Archivio Categoria: Emilia Romagna

Aldrovandi. “E’ stato morto un ragazzo”.

La denuncia-intervista del regista Filippo Vendemmiati.

Nel processo per la morte di Federico Aldrovandi, la Polizia di Stato dovrebbe costituirsi parte lesa contro i responsabili insieme alla famiglia per rispetto verso tutti i poliziotti onesti che rischiano la loro vita per la sicurezza dei cittadini. Invece, sembra una beffa, i responsabili del pestaggio condannati in primo grado sono ancora in servizio.

Cosa ne pensa di questo il dottor Manganelli, capo della Polizia? Filippo Vendemmiati ha girato un film: “E’ stato morto un ragazzo” sulla vicenda di Federico sulla quale rimane una domanda oscura: “Perché?”. Si sa ormai tutto della fine di un ragazzo, ma non delle cause. Quali sono le vere cause? E, se non si rimuovono, quanti altri Federico ci saranno in futuro?

“E’ stato morto un ragazzo”
“Mi chiamo Filippo Vendemmiati, sono un giornalista, lavoro dal 1987 alla RAI nella sede regionale dell’Emilia Romagna e faccio quello che si dice l’inviato di cronaca, l’inviato di cronaca che a un certo punto della sua carriera professionale ha deciso di scendere dal treno, di dire: adesso basta,adesso mi fermo, scendo dal treno in corsa delle notizie mordi e fuggi che il giorno dopo non si sa più quello che si è fatto il giorno prima e decido che per una volta quello che vale la pena raccontare non è una notizia, ma una storia e quindi approfondire quello che raramente noi riusciamo a fare, quello che raramente i giornalisti in questo sistema dell’informazione malato riescono a fare e mi sono fermato su un caso che è successo nella città dove sono nato e dove ho vissuto a lungo, Ferrara e che sembra incredibile possa essere successo in questa città, una città civile di tradizioni democratiche, come si diceva una volta, e è il caso della morte di un ragazzo di 18 anni che si chiamava Federico Aldrovandi che il 25 settembre 2005 durante un incontro con la Polizia, usavamo sempre questi termini perché non si poteva dire “scontro, pestaggio” perché ancora la sentenza non c’era stata, non si potrebbe dire neanche adesso perché ancora non è passata ingiudicato, ma dopo un pestaggio con la polizia è morto a Ferrara.
Federico Aldrovandi è morto due volte, è morto sotto i colpi dei manganelli e per lo schiacciamento del torace ed è morto perché dopo questi tragici fatti si è cercato di negare l’evidenza e si è costruito un alibi fasullo, ci sono state due inchieste quella sulla morte e quella sui depistaggi, entrambe hanno portato a due sentenze di condanna di primo grado per 7 uomini in divisa, in servizio alla Questura di Ferrara.
Definisco il caso di Federico Aldrovandi un omicidio quasi perfetto perché non solo quella mattina ci furono 4 agenti che sbagliarono e poi mentirono, ma poi ci furono altri agenti in servizio alla Questura di Ferrara che coprirono quelle bugie, costruendo un alibi quasi perfetto che stava per avere successo basato sul favoreggiamento, sul depistaggio delle indagini e sulla falsificazione dei documenti, questo non lo dico, ma lo dicono due sentenze e due motivazioni dei giudici di Ferrara. Trovo che questa sia una storia emblematica che ha molto a che fare sia con il sistema dell’informazione che con il sistema della giustizia, questa era una storia ormai archiviata dalla giustizia ma anche dall’informazione, se non fosse stato per un paio di giornalisti e io non ero tra quelli allora, una trasmissione televisiva e soprattutto la tenacia e la determinazione della Famiglia Aldrovandi, dei suoi legali che il 2 gennaio, 4 mesi dalla morte di Federico decisero di aprire un blog, pubblicando la foto del cadavere del figlio, il volto sfigurato del figlio, quindi violentando in qualche modo i propri sentimenti, il proprio dolore, quell’inchiesta molto probabilmente sarebbe stata archiviata, questa è un po’ la storia, il filo conduttore di questo film documentario che abbiamo presentato in anteprima a Venezia e che adesso stiamo tentando di far vedere a quanta più gente possibile in accordo con la Famiglia Aldrovandi.

Per uno Stato trasparente.
Il mio obiettivo e spero di esserci riuscito, è quello di non limitarmi a una semplice denuncia, sarebbe stato molto facile agire sui sentimenti, sulle mozioni, sui filmati che la Famiglia Aldrovandi ci ha messo a disposizione per una denuncia molto forte, molto potente, violenta anche nei confronti della Polizia, non che non ci sia questa denuncia, poi il giudizio spetta a chi vede il film, ma ho tentato soprattutto di lanciare un messaggio positivo che è poi il messaggio che solo la forza di questa famiglia straordinaria poteva trasmettermi, non si chiede allo Stato e ai rappresentanti dello Stato di essere infallibili, anche i rappresentanti delle istituzioni possono sbagliare, anche se le loro responsabilità sono enormemente più gravi di quelle degli individui, si chiede allo Stato però di essere trasparente quando i propri rappresentanti sbagliano, invece c’è un filo conduttore in qualche modo inspiegabile, un vizio di origine delle forze dell’ ordine in questo paese che accomuna il caso Aldrovandi a altri casi avvenuti in circostanze simili, ma che hanno tutti lo stesso comune denominatore e penso ai Di Giuliani, a Cucchi, a Uva, a Gabriele Sandri, che un conto sono i fatti da accertare, gli approfondimenti, le perizie e su questo poi ognuno può dimostrare giustamente in un contraddittorio quello che succede, un conto invece è l’operato delle forze dell’ ordine che in tutti questi casi hanno avuto lo stesso comportamento che è stato quello prima di tutto di negare, in secondo luogo di coprire depistando le indagini, in qualche modo strumentalizzando le testimonianze, evitando quindi la trasparenza, questo è un filo conduttore che qualcuno dovrà spiegarci perché, perché questo non è un film contro le forze dell’ ordine, anzi è un film a difesa delle forze dell’ ordine e di chi nelle forze dell’ ordine si comporta in modo onesto, ma qua non è successo questo, così come negli altri casi, c’è l’Avvocato Anselmo che difende altri casi simili che mi dice: ma qua succede sempre la stessa cosa, non ci fanno fare le fotografie, falsificano le autopsie, questo è avvenuto anche nel caso di Cucchi, le modalità di difesa della giustizia quando è la giustizia italiana, i suoi rappresentanti a essere indagata e messa sotto processo è sempre lo stesso, la copertura e l’omertà, pure in circostanze che i fatti dimostrano essere anche diverse .
I responsabili condannati in primo grado nelle due inchieste lavorano ancora, sono ancora uomini in divisa e questo per la giustizia italiana ancora non sono dei pregiudicati perché le condanne non sono definitive, però per esempio alcuni di loro continuano a svolgere servizi normali, alcuni anche sulla strada, chiedo alle forze dell’ ordine: perché questo succede? La risposta è: abbiamo avviato un’inchiesta interna, in realtà le inchieste interne della polizia o dei ministeri si cominciano ma non finiscono mai, noi non sappiamo mai quali sono i risultati di queste inchieste interne, così succede che ancora oggi a Ferrara per esempio gli amici di Federico che hanno subito un vero e proprio processo, sono stati accusati, le ore successive dalla morte dell’amico di averlo scaricato in macchina, di essere dei drogati, possono tranquillamente imbattersi nelle persone che in qualche modo hanno provocato la morte del loro amico, questo succede a Ferrara, in una città civile!
Patrizia Aldrovandi ha subito delle querele per diffamazione dagli Avvocati di 3 agenti condannati perché Patrizia ha definito delinquenti questi poliziotti, questa querela Patrizia Aldrovandi l’ha vinta e è stata archiviata dal Tribunale di Mantova, ciò non toglie che altre persone per dichiarazioni rilasciate dalla stampa siano state querelate.

