FALLIMENTOPOLI E CRIMINALITÀ GIUDIZIARIA NEL VENETO

FALLIMENTOPOLI E CRIMINALITÀ GIUDIZIARIA NEL VENETO:

92ENNE SPOGLIATA DELLA CASA E DERUBATA DI 1 MILIARDO!

OVVERO, QUANDO IL LEGITTIMO SOSPETTO È CERTEZZA!

Castelfranco Veneto. Abitava lì, da oltre 53 anni, l’anziana novantaduenne, Erminia Moino, affetta da demenza cronica del morbo di Alzhaimer, con la figlia Nellida Bernardi che l’accudiva nella casa coniugale lasciatale dal marito in usufrutto “vita natural durante”.

Una villetta modesta ma, situata su un’importante area fabbricabile, da poco inserita nel piano regolatore, di cui, invece, da tempo miravano impossessarsi noti speculatori senza scrupoli e banche locali (forse, vicini alla mafia del Brenta), trovando, sempre, però, la ferma opposizione della famiglia Bernardi.

Uno dei difensori di “Avvocati senza Frontiere” (ASF) racconta scandalizzato che le due anziane sono state, brutalmente, gettate in strada con una procedura lampo e l’intervento della forza pubblica, nonostante le molteplici opposizioni e il diritto d’usufrutto a vita.

Ciò, senza, neppure, tenere conto che, il medico curante della A.S.L. aveva dichiarato la “intrasportabilità” della madre inferma, paralizzata su una sedia a rotelle e bisognosa di cure.

In parole povere, i giudici del Tribunale di Treviso, Ufficiale Giudiziario, CC e Prefetto non hanno voluto sentire ragioni e respingendo ogni ragionevole appello dei difensori hanno, arbitrariamente, accolto le richieste della Cassa di Risparmio di Venezia (CARIVE) e della Prisma Immobiliare (ora Basso Costruzioni s.r.l.), dando il via libera, prima alla vendita all’asta dell’abitazione, eppoi alla frettolosa esecuzione dell’anomalo sfratto, degno di paesi privi di diritti certi.

La storia affonda le sue radici nella fallimentopoli trevigiana e nei piani di recupero speculativo delle aree del centro della ricca Castelfranco Veneto. Nel ’97, la sig.ra Nellida Bernardi, titolare di un mobilificio, la cui attività è, ormai, cessata da anni, a causa dell’avanzata età, si viene a trovare, suo malgrado, vittima del racket dei fallimenti e dell’usura bancaria.

Il mobilificio non ha debiti, eccetto un fido di circa L. 600 milioni con le banche, per cui formula un piano di rientro in 10 anni, offrendo a garanzia beni immobili del valore di oltre L. 4 miliardi, tra cui un capannone industriale, sede dell’azienda, e l’annessa abitazione che la Prisma vorrebbe rilevare in blocco, trovando la ferma opposizione della famiglia, disposta a vendere tutto il resto, ma non la casa (su cui, peraltro, grava il diritto di usufrutto a vita della madre, soggetto del tutto estraneo al successivo fallimento della ditta).

A questo punto, l’Immobiliare del Basso, pur avendo sottoscritto un preliminare di compravendita per il solo capannone, recede, in quanto, inconfessatamente, interessata a demolire l’intera area (che poi rileverà dal Tribunale fallimentare), onde portare a termine, con la complicità della giunta comunale, un profittevole piano di recupero speculativo della zona, con la costruzione di un nuovo complesso residen-ziale; cosa che risulterebbe impossibile, senza impossessarsi della casa delle due reticenti anziane.

Contemporaneamente, la CARIVE, dietro probabili pressioni del Basso, respinge qualsiasi bonario accordo, chiedendo sia il fallimento della ditta (una s.n.c.) e della sig.ra Bernardi, in proprio, sia la vendita dell’abitazione personale che il Tribunale, sorprendentemente, concede, nonostante non ne sussistessero le ragioni e pendesse un’istanza di concordato preventivo, avanzata dai difensori, i quali avevano richiesto un breve termine per concludere la vendita con altri soggetti interessati ad acquistare gli immobili.

Ed è così che la sig.ra Bernardi si è vista costretta a denunciare i giudici trevigiani che hanno pronunciato l’ingiusta sentenza di fallimento, sospettando un loro interesse personale, in quanto ignari delle ricusazioni e dei procedimenti disciplinari, da parte della 1^ Commissione Referente del C.S.M., hanno continuato a giudicare sia l’opposizione a fallimento sia ogni altra causa (rivendica abitazione, opposizione approvazione rendiconto, istanza revocazione crediti ammessi e querela di falso), in violazione del principio di terzietà del giudice.

Principio che, a norma dell’art. 51, co. 1, n. 4 c.p.c., sancisce “l’obbligo di astensione del magistrato che abbia conosciuto gli atti di causa in altro grado del processo”.

