della quasi totalita’ di servilismo da parte di editori e giornalisti alla Mafiosa Casta Massonico Politico-Giudiziaria.

Tutto cio’ e’ dimostrato nelle nostre denunce e il nostro normale coraggio di renderle pubbliche e’ anche per far riflettere gli Italiani se la nostra Repubblica e’ una Repubblica la cui Sovranita’ e’ del Popolo o se e’ una mascherata Dittatura in cui il potere se l’e’ preso la Mafiosa Casta Politico-Giudiziaria Forense, truffando l’ingenuita’ e l’ignoranza del Popolo Italiano violando quasi tutte le norme democratiche sancite dalla Costituzione Italiana.

Premesso tutto cio’

Invito tutti gli uomini e donne di buona volonta’ che vogliono fare qualcosa per avere un paese realmente normale, rispettoso delle leggi e della Costituzione nel quale i diritti non si debbano supplicare ma pretendere, di far veicolare il piu’ possibile la diffusione di questo comunicato e invito tutti coloro che vorranno contribuire personalmente, con i loro preziosi suggerimenti e proposte o partecipazione personale alla protesta (giusta pretesa) del 27 settembre 2010 a contattarmi.

 Linee guida da adottare alla manifestazione concordate con la Digos e Questura di Roma da leggere…

http://www.facebook.com/notes/francesco-carbone-due/linee-guida-da-adottare-concordate-con-la-digos-protesta-del-27-settembre-contro/129887117059451

Francesco Carbone Via Giovanni Falcone 12 – 90030 Villafrati (PA) – 3470752136

francescocarbone996@alice.it

Pagina ufficiale Facebook

Francesco Carbone (il coraggio di denunciare)

http://www.facebook.com/pages/Francesco-Carbone-il-coraggio-di-denunciare/107453602609163

Profilo Facebook Francesco Carbone

http://www.facebook.com/profile.php?id=100001254702771

Francesco Carbone Due

http://www.facebook.com/profile.php?id=100001188001617

Evento tramite Facebook

http://www.facebook.com/event.php?eid=137534042950601&ref=mf

Chi e’ Francesco Carbone?

Tutta la vicenda su Poste Italiane denunciata da Francesco Carbone (il coraggio di denundiare)

http://www.facebook.com/note.php?note_id=117409504973879&id=100001188001617&ref=mf

Video su you tube su l’intervista Rilasciata a Tv Alfa Licata (Tv Locale Antimafia) leggete la descrizione

http://www.youtube.com/watch?v=U4wweaTf-yo

Intervista di Pino Maniaci (telejato) a Francesco Carbone

http://www.facebook.com/video/video.php?v=121360907915732&ref=mf%EF%BB%BF

 

 

 

SINDACO E CONSIGLIERI SI BEFFANO DI CITTADINI E MAGISTRATURA

Ci stanno trattando da scemi, noi cittadini e la magistratura.

Come abbiamo già denunciato e documentato, il sindaco di Trieste Roberto Dipiazza si è fatto una speculazione personale da 200.000 euro acquistando illegalmente e rivendendo a costruttori consapevoli un terreno del Comune, con la complicità attiva e passiva continuata di funzionari, assessori e consiglieri di maggioranza e di opposizione.

Continuano a coprire la speculazione personale illecita di Dipiazza.

Non succede neanche nelle regioni di mafia, dov’è accaduto qualcosa di simile l’autorità si è mossa subito, e i bandi d’asta immobiliare dei Comuni precisano tutti il divieto di acquisto per sindaco e consiglieri. E non rientra nella loro discrezionalità politica, ma tra gli illeciti commessi in veste di pubblici ufficiali, ed in ipotesi di reati associativi, pluriaggravati e continuati che vanno dall’abuso d’ufficio all’omissione d’atti, alla truffa. Greenaction Transnational ne ha fatta denuncia alla Procura della Repubblica già nel novembre scorso, con prove documentali complete e pubbliche (atti tavolari) che consentivano perciò di procedere immediatamente. Il quotidiano locale ne diede la notizia, ma poi tacque, come le istituzioni.

Abbiamo perciò lanciato noi, che siamo nati a maggio, la necessaria campagna giornalistica di indagine e denuncia, chiedendo le spiegazioni o dimissioni dei responsabili. Che hanno invece mantenuto compatti un silenzio omertoso, di fronte al quale abbiamo chiesto a Prefetto e Regione il commissariamento del Comune, ed io ho presentato personalmente nuove denunce alle Procure della Repubblica e della Corte dei Conti, alla quale si è rivolta anche Greenaction.