A colpi di querela
Questo va detto, si inserisce in un meccanismo credo che non ha eguali in altri paesi d’Europa, ormai la querela è diventata un’arma per intimidire i giornalisti, il meccanismo è semplicissimo, pensiamo che questa professione ormai è fatta in buona parte da giornalisti che non svolgono ufficialmente questo lavoro, che sono sottopagati, che sono precari, giovani, che sono all’inizio del loro lavoro, se sono in questa condizione e ho notizie delicate da pubblicare nei confronti di un personaggio eccellente, la prima cosa che faccio è accertare i fatti, poi scrivo queste cose, cosa succede in Italia? Che parte immediatamente una querela a prescindere che le cose che ho scritto siano vere o false, ormai le querele si fanno da un milione di Euro in su, uno può dire: ma sono sicuro di avere detto la verità, cosa mi importa? No, non è vero perché questo di obbliga per 4 o 5 anni, questa è la durata minima di una querela per diffamazione a pagarti gli avvocati, a partecipare alle udienze, è chiaro che è una sorta di intimidazione, un’arma che immediatamente diventa operativa, un’arma preventiva che i personaggi eccellenti si dotano attraverso i loro avvocati, in questo modo cosa ottengono? Che magari tra 5 anni vinco anche questa causa, però in questi 5 anni non ho più scritto niente delle cose che avevo accertato, questo è il meccanismo veramente perverso che blocca anche la libertà dell’informazione in Italia, qui siamo ben al di là dei rischi di libertà, siamo già in uno stato in cui la libertà è negata se questo è il meccanismo, se la querela è diventata un’arma contro la libertà di informazione, un meccanismo è veramente molto semplice.
La speranza dei familiari di Federico è che dopo questo caso non solo e non tanto non succeda più, ma che a chi potesse succedere, sia fornito uno strumento che prima non c’era, il 25 settembre sarà il quinto anniversario della morte di Federico Aldrovandi, a Ferrara si riuniranno le famiglie dei casi simili, sopraccitati e fonderanno un’associazione, un’associazione non contro qualcosa, ma per la tutela dei diritti delle persone che hanno subito abusi di potere per offrire sostegno psicologico e legale perché le modalità di oppressione e di pressione contro queste famiglie sono sempre state lo stesso e questo credo sia anche un segnale di speranza, un modo per guardare avanti, se il documentario, il film ha contribuito minimamente a questo processo, credo che l’obiettivo in buona parte sia stato raggiunto.
Spero che questo succeda e il tentativo è quello di, proprio per questo, far vedere il film a quante più persone possibile, devo dire che le risposte fino adesso sono state quello sorprendenti e è questa anche la testimonianza di come oggi l’informazione si sia estesa, passi attraverso canali non ufficiali, attraverso la rete che un tempo erano impensabili, oggi c’è una raccolta di firme per chiedere al servizio pubblico di trasmettere in orario non da dalle 2 alle 3 di notte questo documentario, non so se questo accadrà, non sono io a doverlo dire, fosse per me lo trasmetterei 24 ore su 24 su tutte le reti, ma non sono io a dover dire questo.
Spero che questo serva a formare delle coscienze e a contribuire un minimo a un processo di trasparenza che ancora in Italia non c’è all’interno degli apparati dello Stato e delle forze dell’ ordine. Trovo che le dichiarazioni e le cose dette da Bondi negli ultimi giorni siano paradossali e fortemente sottovalutate dal mondo politico italiano, abbiamo un Ministro della Cultura, non un privato cittadino, che prima decide di non andare al Festival di Cannes perché dice che c’è un film, quello della Guzzanti che non gli piace, un bambino isterico che punta i piedi e dice: no, non ci vado perché è un film che non mi piace, ma cosa c’entra? Non vado a una mostra perché c’è un quadro che non mi piace, ma tu sei un Ministro della cultura, non sei un cittadino, poi il film ti può piacere o non piacere… succede di peggio, non va neanche a Venezia, un Ministro della Cultura che non si presenta alla mostra del cinema di Venezia mi sembra il Papa che non celebra la messa di Natale perché c’è un cardinale che non gli sta simpatico, dopodiché dichiara il Ministro che il prossimo anno deciderà lui, il Presidente della Giuria, quindi a quel punto propongo al Ministro Bondi che si faccia il Festival di Venezia a casa sua, che si scelga i film, sicuramente non questo, che si premi quello che vuole che vinca il Leone d’Oro perché credo che queste cose in Italia siano veramente incredibili, adesso non so se il Ministro Bondi sia capace di emozionarsi, se potrà mai vedere questo film, glielo auguro, se lo guardi poi mi dica se mi dà finalmente questo visto di censura, grazie Ministro!”

http://www.beppegrillo.it/2010/09/aldrovandi_in_l/index.html?s=n2010-09-23

PISTA MASSONICA NEL CRAC PARMALAT

Spunta la pista massonica a Parma un dossier su Mutti

MILANO – Mancava solo l’impronta della massoneria, per rendere il pasticcio della Parmalat un riassunto quasi perfetto della italian way alla criminalità economica. Ed ecco la tessera che mancava. Sta in un plico partito a metà della scorsa settimana dalla Procura della Repubblica di Milano per Antonella Ioffredi e Silvia Cavallari, i due pm emiliani titolari dell’ indagine sul gruppo di Calisto Tanzi. Nel plico, il resoconto di una perquisizione eseguita nell’ abitazione e negli uffici di un personaggio che finora nelle cronache sul crac Parmalat era entrato solo di striscio: Mario Mutti, imprenditore di lungo corso, già direttore generale della Federconsorzi, buon amico di Silvio Berlusconi (che lo piazzò nel 1989 alla guida della Standa e poi lo inviò in Spagna come proconsole del gruppo Fininvest) e oggi patron di un’ azienda finita gambe all’ aria, la Tecnosistemi. Mutti è indagato per bancarotta fraudolenta da due pm milanesi, Laura Pedio e Luigi Orsi. Ed è dalla perquisizione a suo carico che saltano fuori documenti di impronta inequivocabilmente massonica. Mutti è un “grembiulino”, come si dice in gergo. E non solo. Il suo nome compariva nelle liste di Stay behind, ovvero della rete Gladio, l’ organizzazione segreta creata dall’ Alleanza atlantica negli anni Sessanta per scatenare la guerriglia in caso di presa del potere comunista in Italia. La Guardia di finanza, quando perquisisce la casa di Mutti, trova anche documenti di Gladio, e anche questi finiscono insieme alle carte del Grande oriente nel plico inviato a Parma. Ma non si tratta solo di folklore o di curiosità. Perché tra le carte sequestrate a Mutti ce ne sono alcune che documenterebbero con dettagli preoccupanti l’ intreccio tra i due capitomboli finanziari. Un dettaglio, su tutti, unisce i dissesti di Parmalat e Tecnosistemi all’ altro grande buco di questi mesi, l’ affare Cirio. Un dettaglio il cui senso è ancora tutto da interpretare. Sia Cirio sia Parmalat sia Tecnosistemi hanno robusti interessi in Brasile. E tutte sono rappresentate in Brasile dalla stessa persona: Giampaolo Grisendi, il manager indicato da Fausto Tonna, nelle sue confessioni, come il regista delle operazioni che segnarono l’ inizio dei guai di bilancio per il gruppo di Collecchio. Oggi le filiali locali delle tre società sono andate gambe all’ aria, e un magistrato di San Paolo, Carlos Henriques Abrao, ipotizza che dietro a questo scenario di finanza allegra e di fallimenti ci sia un corposo flusso di riciclaggio di denaro sporco. In Italia, d’ altronde, le piste del massone Mutti e del cattolicissimo Tanzi hanno iniziato a incrociarsi già anni fa, quando Parmalat decise di sbarcare in Borsa: l’ operazione passò attraverso una società di Mutti, la finanziaria Centro Nord, che si fuse con Parmalat. Mutti è stato fino al 1998 consigliere d’ amministrazione di Parmalat. Parmalat ha posseduto fino all’ anno scorso una quota di Tecnosistemi. Partecipazioni incrociate che denotano, se non altro, sintonia d’ intenti. E anche dopo l’ uscita dal Cda di Parmalat Mutti ha continuato a fare affari con Tanzi: insieme i due detengono una parte delle azioni della Aranca, una società palermitana che produce succo di agrumi, sui motivi reali della cui acquisizione hanno parlato con i pm alcuni ex collaboratori di Tanzi. La Tecnosistemi di Mutti – che oggi è in amministrazione straordinaria, cioè tecnicamente fallita – era finita sui giornali un paio d’ anni fa, quando Mutti aveva realizzato una joint venture assai chiacchierata con l’ Enav, l’ ente pubblico di assistenza al volo. Intercettando i telefoni dei vertici Enav (nell’ ambito dell’ inchiesta sulla strage di Linate) la Procura milanese aveva scoperto che Mutti era legato a filo doppio ai vertici lombardi di Forza Italia. Ne erano nate una serie di interrogazioni parlamentari e l’ affare era naufragato. 

Luca Fazzo e Marco Mensurati (Repubblica — 15 febbraio 2004   pagina 13   sezione: ECONOMIA)

Parmalat, crac annunciato:¨Fallita già degli Anni 80¨

Vorrebbero farci creedere con buona pace dei risparmiatori gabbati che la “banda dei ragionieri di Collecchio” per anni è riuscita a prendere per il naso società di revisione, società di rating, banche nazionali e internazionali, analisti finanziari, fondi di investimento, Consob e la “ignara” magistratura

Ed è così che il braccio della legge e dell’economia corrotta che la controlla si abbatte sulla Parlamat con oltre 20 anni di ritardo, rispetto al crac annunciato, previdibile secondo gli analisti già dagli anni ’80, onde mettere in campo la solita sceneggiata secondo cui la magistratura “solertemente” fa la sua parte (nella commedia), in difesa dei cittadini e della legalità.