Dell’abnorme caso sono stati interessati la Procura di Bologna, competente per i reati commessi dai giudici del Veneto, il Procuratore Antimafia, dr. Vigna, il Procuratore Generale presso la Cassazione e il Ministro di Giustizia, ma tutti, in spregio alle loro funzioni, da circa 6 anni, sono rimasti inerti!

In particolare, è stata denunciata l’ingiustificata decisione del Tribunale di alienare l’abitazione privata, valutata appena L. 200.000.000, a fronte di un attivo realizzato di oltre L. 2 miliardi, già in grado di soddisfare i creditori al 100%, nonché l’ancora più arbitraria decisione, priva della benchè minima motivazione, del giudice dr. Donà di rigettare l’istanza per la “riduzione del pignoramento”, con cui veniva richiesto di limitare la vendita al solo fabbricato industriale del valore di oltre L. 800.000.000; somma che ben poteva ve-nire soddisfatta l’esigua pretesa della CARIVE di L. 49.000.000.

Dulcis in fundo, si è appreso che, recentemente, il dr. Giovanni Schiavon, ex Presidente del Tribunale di Treviso, da ritenersi uno dei principali responsabili dei denunciati abusi, è divenuto poco di meno che il Capo degli Ispettori ministeriali della c.d. “task force” nazionale che dovrebbe indagare sugli illeciti commessi dai magistrati e, quindi, anche su stesso!

FIGUARIAMOCI…….!!!!

Ma c’è di più. Quei bravi magistrati della 1^ Commissione Referente del C.S.M. che avrebbero avuto il compito di vagliare i denunciati illeciti commessi dai loro colleghi di Treviso, esercitando l’azione disciplinare, hanno archiviato tutto con una motivazione che dimostra la loro cialtroneria, inadeguatezza e assoluta mancanza di serietà nella lettura degli atti.

Basti dire che, nella decisione 20.11.02, hanno sostenuto trattarsi di “presunte irregolarità commesse nella trattazione di una procedura fallimentare a carico della Prisma Immobiliare s.r.l.” e di “censure ad attività giurisdizionale per la quale non vi sarebbero provvedimenti di competenza del C.S.M.”,

Peccato per loro che il fallimento riguardi non la Prisma Immobiliare s.r.l. bensì il Mobilificio Bernardi s.n.c !!!

Si ritiene, infine, doveroso segnalare ai lettori l’abnormità della situazione venutasi a determinare, a seguito del comportamento degli organi fallimentari e delle Autorità dello Stato Italiano, per cui la sig.ra Bernardi, pur avendo diritto al residuo di circa un miliardo di lire, giàricavato, da alcuni anni, dalla vendita dei suoi immobili, si trova, tuttora, paradossalmente, a vivere in condizioni di povertà estrema, con un sussidio di appena L. 250.000 mensili, erogato dal Tribunale, mentre giudici, politici e giornalisti, strapagati da noi cittadini, sembra sappiano discutere del “legittimo sospetto”, solo quando attiene gli interessi dei potenti e, non già, nei casi ben più gravi, di interesse generale, che riguardano la stragrande maggioranza dei comuni cittadini, vittime di conclamati abusi giudiziari, i quali non hanno mezzi, nè tantomeno televisioni e avvocati di grido per fare sentire le loro ragioni!

COMPLOTTO GIUDIZIARIO PER COPRIRE UN ABUSO EDILIZIO

DA VERONA A VENEZIA: QUANDO LA SUSPICIONE C’AZZECCA!

COMPLOTTO GIUDIZIARIO PER COPRIRE UN ABUSO EDILIZIO

Il caso riguarda il Tribunale civile e la Procura di Verona, nonché le sedi penali di Trento, Venezia, Trieste e Bologna, che, dal 1997, stanno, deliberatamente, calpestando i diritti abitativi (e di proprietà) della famiglia del sig. Filippo Salamone, di recente stroncato da crepacuore, all’età di ottant’anni, non dandosi pace per la negazione di giustizia e i gravi abusi subiti: spoglio di acqua, luce, gas da riscaldamento e passo carraio, per cui è rimasto al freddo, fino alla morte, e nella impossibilità di accedere al proprio garage, dove, tuttora, sono rimaste intercluse due autovetture.

Oggi, la battaglia giudiziaria viene continuata dalla moglie, 82enne, Rabita Grazia e dalla figlie che, nonostante si siano, fiduciosamente, rivolte a tutte le competenti Autorità, nessuna esclusa, continuano a vedersi negare giustizia.

L’allucinante vicenda nasce nel 1971, allorquando la confinante, ben introdotta nella locale Amministrazione e nella Curia, ottiene dal Comune di S. Giovanni Lupatoto, un’illegittima autorizzazione edilizia per aumentare le volumetrie della sua villetta, dichiarandosi, falsamente, proprietria di una superficie maggiore di quella effettiva (la parte eccedente è, invero, di proprietà dei Salamone).

Il Comune, dapprima, rilevando incongruenze, in base al Regolamento Edilizio e alla Legge n. 10/77, non concede l’abitabilità e chiede la creazione di una zona di rispetto, mai realizzata.