Quando noi siamo andati in pausa ferie Sindaco e consiglieri hanno finalmente reagito, ma con dichiarazioni menzognere al quotidiano locale che le ha pubblicate di nuovo senza verifica. Dipiazza ha infatti dichiarato falsamente che la compravendita era regolare, scaricandone comunque la responsabilità sul Consiglio comunale che l’aveva discussa ed approvata a maggioranza.

I consiglieri, pseudo-opposizione compresa, hanno scaricato la responsabilità sui funzionari, affermando falsamente che per legge sarebbero loro, e non il Consiglio, a decidere queste compravendite immobiliari, ed attribuendo simile tesi ai funzionari stessi, avvocatura comunale inclusa. I quali sembrano acconsentire tacendo, come gli assessori coinvolti, ed in particolare quelli al patrimonio di allora, il Giorgio Rossi che lasciò vendere illecitamente il terreno comunale al sindaco, e di adesso, il Claudio Giacomelli che dovrebbe agire per recuperarlo, ed è pure avvocato.

Ma con oggi usciamo di nuovo in edicola noi. E vi confermiamo che tutti costoro ci stanno prendendo per scemi.  Perché non possono non sapere tutti benissimo che la vendita al sindaco era ed è espressamente vietata dall’art. 1471 del codice civile, con precise conseguenze anche penali ed erariali. E che i poteri di decisione finale sulle compravendite immobiliari del Comune sono espressamente assegnati al Consiglio – il quale li ha infatti esercitati – dal Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (D.Lgs. 267/2000, art. 42, 2, l), in forza del quale gli illeciti da essi compiuti determinano anche l’impossibilità di ricoprire la carica di sindaco e di consigliere (artt. 77, 2 e 63).

Il Comune di Trieste ha 45 consiglieri, un vicesindaco, 9 assessori, e nove tra partiti e liste, il tutto di una mediocrità già disastrosa. Nessuno di essi, anche tra i non responsabili dell’illecito originario, ha mostrato sinora la dignità ed il coraggio di dissociarsene ammettendolo pubblicamente: né quando venne commesso, né dopo, e nemmeno di fronte alle denunce penali e di stampa. E così i loro politici e partiti di riferimento provinciali e regionali.

Questo scandalo pubblico non coinvolge perciò soltanto il Sindaco Dipiazza ed i suoi, ma tutto il potere politico locale. E la copertura concorde di un illecito così grave rivela tutto un sistema trasversale corrotto di complicità in spregio alla legge ed ai cittadini. Lo stesso che da decenni vediamo estendersi ancora impunito nel settore degli appalti, nei piani regolatori ed a quant’altro già oggetto di non poche indagini giudiziarie.

E questi politicanti, di maggioranza e opposizione, così indulgenti tra di loro sono anche gli stessi che mandano o lasciano mandare la polizia municipale in caccia empia ai più deboli: mendicanti, affamati che frugano nelle immondizie, vittime della prostituzione, miseri venditori di minuzie, poveri artisti di strada. Noi, da cittadini prima che da giornalisti, non siamo disposti a lasciarci ancora parassitare né prendere in giro da questo genere di prepotenti, quali che ne siano il colore o le cariche.  E la magistratura?

Paolo G. Parovel

4 Settembre 2010 

http://www.iltuono.it/A2010/10-09-04.pdf
 
 
 
 
 

 

UNABOMBER. UNA PERSECUZIONE TERRORISTICO-GIUDIZIARIA IN PIENA REGOLA. LO STATO CHIEDERA' I DANNI ALL'EX PROCURATORE CAPO NICOLA MARIA PACE?

Unabomber. Una persecuzione di stampo terroristico-giudiziario in piena regola. Adesso, dopo il proscioglimento, c’è da domandarsi se lo Stato Italiano chiederà i danni all’ex Procuratore capo di Trieste Nicola Maria Pace.

Ingiustamente accusato di essere il terrorista Unabomber e addidato al pubblico ludibrio, quale autore di ripetuti atti criminali, l’ingegnere aeronautico pordenonese Elvo Zornitta ha avuto vita e lavoro distrutti, ora dopo essere stato completamente scagionato da ogni pretstuosa accusa chiede giustamente allo Stato un adeguato risarcimento danni.

E lo Stato dovrebbe dunque chiederne ragione all’allora Procuratore capo di Trieste Nicola Maria Pace, che anticipò addirittura alla stampa di avere in mano il colpevole (Zornitta) in base a “prova certa”. 