Il 17 dicembre 2003 la Bank of America fa sapere a un’Italia imbambolata dalle menzogne e dai numeri, che il conto corrente intestato a Bonlat presso la sede di New York non esiste. Non c’è. Non c’è mai stato (forse, come vedremo). Come non ci sono i 3, 95 miliardi di euro che avrebbero dovuto esserci a sentire gli amministratori della Parmalat e i revisori dei bilanci.       E’ il sorprendente, straordinario, inaspettatissimo schianto dell’ottavo gruppo industriale italiano. Dieci giorni dopo. 27 dicembre 2003. Sono le otto della sera. Milano. Un investigatore della Guardia di Finanza chiede a un signore ingobbito ma sorridente, reduce da sette giorni in giro per il mondo (Parma, Lisbona, Fatima, Lisbona, Madrid, Quito e Guayaquil ? in Ecuador ? Madrid, Zurigo, Milano, Collecchio): ¨è lei, il dottor Tanzi?¨. Calisto Tanzi trova la forza (o l’avventatezza) di fare ancora un mezzo sorriso e ciao ciao alle telecamere prima di infilarsi nell’auto degli investigatori e trasferirsi nel carcere di San Vittore. Novantauno giorno dopo. 17 marzo 2004. Procura di Milano. I pubblici ministeri appaiono stanchi del tour de force, ma alquanto soddisfatti. Ancora 24 ore e sono in grado di chiedere il giudizio immediato contro Calisto Tanzi, i manager di Collecchio, i dirigenti delle sedi estere della Parmalat, i revisori ¨primari¨ (Deloitte) e ¨secondari¨ (Grant Thornton), i ¨controllori¨ (internal auditors), e tre dirigenti di Bank of America, l’avvocato d’affari Gianpaolo Zini e, infine, come ¨persone giuridiche¨ Bank of America, Deloitte e Gran Thornton. Ipotesi di reato: aggiotaggio, ostacolo alla Consob e concorso nel falso dei revisori. Il reato di aggiotaggio è disciplinato dall’art. 501 del codice penale: ¨Chiunque, al fine di turbare il mercato interno dei valori o delle merci, pubblica o divulga notizie false, esagerate o tendenziose o adopera altri artifici atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo dei valori ammessi nelle liste di borsa è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da uno a cinquanta milioni di lire?.¨. Dicono in Procura: ¨Sarà un processo senza storia perché gli imputati, da Calisto Tanzi al vero dominus finanziario della società Fausto Tonna, hanno confessato e dimostrato di aver falsificato i bilanci, deformandone le poste, occultandone le perdite, inventato di sana pianta liquidità inesistenti¨. A giudicare dalle facce rassegnate degli avvocati delle difese i pubblici ministeri non esagerano: l’esito del giudizio appare molto prevedibile. Tira un sospiro di sollievo soltanto Gian Piero Biancolella, avvocato di Tanzi. Il patron di Collecchio, seduto accanto agli uomini di Bank of America, intravede una possibilità di poter ridimensionare le sue responsabilità. Da Milano a Parma. Qui i pubblici ministeri ipotizzano contro Tanzi & soci la bancarotta fraudolenta, la truffa aggravata, il falso in bilancio.
Come a Milano, i procuratori non hanno incertezze sulla conclusione del processo. ¨Le distrazioni di denaro dalle casse della Parmalat sono dimostrate per tabulas e di conseguenza la truffa e il falso bilancio. Contiamo di andare a giudizio entro giugno¨. Dicembre 2003/Giugno 2004. In soli 180 giorni, indicando responsabilità e assegnando colpe, la giustizia italiana offre una (prima) conclusione al crac industriale e finanziario più clamoroso della storia italiana, un default pari a 14,4 miliardi di euro (quasi 28 mila miliardi di lire), lo 0,7 per cento del nostro prodotto interno lordo. Anche in quest’ultimo atto della Parmalat, come in molti degli atti precedenti, il padrone della scena (e della sceneggiatura) è il ragioniere Fausto Tonna. Tanzi (pare) gliel’ha lasciata volentieri. Gli interrogatori di don Calisto sono sempre zoppicanti, monchi di circostanze e punti fermi. Si sviluppano come un tormentone. Di questo tipo: ¨E’ vero, con promissory notes verso terzi, cambiali finanziarie insomma, abbassavamo l’indebitamento delle società, ma per i dettagli di questa o quella operazione dovete chiedere a Tonna, lui sa tutto? E’ vero, per aumentare l’attivo di Bonlat abbiamo fatto degli swaps con il fondo Epicurum che avevamo creato apposta. No, non ricordo quanti. Uno, forse tre, forse quattro? Dovete chiedere a Tonna, queste cose le sa lui?¨. Alter ego e doppio di Calisto Tanzi. Arrogante. Irascibilissimo. Decisionista. Consapevole di sé fino al punto da coltivare, con la nipote del patron Paola Visconti, l’ambizione di ¨scippare¨ al ¨padrone¨ addirittura la società (come è emerso in alcuni interrogatori), Fausto Tonna indica ai pubblici ministeri di Milano e di Parma la strada da percorrere e undici tappe da seguire e vagliare. Undici come ¨i protocolli¨ per creare dal nulla voci attive nel bilancio e cancellare nel nulla le perdite. Gli interrogatori di Fausto Tonna, le sue visite negli uffici della Parmalat in via Oreste Grassi a Collecchio, diventano così il canovaccio dell’inchiesta e l’intreccio della pubblica ricostruzione della truffa. Il ¨servo padrone¨ di don Calisto ha in mano tutti i fili dello spettacolo, quali che siano spettatore e attore. Delle magie finanziarie che hanno tenuto in vita e sui mercati Parmalat, conosce i segreti e il doppio fondo. Dell’inchiesta giudiziaria è il pivot. E’ consapevole di poter dire, tacere o dissimulare piegando nella direzione voluta le indagini. Soprattutto sa di poter rallentare o accelerare il gioco del disvelamento. Quanto tempo occorrerebbe ai pubblici ministeri per decrittare i ¨protocolli¨ della falsificazione dei bilanci, ammesso che senza il suo aiuto l’impresa riesca? E quanto ancora sarebbe il tempo necessario agli investigatori per correre in tre continenti, dove è presente Parmalat, per rintracciare le prove della truffa e le ragioni del crack? Fausto Tonna regala preziosissimo tempo ai magistrati – non v’ha dubbio – e i magistrati, tra Milano e Parma, non stanno lì a tormentarlo più di tanto. Per il momento, anzi, gliene sono addirittura grati.
Chi con entusiasmo (¨La collaborazione di Tonna all’inchiesta ha avuto anche un segno etico¨, si sente dire). Chi con più diffidenza e maggiore pragmatismo: ¨Sappiamo che Tonna non ci ha detto tutto. Come sappiamo che la sua confessione non scioglie il garbuglio. Semplicemente stiamo facendo di necessità virtù perché non abbiamo le forze né il tempo per dare una risposta a tutte le domande dell’affare e ci accontentiamo, dobbiamo accontentarci delle risposte che ci permettono di istruire il processo con solide fonti di prova¨. Buona ragione, perché economica, se si ha la toga sulle spalle. Non una ragione adeguata se si vuole capire che cosa è accaduto a Collecchio. Come è potuto accadere? Domande essenziali per comprendere dove il ¨sistema¨ finanziario (con i suoi controlli e le sue istituzioni e le sue regole) non ha funzionato. Il tableau disegnato da Fausto Tonna, nella lunga confessione, è minimalista fino al grottesco. Una banda di ragionieri di Collecchio per anni prende per il naso società di revisione, società di rating, banche nazionali e internazionali, analisti finanziari, fondi di investimento, Consob e soprattutto risparmiatori, con pochi tratti di penna, un computer e uno scanner. E’ uno scenario che, accanto al buon senso, lascia in un canto troppe questioni. Non solo quella che naturalmente fiorisce sulla bocca di tutti: come è potuto accadere? Ma soprattutto, se Tonna non la racconta tutta, quella essenziale: che cosa è accaduto; da quanto tempo accadeva, e perché? Altri interrogativi ne sono il necessario corollario: chi è davvero Calisto Tanzi? Di quali protezioni ha goduto? Di quali capitali si è avvantaggiato per sopravvivere, e come?  ¨Chi è davvero Calisto Tanzi?