Dopo di che, del tutto “inspiegabilmente”, si rimangia tutto, senza svolgere alcuna verifica sugli atti di proprietà e le certificazioni catastali, da cui avrebbe potuto accertare che la confinante non è proprietaria dell’intera superficie dichiarata; ragione per cui avrebbe dovuto, conseguentemente, ingiungere la demolizione del fabbricato, in considerazione del fatto che non è possibile costruire un numero di metri cubi superiori a quelli consentiti dalla legge, da calcolarsi in base alla metratura del terreno, realmente, posseduto.

A questo punto, la confinante nel tentativo di sottrarre il terreno mancante, onde sanare la sua anomala posizione, cita in giudizio il povero fu Filippo Salamone, sostenendo in evidente malafede che lo stesso avrebbe sconfinato sul suo terreno, spostando il muro di confine.

Dopo alterne vicende, la Corte di Appello di Venezia, attraverso una Consulenza Tecnica di Ufficio, riconosce la piena ragione e regolarità dei confini del Salamone.

Senonchè, la Corte di Cassazione, con una sentenza “alla Corrado Carnevale”, rimette tutta la questione in gioco, restituendo gli atti alla Corte Veneta, che stravolgendo le risultanze processuali, senza precisare alcun riferimento catastale, ordina al Salamone “di arretrare per la lunghezza di 3 metri, un non meglio precisato muro di confine, assertivamente costruito negli anni 76-77”.

Da qui l’amaro calvario giudiziario dei Salamone che, a seguito di tale abnorme quanto ineseguibile sentenza, si sono visti spossessare del passo carraio e delle sottostanti tubazioni di acqua, luce, gas, nonchè costruire un nuovo muro di confine a ridosso della loro abitazione.

A nulla sono per ora valsi i molteplici ricorsi e denunce in ogni competente sede.

I giudici civili e penali di Verona, come quelli del T.A.R. di Venezia e della Cassazione fingono di non capire o, rimangono inerti. Ciò vale anche per le Procure di Trento, Bologna, Venezia e Perugia, investite di alcuni esposti nei confronti dei giudici veneti e della Cassazione.

Anziché svolgere indagini sulla reale appartenenza del terreno controverso e sulla legittimità delle concessioni edilizie, in base alle quali la confinante ha potuto stravolgere la vita della famiglia Salamone, il Tribunale di Verona ha pensato bene di condannare a 4 mesi di reclusione, con processo per direttissima, la figlia invalida, Rita Salamone, recentemente arrestata con la pretestuosa accusa di “resistenza a pubblico ufficiale”, per essersi opposta alla costruzione del muro.

L’arresto e la condanna appaiono del tutto arbitrari, in quanto la sig.ra Salamone si è limitata ad opporsi ad una palese violazione di domicilio, da parte dell’Ufficiale Giudiziario che, incurante del titolo di proprietà rammostratogli, ha cercato di fare erigere un muro divisorio, a ridosso della sua abitazione, occludendo il passaggio di servitù e il garage, di sua proprietà da ben 45 anni!

È singolare rilevare che l’abnorme misura dell’arresto di una persona anziana e malata, sia stato richiesto, proprio, dalla locale Procura, mentre ben 5 giudici veronesi, tra cui lo stesso Presidente, dr. Abbate, risultavano in attesa di rinvio a giudizio, da parte della Procura di Trento, per i reati di abuso d’ufficio continuato, falso ideologico e favoreggiamento.

Non si può, infine, sottacere il trattamento disumano e incivile riservato alla sig.ra Salamone, tenuta tutta la notte al freddo in una cella umida nella locale caserma dei Carabinieri, ove è stata colta da un blocco renale, senza ricevere pronte cure. Ciò, mentre, veri e propri delinquenti, assassini di genitori, suore, pedofili e lanciatori di sassi dai vari cavalcavia vengono lasciati circolare liberamente. I legali di “Avvocati Senza Frontiere” preannunciano ricorso alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, rilevando che nessun cittadino può venire condannato per avere difeso la sua proprietà privata, il cui diritto è tutelato dalla Costituzione.

 

DENUNCIA DI UNA MAESTRA DI PRATO

DENUNCIA DI UNA MAESTRA DI PRATO A CUI IL LOCALE TRIBUNALE NEGA OGNI DIRITTO

Da premettere che la Sig.ra C. S. subiva, sin da tenera età, maltrattamenti e percosse da parte del padre, G. B. S., a cui si aggiungeva l’abbandono ed il completo disinteresse della madre, C. V.

Appena diciottenne, all’ennesimo tentativo del padre di metterle le mani addosso, lei scappò di casa e si rifugiò dalla sorella G. S., già coniugata con A. G., chiedendo aiuto e sostegno.

Dopo un primo momento in cui sembrava che la sorella volesse sinceramente aiutarla, entrarono in gioco questioni di natura puramente economica: il padre aveva un discreto patrimonio che, alla morte, il cognato Sig. A. G. (un funzionario di un importante istituto bancario intrallazzato con influenti personaggi locali) cominciò a gestire, minimizzando di fatto l’accaduto e cercando di far apparire la Sig.ra C.S. come mentalmente instabile e disturbata.