La prova – un pezzo di lamierino tagliato con una forbice – si rivelò poi contraffatta in laboratorio di Polizia Giudiziaria. Le conseguenti inquietanti analogie con similari falsificazioni di prove della strage di Peteano hanno portato molti osservatori a supporre una preordinata azione di copertura e depistamento di indagini, deviando i sospetti sull’ignaro Ing. Zornitta, quale vittima sacrificale da dare in pasto all’opinione pubblica, al posto di soggetti criminali vicini ad ambienti politico-terroristici dei soliti servizi segreti deviati. 

4 settembre 2010

http://www.iltuono.it/A2010/10-09-04.pdf

 

 

INCHIESTA POLITICA SULLA GUARDIA DI FINANZA?

Finanzieri e manette

di Vincenzo Cerceo (Colonnello della Guardia di Finanza in congedo)

E’ di questi giorni l’arresto dell’ennesima “Fiamma Gialla”, questa volta a Trieste, per i soliti e ricorrenti fatti di corruzione. Soffocando la malinconia di ex appartenenti al Corpo che mai hanno infangato la divisa proviamo un po’ ad analizzare questo fenomeno, perché il considerarlo non serio e non grave equivarrebbe a volere sfuggire da una realtà spiacevole.

Per risalire all’epoca relativamente recente, fu nel 1980 che venne arrestato il Comandante Generale del Corpo, Giudice, il quale, col suo capo di Stato Maggiore, Loprete, e con una schiera di altri appartenenti al Corpo, aveva creato, al Comando Generale, una vera e propria associazione per delinquere finalizzata al contrabbando.

Il capo delle guardie che era anche il capo dei ladri: roba da repubblica delle banane. Ma il potere politico sorvolò sul fatto che tanti altri generali sapevano ed avevano taciuto, e tutto finì in gloria. Intanto, all’interno del Corpo si dava una caccia feroce ai finanzieri che, disgustati da tutto ciò, parlavano di riforma seria del Corpo. Tralasciamo la vicenda della Loggia P2 e delle altre logge coperte ed illegali, tutte con folta ed autorevole presenza degli altri gradi del Corpo (tranne ovviamente alcuni) e veniamo allo scandalo di Tangentopoli, a Milano ed altrove.

Almeno cinque anni prima che ciò fosse reso noto alla giustizia, all’interno del Corpo si sapeva, e se ne discuteva nelle caserme, del  sistema milanese, istituzionalizzato e verticalizzato, per cui il comandante di sezione, nell’affidare la pratica di servizio alle pattuglie, indicava anche la somma minima di tangente che quella pratica avrebbe dovuto fruttare; la somma poi andava all’Ufficio Operazioni, il quale ripartiva a secondo un vero e proprio manuale Cencelli delle mazzette, a Milano ed anche fuori di Milano. Non dimentichiamo queste cose.

Venne poi il caso Veneto del colonnello Petrassi, lasciato fino al giorno dell’arresto in importanti comandi; prima vi era stato il caso dell’ufficiale di Novara, e così via. Qualche anno fa un Magistrato di Pinerolo, parlò, in sentenza, di “tendenza genetica degli appartenenti alla Guardia di Finanza alla corruzione”.

A noi, che corrotti non eravamo, la cosa dispiacque, ma dopo analoghi episodi sono continuati alla spicciola così come quello di Trieste.

E’ possibile che quel modo di fare che abbiamo letto sui giornali sia un caso anomalo, un atto di follia? Vogliamo sperarlo, di cuore, ma nessuno ci prenda per ingenui. A quando una seria inchiesta politica sul Corpo?

Vincenzo Cerceo

Colonnello della Guardia di Finanza (in congedo)

Palermo. Mobbizzata da banca, famiglia e magistrati.

Chi scrive è una cittadina palermitana che, dopo aver fatto ricorso al Tribunale del Lavoro a causa di un mobbing ventennale subito e conclusosi con il licenziamento, oltre al danno esistenziale, ha subito la beffa di non vedere presa in considerazione dai Magistrati giudicanti, in nessuno dei 3 gradi di giudizio, la propria storia di mobbing, corredata da n. 102 documenti allegati a supporto della veridicità degli episodi denunciati.

Nessun giudice è mai entrato nel merito della mia storia di vittima di mobbing per far emergere la verità dei fatti accaduti. Infatti, sia nel giudizio di 1° grado, sia in sede di Corte d’Appello, non è stata presa assolutamente in considerazione la relazione dettagliata che ho allegato al mio ricorso, non mi è stata data l’opportunità di dire una sola parola, non è stato fatto alcun cenno alla “abbondante” documentazione di prova esibita e, addirittura, neanche l’avvocato della parte avversa si è preso la briga, nella sua memoria difensiva, di contestare gli episodi denunciati. Il racconto di 20 anni di vita lavorativa distrutta dal mobbing, corredato da n. 102 documenti a supporto di ogni singolo episodio denunciato, è stato ignorato e considerato come un frutto della fantasia!!! E anche la Corte di Cassazione, che avrebbe potuto fare Giustizia, rinviando ad altro Giudice per esaminare finalmente tali allegati, disattesi dai precedenti Giudici, ha preferito, in data 11/5/2010, con una semplice ordinanza, porre la parola fine alla mia vicenda umana.