¨ pare la prima domanda da affrontare. Cominciamo con definirlo furbissimo, e non per (non solo per) i trucchi dei bilanci della Parmalat. Tanzi è un furbissimo soprattutto perché ha fatto lievitare di sé, intorno a sé, su di sé, un’immagine efficacissima per il suo marketing personale e vincente per il marchio dell’azienda di famiglia. Religiosissimo. Morigeratissimo. Perbenissimo. Attaccatissimo alla moglie e ai figli (che poi curiosamente coinvolgerà nella catastrofe e rovinerà). Modernissimo imprenditore: non per caso, si diceva, Parmalat è l’unico marchio ¨globale¨ del Paese. Unicamente interessato ai prodotti delle sue fabbriche, e a null’altro. (Null’altro, se si esclude il football). Bene, ma era, è davvero così Calisto Tanzi? Per dirne una. Leggi che, nella cena di celebrazione in Italia dei cento anni della Chase Manhattan Bank, lo avevano sistemato alla sinistra di David Rockfeller che aveva alla sua destra Gianni Agnelli. Quella seggiola accanto al banchiere americano lo assegna a un empireo industriale, ne testimonia il successo e il prestigio personale, la collocazione in un ambito internazionale che nessun industriale italiano ha mai toccato, se non l’Avvocato e per via diciamo così ¨dinastica¨. Scopri poi, però, che non è vero niente, che quella storia è una delle tante favolette della storia di Tanzi. Chi c’era quella sera ricorda: ¨La cena è del 1994 e Tanzi non era seduto né alla destra né al tavolo di Rockfeller, per l’ovvia ragione che nessuno è tanto matto o scortese da far sedere chi non parla una parola di inglese accanto a chi parla solo inglese. Sicuramente Tanzi sedeva a uno tavolo importante, ma non accanto a Rockfeller. Quel che è certo è che la cosa non sembrò allora dare a Calisto alcun brivido o gratificazione. E’ un pessimo conversatore e le occasioni mondane in società servivano soltanto ad appagare la sua ansia di offrire un’immagine di sé e del suo nome. Non aveva alcun interesse a conoscere Rockfeller, né era curioso di scambiarci due parole¨. Così era fatto, così è fatto don Calisto. ¨Apparire¨ è apparso a Tanzi sempre più essenziale che ¨essere¨. Apparire ¨liquido¨, molto ¨liquido¨ era, poi, il primo degli imperativi della sua strategia. Liquido, Tanzi? Anche questa era una bufala. Parola di un banchiere: Gianmario Roveraro, che organizzò per Parmalat la quotazione in borsa alla fine del 1990. ¨La collocazione delle azioni – racconta Roveraro (prima di venire ammazzato) – aveva avuto, prima del nostro arrivo, qualche difficoltà per un motivo noto a tutti: Tanzi non pagava i fornitori. Lo sapevano tutti tra l’Emilia e la Lombardia, così le banche erano sul ¨chi vive¨ e prudenti i risparmiatori¨. Tanzi non pagava perché le casse della Parmalat erano stente, perché – in quel 1989 – era già ridotto maluccio. Tanto che, appena due anni dopo la quotazione in borsa, è costretto a chiedere, con un secondo aumento di capitale, ancora denaro fresco al mercato. L’aumento di capitale è di 430 miliardi. Per la metà lo avrebbe dovuto conferire la famiglia di Collecchio. Ma lo fece e, se lo fece, dove prese il denaro? ¨Mah! – sospira Roveraro – Allora Tanzi mi disse che aveva attinto al patrimonio della moglie¨. Per 215 miliardi? ¨Così mi disse e io gli credetti anche se cominciai ad avere dei dubbi quando, subito dopo, chiese a me come all’avvocato Sergio Erede e a Renato Picco (Eridania-Ferruzzi) di lasciare libero il posto nel consiglio d’amministrazione che da quel momento è stato sempre composto da familiari di Tanzi o da dipendenti della Parmalat¨. Le manipolazioni di bilancio cominciano in quell’anno, dunque, con le poste che la famiglia doveva conferire all’aumento di capitale. ¨E’ – scrivono i pm di Milano – riscontrare oggettivamente che la contabilità del gruppo Parmalat è stata totalmente falsificata quanto meno dal 1990¨. A voce un pubblico ministero dice di più: ¨Saremo in grado di dimostrare che, già alla fine degli anni Ottanta, la Parmalat era tecnicamente fallita¨. Tecnicamente fallita alla fine degli anni Ottanta. Si sa come don Calisto si salvò in quell’occasione. Ricorse ai buoni uffici di Giuseppe Gennari, un finanziere tanto oscuro quanto aggressivo che gli fu presentato da Mario Mutti, gladiatore dello ¨stay behind¨ e massone.
Meno di pubblico dominio è che la società di Gennari, la Finanziaria Centronord (Fcn), come ricorda Florio Fiorini che vi investì una parte della sua liquidazione dell’Eni, fosse ¨più o meno una società di strozzo che erogava modesti prestiti a piccoli imprenditori, a commercianti e artigiani scontando i crediti presso il Monte dei Paschi di Siena dov’era direttore generale Carlo Zini che la Fcn aveva fondato e poi abbandonato¨. Sarà per questi nomi e questi metodi e questa storia che il 1989 e il 1990 sono gli anni più oscuri dell’avventura di Tanzi. In una delle principali merchant bank del tempo si ritenne (lo ha ricordato Marco Vitale), che la società fosse ¨opaca, la natura dei nuovi capitali entrati ambigua, la fiducia nell’imprenditore Tanzi bassa¨. Non si comprende infatti con quali risorse Tanzi sia entrato, con la finanziaria di famiglia (la Coloniale), in Fcn e con quali quattrini Gennari abbia potuto fare ingresso nella Coloniale prima e in Parmalat poi (fino a possederne, a sentir lui, più del 50 per cento). Un uomo d’affari di Milano seppe, qualche tempo dopo, che ¨fu il gran maestro della massoneria Armando Corona a salvare il cattolicissimo Tanzi¨. Non ci mancava che questa. La massoneria. Il rumor, senza conferma, si diffonde. E ingrassa se si prende per buona la convinzione che il Monte Paschi fosse controllato dai massoni toscani e che a mediare tra Tanzi, la banca di Siena e Gennari fosse, come s’è detto, il massone Mario Mutti. Guai però a parlare di massoneria con Carlo Zini che, dei Paschi, era in quegli anni provveditore (direttore generale). ¨Ma quale massoneria – dice oggi – Che bisogno della massoneria aveva Tanzi! In quel tempo era la politica a governare il credito. La deputazione del Monte dei Paschi era composta con il bilancino. Otto membri. Tre alla Dc, due al Pci e due al Psi, uno alternativamente al Psdi e al Pri. Il provveditore nominato dal ministro del Tesoro. Tanzi non aveva bisogno dei massoni, gli era sufficiente l’amicizia dei politici. Anzi, a Siena era sufficiente saperlo amici dei politici¨. Così si spiega perché, nella primavera del 1989, la merchant bank dei Paschi (la Centrofinanziaria) organizzò in gran fretta alla Parmalat un prestito di 120 miliardi a patto che Tanzi si liberasse della disastrosa proprietà di Odeon Tv e si impegnasse, in caso di mancato rimborso entro tre anni, a consegnare alle banche il 22 per cento dell’azienda. ¨Che – ricorda oggi Zini – eravamo già pronti a cedere alla Kraft¨. Ancora debiti. Ancora con il fiato sospeso. Tuttavia Tanzi ce la fa. Ancora una volta, non si sa come. ¨Fu salvata – ha scritto Marco Vitale (Corriere della Sera) – dalla brillante operazione condotta dalla Akros di Gianmario Roveraro, mobilitando capitali imprenditoriali non chiarissimi e facendo ricorso al mercato¨. C’è chi sostiene che, fallito il tentativo di Gennari appoggiato dal Monte dei Paschi, sia stata l’Opus Dei a tirare fuori dai guai don Calisto.
E, in effetti, tutti gli uomini chiave dello sbarco di Parmalat in Piazza Affari sono dell’Opus. Lo è Gianmario Roveraro, poi misteriosamente “giustiziato” . Lo è Ettore Gotti Tedeschi che introduce Tanzi da Roveraro. E’ stato scritto che per ottenere i favori dell’Opus, don Calisto furbissimo abbia organizzato addirittura ¨un circolo di preghiera¨. ¨Posso dire – taglia corto, gentile e infastidito, Roveraro – che Calisto Tanzi non ha mai partecipato a iniziative dell’Opus Dei né a quelle collettive di dottrina né a quelle individuali di ascesi. E comunque l’Opus non c’entra nulla in questa storia e non si occupa di queste cose. La finanza non è cattolica né laica o massonica: è semplicemente finanza¨. Prendiamone atto e annotiamo qualche prima conclusione. Per i pubblici ministeri, che si preparano a portare in giudizio Tanzi, a soli tre mesi dal crac, Parmalat è ¨tecnicamente fallita¨ già alla fine degli Anni Ottanta. I capitali che vi affluiscono in quella stagione (consentono la quotazione alla Borsa di Milano) sono, nell’opinione della comunità finanziaria, ¨oscuri e non chiarissimi¨. A cavallo del 1990, la formidabile politica di acquisizioni all’estero aggrava ancora di più l’indebitamento di Calisto Tanzi. Fausto Tonna manipola i bilanci, nasconde le perdite, gonfia gli attivi. Tutto indisturbatamente per ulteriori 13 anni, sino ai tempi più recenti con un tracollo che sfiora  i 15 miliardi di euro!