Invero, la stessa, pur trovandosi da sola, giovanissima e scioccata, non era affatto malata di mente né si perse d’animo: terminò gli studi conseguendo il diploma da maestra elementare e vinse un concorso per un incarico ad Alessandria.

Dopo qualche anno ottenne il trasferimento a Prato, sua città d’origine, dove cercò di riallacciare i rapporti con la famiglia, ma si trovò di fronte ad un muro invalicabile di odio, cattiveria e accanimento, tale da gettarla in una profonda prostrazione fisica e psicologica.

Grazie alla innata forza di carattere riuscì, in larga parte, ad affrontare e superare tutte quelle problematiche derivatele dalle violenze subite, dagli abbandoni periodici e reiterati dei suoi familiari (la madre, C. V., aveva abbandonato la famiglia di punto in bianco quando la nostra maestra era ancora una bambina e non ha mai tenuto con lei un comportamento “materno”, in definitiva ignorandola; la sorella l’ha allontanata proprio quando aveva trovato la forza di denunciare quello che subiva da anni in casa; la morte della amatissima nonna, l’unica familiare ad averla mai amata e sostenuta sinceramente), dalla solitudine in cui si trovava a vivere, ricorrendo anche all’aiuto di medici seri e preparati che la seguono nel suo percorso di ricostruzione interiore.

Ma veniamo ai fatti.

Nel 1989 la Sig.ra C. S. trovò la forza di formalizzare in una denuncia vera e propria, sporta presso l’allora Commissariato di P.S., la propria situazione, interrompendo, di conseguenza, ogni rapporto con i congiunti.

Il 15.10.1992 morì il padre, in Prato, ma C. S. venne informata solo dopo molte ore e, recatasi presso la casa paterna, trovò a sbarrarle l’accesso un cancello elettrico appena installato.

Di fatto, dalla data della morte del padre, non ha mai avuto accesso né alla casa paterna, né ai documenti relativi alla consistenza patrimoniale del de cuius, che pure sapeva ingente.

Il relativo inventario veniva redatto dalla sorella e dal cognato unilateralmente, senza consultare la Sig.ra C. S., che conseguentemente rifiutava di sottoscriverlo.

Ella sapeva esistere alcuni conti correnti bancari intestati al padre, dove, a detta dello stesso, erano depositati diverse centinaia di milioni di vecchie lire: alla morte del padre questi conti risultavano contenere pochi spiccioli.

Il de cuius lasciava un testamento olografo dove dichiarava di lasciare le sue sostanze alle figlie e che, se non poteva diseredare la moglie (i coniugi non avevano mai formalizzato legalmente la separazione né, tantomeno, avevano chiesto il divorzio), a questa toccasse proprio il minimo di legge; inoltre, lasciava un legato pari al 4% delle sostanze alla nipote A. G..

In successione sono entrati dunque: la casa di Via M. R. (un immobile grande, di 180 mq. con giardino e rimessa), il 50% di un terreno in località Galciana di svariati ettari, con una colonica a rudere, coltivato da un contadino in “affitto” e i beni mobili.

Inspiegabilmente, sin dal momento dell’apertura della successione, la Sig.ra C. S. paga annualmente tasse e balzelli per un valore di circa Lire 70.000.000 (in dieci anni) sui suddetti beni, senza averne mai percepito alcun reddito!!

In particolare, per quel che attiene al terreno, la sorella e lo zio, A. S., proprietario al 50%, si sono sempre rifiutati di corrisponderle la sua quota di affitti (inutili sono state anche le richieste formali avanzate tramite legali) così come la sorella ed il cognato si sono sempre rifiutati di dare le chiavi dell’immobile di Via M. R..

Cominciavano così due cause civili, una per la divisione dell’eredità e una per la simulazione della compravendita (in realtà una donazione) di un immobile in Via M. R., attiguo a quello di proprietà del padre, effettuata tra lo stesso e la figlia G. ed il genero A. G., poi riunite, ed attualmente ancora pendenti innanzi al Tribunale di Prato.

In data 2 aprile 1999 la sig.ra C. S. presentava, tramite il proprio legale, atto di denuncia querela presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Prato, da cui prendeva inizio il procedimento nr. 1296/99 R.G.N.R.

Dato che nulla si muoveva dopo anni, in data 28 dicembre 2001 la Sig.ra C. S. integrava la suddetta querela di mano propria e, contestualmente, veniva interrogata dal P.M. Dott. E. Paolini.

Da sottolineare che detto interrogatorio fu del tutto “SOMMARIO E ILLEGITTIMO”, tanto che la Sig.ra C. S. non veniva informata della possibilità di farsi assistere da un legale, né che le dichiarazioni rese potevano essere usate contro di lei.

Ancora niente.

Si rivolgeva ad altro legale che in data 30.12.2002 proponeva istanza di acquisizione urgente, stante l’impellente scadere dei dieci anni per la conservazione dei documenti, della documentazione bancaria relativa alla situazione patrimoniale del fu G. B. S.