Ciò premesso

Invito chi opera nel settore Giustizia a leggere la mia storia di mobbing, appurandone la veridicità, consultando il dossier intestato al mio nome e depositato in Corte di Cassazione: basta leggere i n. 102 documenti allegati, esibiti e ordinati in ordine cronologico!!!

Qui di seguito riporto i riferimenti occorrenti per rintracciare la mia pratica:

RICORSO ex art. 413 e segg. c.p.c. (previa reintegrazione urgente del posto di lavoro) e per violazione degli artt. 1175, 1375,2087, e 2119 c.c.(“Mobbing”) tra Silvana Catalano e IRFIS Mediocredito della Sicilia spa

Tribunale civile di Palermo Sezione lavoro – Giudice: Dr. Dante Martino Fascicolo inserito nella causa civile iscritta al n. 638/2005 R.G.

Corte d’Appello di Palermo : – Presidente: Dr. Antonio Ardito

Consigliere relatore – Dr.Fabio Civiletti.

Fascicolo inserito nella causa civile iscritta al n. 782 R.G.A. 2008,

Corte di Cassazione di Roma – Presidente: Dr. Bruno Battimiello

Consigliere relatore: Dr. Saverio Toffoli.

Fascicolo inserito inscritto al R.G. 11181/09.

In particolare, chiedo che “chi può” legga i n. 102 allegati, poiché dalla semplice lettura di questi documenti emerge inequivocabilmente la verità dei fatti per i quali avevo reclamato Giustizia, documenti che certificano in modo specifico e conducente quanto raccontato e che, invece, non sono stati presi assolutamente in considerazione dai Giudici, pur avendoli agli atti.

Sembra che da più parti esista una ritrosia a identificare il mobbing, (i cui effetti, oltre ad esplicarsi nell’ambito lavorativo, distruggono ogni aspetto dell’esistenza delle vittime), come un crimine pianificato dalla “mafia dei colletti bianchi”, mirante a liberarsi di un dipendente scomodo. Chi denuncia la violenza psichica subita, si ritrova “solo” a combattere una dura battaglia, abbandonato a se stesso da chi si proclamava paladino della giustizia, isolato, talvolta, dai suoi stessi familiari, con la consapevolezza che, per proteggere il silenzio omertoso su certe vicende, esiste chi sarebbe pronto ad usare qualsiasi arma!!!

E’ da 6 anni, da quando ho deciso di denunciare la mia esperienza di vittima di mobbing, che vivo disoccupata, separata in casa dal marito, con 2 figlie che mi considerano morta, senza mai avermi affrontato per dirmi ciò di cui mi accusano. E nessuno, (parenti, amici, conoscenti ecc.) è mai intervenuto per tentare di abbattere questo muro di silenzio, le cui cause “sembra” che siano a tutti sconosciute. Ma non è possibile che nessuno sappia i motivi di tale silenzio; non è “normale” che non si siano confidate con nessuno e tutto mi porta a pensare che esse, a loro insaputa, siano state “manipolate” ad hoc per indurmi, con il loro silenzio, a desistere dalla mia lotta contro il mobbing, divenuta causa, altresì, del clima omertoso che mi circonda.

E’ inquietante il silenzio assordante che aleggia sulla storia di una vita distrutta, ampiamente denunciata da una donna che chiede da anni Giustizia!!!

Auspico di trovare, tra i tanti a cui inoltro questa lettera, qualche persona interessata a dare un “autorevole” contributo al trionfo della Giustizia, portando la mia vicenda dinanzi alla Corte Europea e utilizzando tutti gli strumenti democratici, di cui non dispone un semplice cittadino. I Tribunali italiani mi hanno dimostrato come viene affondata facilmente la semplice “barchetta” con cui una persona comune reclama Giustizia; pertanto per invocare la Giustizia Europea cerco una “corazzata” con persone che abbiano iscritto nell’anima l’ideale di Giustizia!!!

La mia vicenda è un tipico caso di doppio mobbing (è stata distrutta anche la mia famiglia) ed è solo facendo emergere la verità dei fatti accaduti che potrò ricomporre il mio progetto di vita e riabbracciare le mie figlie!!!

Se credete veramente nella Giustizia,  aiutatemi…

Silvana Catalano