 

STRAGE DI BOLOGNA. STRAGE DI STATO.

A 30 anni dalla strage di Bologna è ormai chiaro (quasi) a tutti che si è trattato dell’ennesima strage di Stato, come quelle che l’hanno preceduta a Milano e a Brescia (P.zza Fontana e P.zza della Loggia).

La strage di Bologna si inserisce infatti in un momento molto difficile della storia italiana degli ultimi cinquanta anni. Siamo nei cosiddetti “anni di piombo”, quando il Paese è attraversato da una crisi economica e da forti conflitti sociali. In questi anni nasce e si sviluppa in Italia il terrorismo politico, l’azione politica violenta di gruppi estremisti di destra e di sinistra, che agiscono al di fuori del normale confronto politico democratico e che, mediante la cd. “strategia della tensione” hanno l’obiettivo di provocare la crisi delle strutture democratiche dello Stato. Questa strategia si realizza attraverso una serie di attentati contro persone che svolgono in qualche modo un ruolo attivo nella vita democratica del Paese (magistrati, uomini politici, rappresentnanti delle forze dell’ordine, professori universitari), ma assume anche la forma di vere e proprie stragi nelle piazze, nelle banche, sui treni che coinvolgono anche semplici cittadini. Per la strage di Bologna vengono accusati e condannati all’ergastolo, dopo molti e lunghi processi due esponenti dell’estremismo di destra: Francesca Mambro e Valerio Fioravanti che, ancora oggi, stanno scontando la pena. I due terroristi, che hanno ammesso il loro coinvolgimento diretto in altri fatti di sangue, per quanto riguarda Bologna si sono sempre proclamati innocenti, adombrando l’intervento dei servizi segreti. Anche questa strage, dunque, è stata considerata come un atto inserito nella strategia della tensione che ha caratterizzato gli anni ‘70 e i primi anni ‘80. Ma con il passare del tempo numerose ipotesi sono state avanzate riguardo il possibile coinvolgimento di elementi diversi dall’estremismo politico in questo come di altri tragici eventi che hanno insanguinato quel periodo. Alcune di queste ipotesi sono poi diventate “verità giudiziarie”: nel corso dei processi per la strage di Bologna, ad esempio, sono stati accertati e confermati con sentenza i tentativi di alcuni elementi cosiddetti “deviati” dei servizi segreti italiani di depistare le indagini dei magistrati per evitare che fosse fatta piena luce su quello che era successo. Perché questi depistaggi? Anche a questa domanda non è ancora possibile dare una risposta certa e il comportamento degli ultiimi giorni dei più alti rappresentanti delle nostre istituzioni che hanno disertato la cerimonia, confermano l’arroganza del potere e l’assoluta assenza di volontà da parte dello Stato Italiano di raggiungere la verità e di rendere giustizia alle vittime e ai loro parenti. Di seguito pubblichiamo la ricostruzione della vicenda politico-giudiziaria a cura della Associazione dei famigliari delle vittime della strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980.  

IL 2 AGOSTO 1980 ALLA STAZIONE DI BOLOGNA ESPLODE UNA BOMBA CHE CAUSA 85 MORTI 200 FERITI
L’avvio delle indagini trovò un incredibile iniziale ostacolo nel tentativo, protrattosi per 24 ore, di mettere in dubbio la natura dolosa dello scoppio, infatti vennero ipotizzate cause fortuite quali lo scoppio di una caldaia.
Si tentò, da un lato di evitare reazioni della piazza e dall’altra, come era successo per la strage di Piazza Fontana, di ritardare il rinvenimento di tracce utili.
L’intervento della Procura della Repubblica di Bologna fu tempestivo e l’approccio serio: gli investigatori misero subito a fuoco le protezione di cui il frastagliato mondo del terrorismo eversivo di destra aveva goduto e continuava a godere a Roma malgrado la città fosse stata sottoposta negli ultimi due anni ad una escalation di violenze e di attentati (di particolare significato l’attentato al C.S.M. e l’uccisione del Giudice Amato).
Già alla fine di agosto comincia ad essere abbozzata una ipotesi accusatoria indirizzata anche verso ideatori e depistatori, ma il passaggio dell’inchiesta dalla Procura all’Ufficio Istruzione segna una sorta di inversione di tendenza: l’indagine comincia ad essere spezzettata. Viene inviata a Roma per competenza l’indagine sull’associazione eversiva. Si fanno più pesanti i depistaggi.
Eppure la strage era stata preannunciata anche un mese prima (colloquio tra Rinani e Presilio), negli ambienti dei servizi se ne troveranno addirittura tracce scritte (rapporto Spiazzi) – colloquio tra Amos Spiazzi e Ciccio Mangiameli –omicidio Mangiameli. Il giudice Amato,nelle audizioni del 25 marzo e 13 giugno 1980, davanti al CSM, aveva segnalato la pericolosità dinamitarda dei gruppi eversivi di destra (audizioni del 25 marzo e 13 giugno 1980)