Alla suddetta istanza la Procura rispondeva con il diniego della richiesta e con la richiesta di archiviazione: entrambi gli atti portano la data del 31.12.2002; seguiva la notifica in data 9.01.2003 della richiesta, da parte del P.M., di archiviazione del procedimento, cui veniva proposta tempestiva opposizione in data 18.01.2003.

Ciò nonostante, il G.I.P. di Prato, Dott. Moneti, respingeva indebitamente l’istanza e disponeva l’archiviazione del procedimento, accogliendo la richiesta del P.M. secondo cui le uniche ipotesi di reato astrattamente configurabili sarebbero state quelle di appropriazione indebita di cose comuni, erroneamente ritenute entrambe prescritte, senza rinvenire la continuazione e la sussistenza di ipotesi di reato ben più gravi quali la truffa aggravata e continuata, furto e rapina e frode processuale.

Come spesso accadde quando vi sono interessi cospicui e personaggi di potere, la denuncia presentata dalla Sig.ra C. S. si risolve in un nulla di fatto, mentre la denuncia presentata dalla sorella e dal cognato contro di lei per presunte ingiurie e minacce prosegue a vento in poppa, secondo lo stile della magistratura compiacente con il male e con i potenti.

La Sig.ra C. S. ha così deciso di lanciare tramite Avvocati senza Frontiere un appello per trovare un nuovo difensore che abbia il coraggio di difenderla nelle cause civili (in cui non le viene neppure riconosciuto il gratuito patrocinio perché risulta una facoltosa ereditiera, proprietaria di vari beni immobili e rendite…) e fare riaprire il procedimento penale arbitrariamente archiviato.

Nel suo appello fa presente che tra le persone coinvolte ci sono vari professionisti tra loro collegati, cosa che le ha impedito di risolvere una situazione che si protrae da oltre 13 anni, man mano aggravandosi, tanto da subire vere e proprie forme di mobbing da parte delle istituzioni, anche nell’ambito professionale.

Ciò non deve destare sorpresa poiché è notorio che vi sono poteri occulti in grado di controllare non solo la magistratura, ma tutti gli ambiti istituzionali, riuscendo a influenzare la sorte delle persone che vengono discriminate in varie forme.

In proposito, vale la pena ricordare che l’Ispettore scolastico, dove l’insegnante prestava servizio, è giunto al punto di attribuirle appellativi ingiuriosi, cosa che ha determinato un’oggettiva situazione di mobbing sul lavoro, fino a costringerla a scegliere la via pensionistica a causa delle ripercussioni sulla salute e la sua onorabilità.

Assurdamente alla Sig.ra C. S. è precluso di accedere al gratuito patrocinio in quanto, seppure il suo reddito netto rientri nei limiti previsti dalla legge, percependo solo una pensione di circa Euro 819 al mese, risulta proprietaria degli immobili coereditati, sui quali non ha nessuna gestione né reddito né reale possesso, essendo. però. suo malgrado, costretta a pagarvi le tasse, onde evitare il pignoramento dell’appartamento dove abita

Una delle tante situazioni kafkiane, di cui abbiamo già avuto occasione di parlare diffusamente, che impedisce in radice l’accesso dei cittadini alla giustizia, negando il principio di uguaglianza di fronte alla legge.

 

 

Dobbiamo morire, sì; ma non essere assassinati dalle Istituzioni!

Dobbiamo morire, sì; ma non essere assassinati dalle Istituzioni!

Con l’art.7 del decreto legge 29 marzo 2004 n.80 il consiglio dei ministri ha modificato l’art.58 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali consentendo la candidatura ed il mantenimento della carica a chi é stato condannato con sentenza irrevocabile per il delitto di peculato d’uso. La norma può correttamente essere definita “salva Buzzanca” sindaco di Messina decaduto dalla carica per tale condanna. In allegato il testo trasmesso alle principali testate di stampa ed agenzie. Sollecito le Vs. valutazioni e la massima diffusione. grazie aurora notarianni CON LA VIVISSIMA PREGHIERA D’INTERESSARE ANCHE L’EDIZIONE CARTACEA DEL GIORNALE Gentilissimo Direttore, sicura della sensibilità della Sua testata, ricorro per l’urgenza e la ristrettezza dei mezzi alla posta elettronica per invitarLa caldamente ad interessarsi e dare il rilievo necessario al caso emblematico di noi Cittadini messinesi che eravamo ricorsi alla Giustizia e poi ……… Ora parte importante delle speranze di quei Cittadini sono nelle Sue mani. So che non si tirerà indietro perché si tratta di notizia d’interesse generalissimo che tocca le radici dei temi della democrazia nel nostro Paese. Grazie, resto a Sua disposizione e Le porgo i miei più cordiali saluti Aurora Notarianni Allego: 1) testo della petizione (anche reperibile sul sito www.auravvocato.it) 2) testo dell’appello 3) sommaria esposizione dei fatti Sintesi Antefatto – nella Sicilia dei 61 a 0 (ultime politiche), degli sperti e dei malandrini (come dice Alfio Caruso) i primi mesi della primavera 2003 ha inizio la campagna elettorale di Giuseppe Buzzanca (AN) per la candidatura a Sindaco della città con lo slogan “Adesso tocca a Messina” (più una minaccia che una promessa, penso io). Il candidato, nato a Barcellona P.G., residente a Milazzo, ha rivestito la carica di Presidente della Provincia per ben 10 anni (ecco spiegato lo slogan). Fatto – Nel 1995 il Nostro convola a giuste nozze e decide di trascorrere la luna di miele in crociera partendo da Bari. Purtroppo i collegamenti con la città della Puglia sono assai disagevoli. Non treni, né autobus, né aerei. (…..) Pur di non andar con l’asino il Presidente, decide di utilizzare l’auto blu. Prima di partire però fa un salto in Provincia, saluta gli amici, lascia le ultime direttive (almeno così dice), prende la novella sposa, da il via all’autista alla volta di Bari. Naturalmente al rientro dal viaggio auto blu ed autista erano lì pronti per riaccompagnare a Messina i piccioncini. Sfortuna volle che un consigliere di minoranza, troppo diligente ed assai ficcanaso, nel verificare il bilancio dell’ente non riesce a far quadrare i conti e perciò interpella il Presidente, la Giunta ed il Consiglio sulle ragioni di una trasferta a Bari. Il Presidente si difende assumendo di non essere preparato sull’argomento svolgendo la professione di medico. Certo poiché aveva già commesso un errore – dimenticando la guardia medica che svolgeva nell’isola di Pantelleria per cui era sottoposto a procedimento penale per interruzione di pubblico servizio (reato poi prescritto ……. le lungaggini della giustizia, ahimè) – questa volta per non sbagliare aveva chiesto un parere ad un esperto in diritto amministrativo (avv. Andrea Lo Castro) che lo aveva rassicurato sulla legittimità dell’uso dell’auto blu anche per fini personali. La Procura della Repubblica, intanto, avvia procedimento, acquisisce gli atti e contesta al Nostro i reati di abuso d’ufficio e peculato. Condanna – Dopo varie vicissitudini (il procedimento é dapprima archiviato, il provvedimento impugnato dalla Procura generale, annullato dalla Suprema Corte, poi rimesso al GIP di Reggio Calabria, poi di nuovo a Messina per il dibattimento) e lunghissimi anni di processo la Corte d’appello di Messina condanna il nostro alla pena di 6 mesi di reclusione per i reati di peculato d’uso e abuso d’ufficio, oltre pene accessorie di legge. Nonostante ciò e nonostante il chiaro dettato della normativa sul diritto all’elettorato passivo – inibito, fra l’altro, a chi ha riportato condanne per reati contro la pubblica amministrazione – il dr. Buzzanca, con la benedizione dei parlamentari Domenico Nania (AN) e Rocco Crimi (FI) propone la sua candidatura ……. Supera la competizione elettorale (voti 77.529) e conquista la poltrona di Sindaco. Sta già cominciando la spartizione quando la Cassazione il 5.6.2003 respinge il suo ricorso avverso la sentenza di condanna che diviene quindi irrevocabile, definitiva. (per il testo integrale www.lexitalia.it copertina novembre o www.cittadinolex.kataweb.it). La notizia del deposito delle motivazioni ha clamore sulla stampa nazionale. In sintesi estrema: Il politico che utilizza l’auto blu per accompagnare la propria signora commette il reato di peculato, in quanto la consorte è estranea alle esigenze di servizio. Il responsabile dell’amministrazione territoriale, “(a prescindere dalla sua professione quale privato) ha il dovere giuridico di conoscere le normative che attengono al ruolo pubblico ricoperto, non affidatogli per decreto dell’autorità, ma conseguito per libera scelta al momento della presentazione delle liste elettorali, al momento in cui il gruppo di appartenenza politica consegue la maggioranza, al momento in cui la sua stessa maggioranza lo elegge al vertice dell’amministrazione pubblica locale”. Sussurri – Inizia così un lento, insopportabile mormorio. Che fare, cosa conviene ….. Le forze politiche di centro sinistra temono accuse (?) di giustizialismo. Confondono, come spesso accade, il sostantivo GIUSTIZIA dall’aggettivo sostantivato in senso peggiorativo LISMO. Taluni impugnano innanzi al Tribunale la delibera di proclamazione sostenendone la nullità, ma il Tribunale respinge. Il dr. Buzzanca poteva essere proclamato Sindaco, la definitività della condanna è successiva. Sembrano tutti acquietarsi. Il motto principale è “teniamo famiglia”. Si sospettano spartizione di sottogoverno. Alla domanda che mi viene più volte e da più parti rivolta “ma la gente di sinistra, quella di strada non di partito, che fa?” un sabato rispondo. Azione popolare – E’ lo strumento conferito dal legislatore ai cittadini elettori per far valere, fra l’altro, le cause di decadenza dalla carica di Sindaco nelle ipotesi di condanna irrevocabile per determinati reati, tra cui il peculato. Il decreto legislativo 267/2000 è il Testo Unico delle leggi sull’ordinamento egli enti locali e prevede le cause di incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità, sospensione e decadenza volte alla salvaguardia di interessi dell’intera