  • Depistaggi : al momento dei primi arresti avvenne un incontro tra Licio Gelli (Gran Maestro della loggia massonica P2) e Elio Cioppa (Alto dirigente del S.I.S.M.I.) ‘State sbagliando tutto, la pista è quella internazionale’:
    In quel momento iniziano contrasti feroci all’interno del tribunale, in parte fomentati da pubblicazioni di stampa, che avvalorano tesi e avvenimenti fantasiosi tendenti a screditare i giudici che avevano svolto la prima parte dell’indagine, avvalorando poi un disegno massonico internazionale con l’obiettivo di portare i giudici su piste internazionali estremamente inverosimili e fantasiose. ‘IL GRANDE LABIRINTO’ giornalista PAMPARANA.
    Tutto ciò causa grande sconcerto nell’opinione pubblica e nei familiari delle vittime.
  • L’1 Giugno 1981 si costituisce
    L'”ASSOCIAZIONE TRA I FAMILIARI DELLE VITTIME DELLA STRAGE ALLA STAZIONE DI BOLOGNA DEL 2 AGOSTO 1980″ con lo scopo statutario di : “OTTENERE CON TUTTE LE INIZIATIVE POSSIBILI LA GIUSTIZIA DOVUTA“.
    Al momento della costituzione vi sono 44 persone, poi si associano in 300.
    Ogni 4 mesi l’Associazione va in tribunale ad incontrare i giudici, subito dopo convoca una conferenza stampa per far conoscere lo stato delle cose e la sua opinione.
    Momenti di grande tensione che i familiari hanno sempre vissuto con grande dignità non lasciandosi portare in giro da falsi consiglieri.
    Una delle cause, per cui i processi nelle altre stragi si sono chiusi con un nulla di fatto, è da ascriversi ai depistaggi che hanno avuto successo e ai collegi di difesa che si sono divisi affermando, molte volte, convinzioni di singoli avvocati. I depistaggi arrivarono a volte a provocare perfino la divisione all’interno dei collegi di difesa delle parti civili.
    L’Associazione assume posizioni molto dure nei confronti di chiunque appaia sottovalutare la gravità della mancata risposta giudiziaria all’ansia dell’accertamento della verità.
  • Il 6 Aprile 1983 assieme alle Associazioni delle stragi di Piazza Fontana, Piazza della Loggia, dell’Italicus costituisce a Milano l’Unione dei Familiari delle Vittime per Stragi
  • All’inizio del 1984 inizia la raccolta di firme in calce alla proposta di legge di iniziativa popolare per : ‘L’ABOLIZIONE DEL SEGRETO DI STATO NEI DELITTI DI STRAGE E TERRORISMO‘. Consegnata all’On. Francesco Cossiga, allora Presidente del Senato, il 25 LUGLIO 1984, corredata da circa 100.000 firme, la legge deve ancora essere discussa dal nostro Parlamento. ( oggi 28.2.1997)
  • Il 19 Gennaio 1987 inizia il processo, i giudici svolgono un
    meticoloso lavoro di analisi degli antefatti teorici partendo dal Convegno dell’Istituto Pollio, la sentenza viene emessa l’11 Luglio 1988
    I condannati per depistaggio sono tutte persone iscritte a logge massoniche e Licio Gelli è, come si è detto, il Gran Maestro della loggia massonica P2. Il Generale Pietro Musumeci e il Colonnello Giuseppe Belmonte sono alti ufficiali del S.I.S.M.I. servizio segreto militare
    Nell’estate del 1989 l’avvocato di parte civile Roberto Montorsi incontra Licio Gelli e passa dalla parte degli imputati tradendo la fiducia che gli era stata accordata.
  • Subito si scatena una campagna che cerca di squalificare tutto il lavoro dei magistrati, dell’Associazione e del Collegio di Parte Civile.
    Vi fu una campagna di stampa martellante che per tutta l’estate fino all’apertura del processo d’appello ( ottobre 1989), prendendo le difese dell’avvocato, considerava l’inchiesta frutto di un teorema, e di un intrigo del partito comunista.
    L’Associazione fu accusata di fare un’attività di spionaggio cercando di far passare come illecita la sua attività di informatizzazione degli atti del processo.
    Questa fu la preparazione del processo d’Appello, il clima di tutto il procedimento risentì di quella situazione.
  • Il processo d’Appello iniziò nell’ottobre 1989 la sentenza fu emessa il 18 Luglio 1990. TUTTI ASSOLTI DALL’ACCUSA DI STRAGE.
    Da segnalare: il Procuratore Generale aveva chiesto l’appesantimento delle pene.
    La sentenza fu definita dall’Associazione una Provocazione.
    Immediata presa di posizione dell’M.S.I. che chiese la cancellazione dalla lapide presso la stazione di Bologna della scritta ‘Strage Fascista’
    Il Presidente del Consiglio Andreotti si disse d’accordo ed il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga chiese ufficialmente scusa all’M.S.I..
  • Il 2 Agosto 1990 il Senato approva una legge che porta lo stesso titolo di quella presentata dall’Unione ‘Abolizione del segreto di stato nei delitti di Strage e terrorismo’, ma nulla ha a che fare con quella, anzi peggiora quella esistente.
  • Il 12 Febbraio 1992 le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione emette la sentenza.
    IL PROCESSO D’APPELLO VA RIFATTO !
    La Corte ha sentenziato che la sentenza d’Appello è:
    – ILLOGICA
    – PRIVA DI COERENZA
    – NON HA VALUTATO IN TERMINI CORRETTI PROVE E INDIZI
    – NON HA TENUTO CONTO DEI FATTI CHE PRECEDETTERO E SEGUIRONO L’EVENTO
    – IMMOTIVATA O SCARSAMENTE MOTIVATA
    – IN ALCUNE PARTI I GIUDICI HANNO SOSTENUTO TESI INVEROSIMILI CHE NEPPURE LA DIFESA AVEVA SOSTENUTO.
  • Inizio del 2° Processo d’Appello ottobre 1993
    CONFERMA DELL’IMPIANTO ACCUSATORIO DEL PROCESSO DI 1° GRADO.
    , termine 16 Maggio 1994
  • Il 12 giugno 1994 appare un’intervista della Mambro e Fioravanti sul Corriere della Sera; l’argomento era : ‘NOI ALL’ERGASTOLO LORO AL GOVERNO‘ si prendevano in considerazione le esperienze passate di alcuni esponenti di Alleanza Nazionale( Gasparri, Storace, Bontempo, Fini), rilevando il passato comune, la militanza comune, l’offerta di cariche elevate all’interno dell’M.S.I. in favore della Mambro.
    Circa un mese dopo viene fondato a Roma nella Sede dell’ARCI il comitato in difesa della Mambro e Fioravanti ‘E se fossero innocenti‘. Questo comitato a cui aderiscono intellettuali di tutte le estrazioni propone tesi che nulla hanno a che fare con la realtà processuale. Il materiale che in tribunale aveva fatto figure penose perché non supportato da nulla viene ora riproposto all’opinione pubblica per confonderla.
    Risposta immediata da parte dell’Associazione, viene stampato un libretto intitolato ‘Contributo alla Verità’ in cui vengono riportate le tesi del comitato confutate sulla base degli atti processuali e non con valutazioni sentimentali o ipotetiche.
    La campagna di disinformazione di questo comitato dilaga su tutti i giornali, le televisioni di stato gli concedono ampi spazi, le televisioni FININVEST dedicano almeno 3 trasmissioni di 2 ore altre televisioni ne ospitano costantemente alcuni esponenti di spicco.
    Cercano di far accreditare nell’opinione pubblica la tesi dei due capri espiatori.
  • Il 2 agosto 1995 il Senato approva di nuovo una legge che ha lo stesso titolo di quella proposta dai familiari delle vittime : ABOLIZIONE DEL SEGRETO DI STATO NEI DELITTI DI STRAGE E TERRORISMO, ma il contenuto prevede ancora la possibilità di porre il segreto di stato per quei reati.
  • Fine 1994: Viene nominato presidente della “Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi” il senatore Giovanni Pellegrino.
  • Alla fine del 1995 il senatore redige una pre-relazione stampata nel volume “Luci sulle stragi”: l’Assocciazione ne disapprova il contenuto.
  • Prima dell’inizio del processo in Cassazione gli imputati mettono in atto un ennesimo depistaggio. Richiesta di archiviazione del Giudice Giovagnoli su caso Sparti De Giglio
  • Il 22 Novembre inizia il processo in Cassazione, la sentenza viene emessa il 23 Novembre 1995.
    VIENE CONFERMATA NELLA SOSTANZA LA SENTENZA DEL 2° PROCESSO D’APPELLO.
  • Nel 1996 il senatore Pellegrino viene rieletto alla commissione e l’Associazione dirama un comunicato.
  • Il 18 giugno 1996 la Corte d’Appello di Firenze assolve Picciafuoco; il Procuratore Generale ricorre in Cassazione.
    La Cassazione assolve in via definitiva Picciafuoco
  • 2000: Esce il volume Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri con Giovanni Pellegrino, “Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro”, Einaudi, 2000. (considerazioni di Gianni Flamini)

Vicenda Ciavardini:

A cura dell’Associazione dei famigliari delle vittime della strage della stazione di Bologna del 2 Agosto 1980. Via Polese n.22 40122 Bologna     tel. ++39-51-253925 / fax ++39-51-253725     bologna@stragi.it
Copyleft ©: Se copiate, citate la fonte

LE SCHIAVE DELLA ROMAGNA

 

di Federico Formica e Matteo Marini

Guadagnano meno di mille euro al mese. Lavorano 14 ore al giorno, senza mai un turno di riposo. E pagano anche il pizzo ai mediatori che le portano in Italia.

La verità sulle “stagionali” negli alberghi fra Rimini e Cervia (21 giugno 2010)

Il tavolino è di quelli da giardino, di plastica bianca, a poco prezzo. Sopra la tovaglia color senape c’è il “Piccolo manuale informativo per i lavoratori stagionali, comunitari e non”: fotocopie di articoli di cronaca e accanto le tabelle con le tariffe aggiornate divise per categoria di hotel e mansioni. Di fronte c’è il cavalletto con le “civette”, anche queste bilingue, “informazioni sindacali” si legge. È da questo angolo quasi invisibile del corso di Gatteo a Mare che sono venute alla luce le testimonianze dello sfruttamento e della tratta dei lavoratori dall’Est Europa fino alle spiagge della Romagna.
La videoinchiesta Dalla Romania a Cesenatico: ecco come funziona la tratta
Quattro sere a settimana Sandra prende posto in via delle Nazioni, che divide Cesenatico da Gatteo a Mare, in quel breve tratto di costa rimasto sotto la provincia di Forlì-Cesena. È cominciato tutto quando lei, che ora lavora in un’industria che produce piadine, faceva la stagione come donna ai piani, a pulire le camere. Veronika, la sua collega romena le raccontò quanto prendeva al mese: 950 euro. Cinquanta euro meno di lei, ma lavorando il doppio. Un orario da schiava, 12 ore al giorno. Nei periodi di piena, come nella settimana di Ferragosto, anche di più. Così Sandra ha deciso di informare i lavoratori stagionali sui loro diritti, soprattutto gli stranieri che arrivano qui ogni anno ad aprile e che poi a settembre tornano a casa. Nei decenni del “boom”, fino alla fine del ‘900 parlavano sardo, calabrese, campano. Ora l’accento è quello dell’Europa dell’est. La maggioranza sono romeni, ma vengono anche da Moldavia e Polonia. Donne soprattutto, gli ingranaggi invisibili dell’enorme macchina del turismo di massa.  Con l’aiuto di Ercole Pappalardo, sindacalista della Filcams-Cgil di Cesenatico, si è documentata e in collaborazione con l’associazione Rumori sinistri, un collettivo che ha sede a Rimini, ha messo su il suo piccolo “ufficio”. I romeni che passano la sera, dopo una giornata interminabile fatta di pulizie, cucina, piatti e servizio ai tavoli, leggono l’invito nella loro lingua. Alcuni passano oltre perché non si fidano, altri si fermano e chiedono come possono fare per avere il sussidio di disoccupazione una volta terminata la stagione, oppure quanto dovrebbero prendere realmente di stipendio in base al loro orario di lavoro. Sandra mostra loro le tabelle salariali e la maggior parte delle volte li invita a procedere con una vertenza. Scrivendo su un foglietto il numero di cellulare di Ercole.
«Vedi, tu prendi 1.200 euro, ma lavori 13 ore, senza giorno libero», spiega a una ragazza, «Bene, se ci metti il giorno che non hai e gli straordinari che non ti pagano dovresti prenderne 3.500». Poi chiede loro di compilare una scheda, anonima, sulla quale registra i loro dati. Età, provenienza, anno di arrivo in Italia e stipendio. In due anni Sandra ha raccolto 245 testimonianze. La maggior parte sono donne romene, impiegate per le pulizie delle camere, servizio in sala o aiuto cucina. Quasi tutte hanno pagato per trovare un contratto in Italia. Prima dell’entrata della Romania nell’Unione europea le tariffe potevano arrivare anche a 1.000 euro. Ora pagano dai 400 ai 750 a degli intermediari che hanno contatti con gli hotel di tutta la Romagna, ma anche in Trentino per la stagione invernale.
Secondo uno studio dell’Osservatorio nazionale sul turismo di Federconsumatori, l’Emilia Romagna è la regione con le camere più economiche in Italia. Degli oltre 4.500 alberghi la metà è concentrata sulla costa. Ospitalità e divertimento a basso prezzo, che hanno permesso alla Riviera di reggere anche alla crisi. Ma è una competitività che pesa anche sulle spalle di queste persone.
La tratta. «Esistono delle agenzie che operano in Romania. Hanno depliant, cataloghi e organizzano i viaggi con pulmini che portano in Italia i dipendenti». È il direttore del Grand Hotel di Cesenatico, Luigi Godoli, a confermare l’esistenza di un sistema gestito da intermediari che dall’Est (non solo dalla Romania, ma anche da Moldavia e Polonia) procurano personale agli hotel della Riviera. «Noi abbiamo una persona, un italiano, che vive là. Ma non ci costa nulla. Immagino che prenda una percentuale sullo stipendio dei lavoratori. Credo sia una cosa normale».

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/le-schiave-della-romagna/2129327

Emilia Romagna

 

Prima di accingerVi a leggere i vari casi, pensate che si tratta di storie vere, per cui molti uomini sono morti e tante famiglie sono state distrutte dal dolore, senza ricevere alcuna tutela, da parte delle varie Autorità a cui fiduciosamente si erano rivolte. Pensate che non si tratta di casi isolati e non crediate che ciò che è capitato agli altri non possa, prima o poi, capitare, anche, a Voi od, a qualche stretto congiunto. Sarebbe il più grave errore che potreste commettere, dal quale genera l’indifferenza verso i mali della giustizia e su cui si fonda il dominio del male e della menzogna sulla Verità.

SABINA BONDINI

 

In calce la sintesi del caso giudiziario a cura dello Staff di Avvocati senza Frontiere.

La mia storia (Autobiografia di Sabina Bondini).

Nell’età dello sviluppo ho avuto una malformazione al seno di carattere estetico: un’asimmetria mammaria.
Il ginecologo mi consigliò di farmi visitare da un chirurgo estetico, il quale mi avrebbe potuta seguire durante l’adolescenza ed intervenire, se fosse stato il caso, alla fine dello sviluppo.

Nel 1985, avevo 15 anni, mi rivolsi al Dott. Poppi, primario del reparto di chirurgia estetica dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Il Dott. Poppi, al contrario del ginecologo, propose, invece, di operarmi subito, senza mettermi al corrente di cosa esattamente mi avrebbe fatto: del dolore fisico che avrei provato, delle cicatrici permanenti e delle possibili complicazioni.
Anzi, mi parlò di un “interventino” e mi descrisse risultati ottimali: “La prossima estate andrai al mare in topless!”.

Nel 1986 subii il primo intervento chirurgico in anestesia totale: avevo 16 anni.
Ci furono subito delle complicazioni, per rimediare alle quali il Dott. Poppi, nel giro di 2 anni, mi operò altre 4 volte, sempre in anestesia totale. Nonostante i ripetuti interventi, non riuscì a rimediare al danno iniziale ed il risultato fu ogni volta peggiore: mi sono ritrovata con lo stesso problema di diversità di volume tra i due seni, grosse cicatrici (la più grande è di 32 cm), corpi estranei dimenticati dentro e, addirittura, sono stata protagonista di un film dell’orrore, svegliandomi in sala operatoria durante l’intervento, vivendo così un “awarness”.

Alla fine di questi due anni di martirio, avevo allora 18 anni, decisi che non mi sarei più fatta mettere sotto i ferri dal Dott. Poppi.
Non volevo più sentir parlare di interventi chirurgici, al costo di restare con un seno inguardabile per tutta la vita.
Purtroppo, però, a causa del corpo estraneo, il problema diventò più serio: stavolta c’era di mezzo la salute e non l’estetica.
Per questo, nel corso degli anni, subii altri 5 interventi, tutti con anestesia totale, sempre per rimediare agli errori iniziali del dott. Poppi.

Nel 1988 ho denunciato il Dott. Poppi e l’ospedale Sant’Orsola di Bologna per il dolore fisico e psicologico che avevo subito e per i ripetuti errori. Ero giovane, figlia di gente comune e non avevo nè le conoscenze, nè la disponibilita finanziaria per permettermi un avvocato “onesto” che prendesse veramente le mie parti. Ero obbligata a propormi come una cliente che paga solo a cose concluse e non deve essere il loro cliente ideale visto che sono passati 17 anni e il processo non si è ancora concluso.
Il primo avvocato a cui mi sono rivolta, dopo qualche mese, mi propose di accettare la modica cifra di 10.000.000 delle vecchie lire. Ho subito pensato che voleva prendersi gioco di me. Oggi la mia salute non é più in pericolo anche se so che questa storia non é ancora finita perché, prima o poi, dovrò cambiare la protesi. Inoltre, le cicatrici sono troppo grandi e non esiste nessun intervento di chirurgia plastica che possa rimediarle, quindi, ho dovuto imparare a conviverci.
Anche se periti, avvocati, dottori e chirurghi mi hanno sempre dato ragione, la mia causa contro l’ospedale ed il dott. Poppi non si è ancora conclusa. A questo punto voglio riassumere sinteticamente i fatti più salienti: 10 interventi di chirurgia estetica fino ad oggi tutti sotto anestesia totale, e ben 17 anni di causa solo presso il Tribunale di Bologna.
La sentenza di primo grado é stata pronunciata il 13 Settembre 2004, il giudice ha condannato il dott. Poppi e l’ospedale Sant’Orsola a pagarmi la somma di appena € 52.410,00, ma hanno fatto appello, chiedendo la sospensione della condanna, e non si sa, ancora, quanto tempo ancora potrà durare. La prima udienza veniva rinviata al dicembre 2005.  Seppure è pacifico che il medico sia colpevole, non vogliono pagare, con la scusa del palleggiamento di responsabilità tra USL, ASL, Regione Emilia Romagna e Unipol Assicurazioni, ognuno di loro ha i suoi motivi per i quali deve pagare l’altro e, intanto, passano gli anni.

La Corte d’Appello di Bologna, sezione II civile (Ordinanza del 14 gennaio 2005)  scandalosamente asseconda queste manovre e sospende la sentenza di primo grado che, invece, doveva essere provvisoriamente esecutiva, tutelando le presunte ragioni degli enti pubblici che giocano “a scarica barile” su chi debba ereogare il risarcimento, invece che privilegiare i miei diritti di comune cittadina vittima della malasanità.

Così io, intanto, continuo ad aspettare.
La modesta cifra, prevista come risarcimento, peraltro, non ripagherebbe comunque quella rabbia che provo ogni volta che torno a casa dopo l’ennesimo intervento chirurgico,  guardando allo specchio il mio corpo sempre più martoriato, quella sensazione di avere fatto da cavia, quel senso d’impotenza e di frustrazione per la fiducia tradita.
Sentimenti forti questi, negativi, difficili da superare. Ferite psicologiche che hanno marcato indelebilmente la mia vita e l’anima. Ora voglio gridare al mondo intero che bisogna informarsi bene quando un medico chirurgo ci propone un intervento o una cura di qualsiasi genere: quali i risultati, quali le conseguenze e le possibili complicazioni.
Mi piacerebbe che ci fosse tra medico e paziente un rapporto più umano, di rispetto e d’informazione.
Chirurgo estetico e psicologo dovrebbero lavorare insieme per stabilire se le motivazioni all’origine della richiesta del paziente sono esclusivamente estetiche o psicologiche.
La chirurgia estetica non va presa alla leggera: non abbiate timore di chiedere, di dubitare e di richiedere un’altra volta. 

All’udienza del 2005, la Corte d’Appello, sezione seconda, oltre a congelare il risarcimento danni, rinvia la decisione della causa al 12 marzo 2010. Ben 5 anni dopo! (R.G.A. N. 2437/04 – Consigliere Relatore dott. Fischietti).

La mia unica fortuna è quella di rivolgermi ad Avvocati senza Frontiere che denuncia la mia vicenda come caso emblamatico di malagiustizia e malasanità anche alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.  Vengo intervistata a Parigi dove vivo da alcuni anni da una troupe di Rai 1, nell’ambito di un programma sugli errori medici e la chirurgia plastica. Nelle more, la Corte d’Appello di Ancona condanna lo Stato Italiano ai sensi della cd. “Legge Pinto” per la lungaggine del procedimento, riconoscendomi un equo indennizzo di € 17.000,00 oltre spese legali: in proporzione quasi di più della modesta somma virtualmente attribuitami dal Tribunale di Bologna per tutti i gravi danni fisici, morali e patrimoniali da me patiti in oltre 17 anni di continui interventi chirurgici e di incessante calvario giudiziario.