nazione, connessi a valori costituzionali di primario rilievo. L’art.58 stabilisce al comma 1 lett. B) che “non possono essere candidati alle elezioni (…) e non possono comunque ricoprire le cariche di (…) sindaco (…) coloro che hanno riportato condanna definitiva per i delitti previsti dagli art. 314 (peculato) …. ” Il testo della norma ci sembra, nonostante il caldo estivo, di solare chiarezza. Riusciamo in pochissimi giorni e di gran corsa a predisporre il ricorso, farlo sottoscrivere a 35 cittadini (me compresa), depositarlo il 26.6.2003, ottenere la fissazione di una udienza preferiale e quindi a notificare ricorso e decreto al dr. Buzzanca (previe accurate ricerche sulla sua residenza anagrafica). Intanto altri ricorsi si aggiungono. Vengono recapitati quattro proiettili allo studio dell’avv. Marcello Scurria uno dei due avvocati difensori. La città è in fermento. Anche i palazzi romani lo sono. Interviene per il Ministro dell’Interno il Capo di gabinetto con autorevole (?) parere consultivo del 24.6.2003 affermando che la sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 5 giugno 2003 “non produce alcuna implicazione sulla permanenza in carica dell’amministratore locale …. Un’esegesi ispirata a principi di ragionevolezza, coerenza, logica e proporzionalità induce ad apprezzare che la ratio della normativa di cui agli srtt.58 e 59 d.lgs. 267/2000 sottolinei la volontà di pervenire alla decadenza dalla carica ricoperta in presenza di una condanna definitiva per il delitto previs
to dall’art.314 cp soltanto per le ipotesi contemplate dal comma 1 del richiamato articoli. E’ infatti desumibile ex lege che gli effetti della sentenza siano ricondotti non alla sola tipologia della condotta criminosa di peculato, ma invero essenzialmente alla maggiore offensività che in concreto la stessa condotta ha arrecato” (null’altro che sic!) La sentenza di primo grado – (per il testo integrale www.auravvocato.it) Il Tribunale il 18 luglio respinge i ricorsi ritenendo, in estrema sintesi, che essendo la definitività della condanna successiva alla elezione il Sindaco può mantenere l’incarico. L’affermazione dell’esistenza dell’interesse pubblico alla salvaguardia dell’esito della consultazione elettorale sino al completamento del mandato è la vera aberrazione della pronuncia. L’ordinamento giuridico e democratico sembra essere scardinato dalle fondamenta. Il voto sana, attribuisce l’impunità per la durata del mandato. Il delirio di onnipotenza dilaga in città dopo questa pronunzia. Il tentativo di destabilizzazione del sistema di diritto ci spaventa. Restiamo allibiti, comunque sereni. La pesante condanna alle spese di giudizio, che data la specificità dell’azione popolare sono in genere compensate, ha il sapore di una punizione. (per le ulteriori censure puoi leggere il testo del ricorso in appello pubblicato su www.auravvocato.it). Lavoriamo con la calura estiva ed il sol leone di agosto. Prima del 15 di agosto è pronto il ricorso in appello. Depositiamo. La decadenza – ( per il testo integrale www.auravvocato.it) Con sentenza del 24 novembre, depositata il 3 dicembre, la Corte d’Appello di Messina dichiara la decadenza del dr. Buzzanca dalla carica di Sindaco di Messina, carica che non può più ricoprire essendo definitiva la condanna per peculato d’uso. La sentenza è esecutiva per legge, alle ore 17,30 è notificata ed il Sindaco lascia immediatamente la poltrona. L’Assessore avrebbe dovuto nominare un commissario ma ha preferito (?) attendere le motivazioni della sentenza prima ed ora ancora non si sa. La Corte supera la miriade di eccezioni procedurali sollevate (dedicando ben 36 pagine di motivazione sui punti) ed illustra la ragioni che hanno portato all’accoglimento degli appelli ed alla dichiarazione di decadenza. In particolare la Corte afferma che: ” …. sussistono degli indici interpretativi, sia di genere lessicale che di carattere logico, che già prima facie orientano a ritenere che il sistema non può tollerare ed in effetti non permette che conservi la carica di sindaco chi abbia perduto i requisitti soggettivi necessari per assumerla” ; ed ancora che ciò vale ” …anche sul piano non secondario della ragionevolezza (art.3 Cost.). Quella ragionevolezza che induce chiunque a respingere l’idea che chi non ha i requisiti morali per concorrere ad un ufficio pubblico elettivo possa tuttavia mantenerlo …”; e poi “A restare sul piano giuridico non si riesce a comprendere, infatti, come il successo nella competizione elettorale possa fare premio sulla mancanza di un requisito indispensabile del diritto di elettorato passivo, quasi che, una volta eletti, l’ordinamento si acquieti davanti alla volontà della maggioranza degli elettori e perda di vista quelle esigenze di salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, di tutela della libera determinazione degli organi elettivi, di buon andamento e trasparenza delle amministrazioni locali, che pur costituiscono,per consolidato orienatamento del giudice delle leggi, primari valori costituzionali”; ed infine che ” quello elettorale è solo un procedimento di selezione della persona destinata a svolgere una pubblica funzione e che, di conseguenza, non avrebbe senso una incapacità circoscritta alla candidatura che non intercetti anche la funzione perché è proprio il momento dell’esercizio dell’ufficio quello decisivo ai fini pubblici, e rispetto ad esso il procedimento selettivo soltanto strumentale e servente.” Insomma, abbiamo con piena nostra soddisfazione visto rinsaldare le travi portanti del sistema di diritto, la legalità, l’onestà, la politica come munus ….. Il seguito La questione rappresenta un buon precedente. Torniamo a parlare di ETICA, MORALITA’, POLITICA COME MUNUS. Intanto il Sindaco decaduto propone ricorso per cassazione e mentre la Suprema Corte anticipa su nostra richiesta al 14.4.2004 l’udienza di discussione già fissata per il 10 maggio (data non utile alla eventuale competizione elettorale per le amministrative in concomitanza con le europee), il governo il 25 marzo ultimo scorso introduce una norma in un decreto legge (che serve per regolare casi indifferibili ed urgenti) per dire che il cittadino condannato con sentenza irrevocabile per peculato d’uso può candidarsi, essere eletto, mantenere la carica. Meglio di così …. Alcuni cittadini, anche consorti di lite, chiedono con istanze del 26, 27 e 29 marzo al Presidente della Repubblica di non firmare il decreto; altri cominciano seriamente a pensare di rinunziare alla cittadinanza italiana e/o di formalizzare una richiesta di asilo politico …… Attendiamo gli eventi.