A seguito di tale pesante condanna la Corte d’Appello II sezione civile di Bologna anticipa a sorpresa l’udienza di trattazione di qualche anno e condanna la Regione Emilia Romagna in solido con il Dott. Poppi Vittorio al risarcimento dei danni nella misura già determinata dalla sentenza di primo grado pari ad € 52.410,22, oltre interessi, detraendo però (a titolo di sconto) la somma di € 12.911,42, in precedenza liquidata quale danno materiale per gli interventi successivi e compensando singolarmente le spese del grado di giudizio, così gravando iniquamente la mia persona di un pesante importo che sono stata costretta a pagare al legale che mi aveva in precedenza “difesa”, senza contestare la lungaggine del procedimento poi denunciata da Avvocati senza Frontiere. Avendo tale somma assorbito buona parte del magro risarcimento danno riconosciutomi sono stata ovviamente costretta mio malgrado ad impugnare in Cassazione la sentenza della Corte d’Appello di Bologna n. 1988/08, grazie al provvidenziale sostegno della Onlus Movimento per la Giustizia Robin Hood e all’intervento della rete di assistenza legale di Avvocati senza Frontiere.  Vorrei far conoscere questa storia “istruttiva” al maggior numero di persone.
Sabina Bondini

STORIA DI UNA DUPLICE VIOLENZA. PRIMA IL  BISTURI DEL CHIRURGO POI QUELLA DELLA GIUSTIZIA MASSONICA DELLA CORTE D’APPELLO CHE PER PROTEGGERE UN “BARONE” SI ACCANISCE CONTRO UNA GIOVANE SEDICENNE DETURPATA A VITA, REVOCANDO LA PROVVISORIA ESECUTORIETA’ DELLA CONDANNA DI PRIMO GRADO. A cura dello Staff di Avvocati senza Frontiere.

Ecco la storia. Sabina nel periodo dell’adolescenza decide di sottoporsi ad un intervento di chirurgia plastica apparentemente banale per correggere un’asimmetria mammaria, che, data la sua giovane età, nonostante le provocasse un certo disagio psicologico, qualunque chirurgo scrupoloso  le avrebbe sconsigliato.

Per l’intervento si affida al dr. Poppi dell’Azienda Ospedaliera di Bologna che la rassicura, affermando trattarsi di un “facile intervento” e nel quale ripone quindi, fiduciosa, tutte le sue speranze. Purtroppo il “facile intervento” va male con il risultato di rendere ancora più evidente il difetto congenito al quale, come se non bastasse, si aggiungono vistose cicatrici causate dal bisturi.

Sabina è così costretta a sottoporsi a numerosi nuovi interventi che l’ormai famoso chirurgo si offre di praticargli nel tentativo di rimediare anche solo in parte all’originario intervento che l’aveva gravemente deturpata. Ma il Dr. Poppi, invece di porre rimedio continua a peggiorare maldestramente la situazione. L’imperizia giunge al punto di “dimenticare” corpi estranei all’interno della zona operata…

Disperata, la giovane ragazza decise di appellarsi alla giustizia denunciando nel 1988 il Dr. Poppi e l’Azienda Ospedaliera di Bologna per danni fisici e morali causati dai maldestri interventi.

In primo grado la causa viene dilatoriamente trascinata per svariati anni, in quanto vengono sollevate una serie di defatiganti eccezioni dalla difesa del chirurgo, circa gli altri soggetti che debbono essere chiamati in causa per rispondere in solido dei danni. L’incertezza è artatamente alimentata dall’estinzione delle vecchie U.S.L. sostituite dalle odierne A.S.L.. Il giudice, dando prova di buon senso, ritiene comunque infine che la domanda dell’attrice, la cui attesa era già stata sufficientemente penosa, non dovesse essere ulteriormente pregiudicata dalle incertezze legislative e giurisprudenziali su cui i convenuti cercavano di speculare per ritardare la definizione del giudizio e palleggiarsi le responsabilità. E’ così  che, dando giustamente credito alle perizie medico-legali, il primo Giudice accerta  la civile responsabilità del dottor Poppi per imperizia colposa, condannandolo in solido con l’Azienda ospedaliera S. Orsola di Bologna a pagare a titolo di risarcimento dei danni subiti da Sabina,  € 52.410,00= (somma  la cui entità è peraltro ridicola rispetto al danno permanente subito e al risarcimento effettivamente spettante). Sennonché, seppure i 52.410 euro liquidati dal giudice risultassero assolutamente inconsistenti rispetto alla gravità del danno subito da una ragazzina sedicenne deturpata a vita, il chirurgo che ne ha distrutto la vita, non pago, propone appello, per motivi presumibilmente più di prestigio professionale che economici, in quanto la modesta somma liquidata dovrebbe venire versata dall’assicurazione e non di tasca del chirurgo.

In appello. Ciò che risulta veramente scandaloso e che non può essere lasciato passare sotto silenzio è il comportamento dei giudici della Corte di Appello di Bologna i quali con l’ordinanza del 14 gennaio 2005 si spingono a sospendere cautelarmente, inaudita altera parte, sino all’udienza di trattazione, l’esecutorietà della sentenza di primo grado, sul mero presupposto che Sabina aveva come suo diritto ingiunto il pagamento di quanto gli spettava  per legge ai soggetti condannati in primo grado, che si palleggiavano la responsabilità su chi dovesse risarcire il danno, nonostante l’esecutività della sentenza impugnata.

L’abuso in atti di ufficio commesso dai giudici bolognesi che hanno spudoratamente inteso favorire la parte più forte non può non suscitare perplessità anche ad osservatori inesperti di diritto. Infatti, la sospensione della provvisoria esecutorietà della sentenza è una misura eccezionale che, ai sensi degli artt. 283 e 351 c.p.c., può essere disposta solo in caso sussistano gravi motivi e un danno irreparabile nei confronti di colui che subisce l’esecuzione, in rapporto al vantaggio della parte vincitrice. Nella specie, non vi è chi non veda che non sussista alcun pregiudizio irreparabile né per il medico che nulla doveva pagare di tasca propria né per la A.S.L. nè tantomeno per l’assicurazione tenuta a rispondere dei danni, mentre l’unico vero pregiudizio è quello di Sabina che oltre al danno di non ricevere quei pochi soldi che gli servono per curarsi subisce anche la beffa di una falsa giustizia che funziona alla rovescia, tutelando more solito gli interessi dei più forti invece che quelli dei deboli e delle vittime dell’incuria degli Ospedali.

Inoltre altro presupposto per la sospensione della esecutorietà della sentenza di primo grado è il cosiddetto fumus boni iuris, cioè la parvenza che l’appello possa ritenersi fondato e portare ad una pronuncia favorevole al debitore esecutato.

Nel caso in esame occorre ricordare che il dottor Poppi, ormai pensionato, con una carriera illustre alle spalle, fa pensare che non fosse completamente sprovvisto di fondi. Inoltre la sentenza di primo grado condannava in solido il medico direttamente responsabile e l’Azienda ospedaliera di Bologna, che era munita di una solida copertura assicurativa con la Unipol Spa. Conseguentemente, il dottor Poppi non sarebbe stato in ogni caso costretto a pagare personalmente, ma avrebbe potuto far pesare l’onere del peraltro magro risarcimento dei danni sulla compagnia assicuratrice Unipol, pure infatti chiamata in causa a garanzia. L’Ordinanza della Corte bolognese, al di là del parziale felice epilogo della causa, dopo la condanna ai sensi della cd. Legge Pinto, già sopra narrato da Sabina, non trova dunque alcuna giustificazione ed è vano cercare di far luce sulla decisione per mezzo della motivazione che rimanda laconicamente senza offrire alcun specifico elemento ai gravi motivi d’urgenza, di cui all’art. 283 c.p.c.   Dulcis in fundo per capire a quali mani sia affidata la giustizia bolognese, governata dalla cd. loggia illuminata dei “professori”, la data di discussione della causa iscritta a ruolo nel 2004 viene fissata al 12 MARZO 2010. Cioè a distanza di ben 6 anni…!!! (R.G.A. N. 2437/04 C. App. Bologna – Relatore dott. Fischietti). L’unica urgenza ravvisata dalla Corte d’Appello era evidentemente quella di sospendere l’esecutorietà della sentenza di primo grado, frettolosamente disposta, addirittura, “inaudita altera parte”, eppoi, infine, quella di ridurre di circa 1/4 la misura del risarcimento e di compensare integralmente le spese del grado, forse per punire Sabina e i suoi legali di avere denunciato la lungaggine del procedimento alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e fatto condannare lo Stato Italiano?  VERGOGNA!