AUGUSTA: Un'altra strage preannunciata con la complicità dello Stato e della mafia?

AUGUSTA: Un’altra strage preannunciata con la complicità dello Stato e della mafia?

Dobbiamo morire, sì; ma non essere assassinati dalle Istituzioni!

C’era una volta… MARINA DI MELILLI.

Non è l’inizio di una favola, ma una delle pagine più oscure e vergognose della storia italiana.

Io sono un cittadino di Augusta, quarantamila abitanti, una città tra Catania e Siracusa, dove c’era anche MARINA DI MELILLI.

Il nome di Augusta, di solito, ormai, si trova unito a PRIOLO e MELILLI, con le quali condivide un destino amaro: l’olocausto industriale.

Forse, un giorno, questa tragedia entrerà a pieno titolo nei libri di storia come Bhopal, Chernobyl, Minamata, Seveso, Hiroshima, Auschwitz.

Sono poche, credo, in Italia, le città che come Augusta, si trovano esposte a ben tre rischi: sismico, chimico-industriale e militare. Ma di questa città e del suo triste destino si preferisce non parlare.

Ma quando se n’è parlato, lo si è fatto quasi sempre perché era successo qualcosa di grave.

Non è di tutti questa sorta di “guiness dei primati”: su 40 kmq di territorio sono state concentrate 12 industrie ad alto rischio (tre centrali termoelettriche, una fabbrica di cloro a celle di mercurio, quattro raffinerie, un cementificio, un inceneritore, una fabbrica di magnesio, un depuratore, ed altro).

Un territorio con viabilità fatiscente ed insufficiente, disseminato di discariche – non se ne conoscerà mai il numero esatto; un territorio più volte interessato da eventi sismici rilevanti; un territorio su cui insistono basi militari italiane, NATO ed USA; un territorio con una grave emergenza igienico-sanitaria in atto (accertato tasso di mortalità per cancro superiore al 30%; 1000 bambini nati malformati negli ultimi dieci anni; patologie legate al degrado ambientale del territorio; mare non balneabile dove è stato scaricato perfino mercurio in enormi quantità…

Su un territorio dichiarato dal Ministero dell’Ambiente nel 1990 ad alto rischio di crisi ambientale, e recentemente definito dal prof. Corrado Clini, assimilandolo a Porto Marghera, area in piena crisi ambientale, come se tutto ciò non bastasse, per decisione dell’attuale classe politica dirigente della Regione Sicilia, una centrale termoelettrica sarà, in parte, riconvertita a carbone ed in parte trasformata a “termovalorizzatore” per il trattamento di 500.000-650.000 tonnellate annue di rifiuti urbani indifferenziati provenienti dalle province di Enna, Catania, Siracusa e Ragusa.

Rimane irrisolto un altro problema: dove saranno smaltite le altre 173.000 tonnellate/anno di rifiuti tossici e nocivi della zona industriale di Augusta-Priolo?

Non c’è da preoccuparsi: detti rifiuti è stato decretato che verranno smaltiti nella progettata piattaforma polifunzionale che, guarda caso, sarà costruita anch’essa ad Augusta.

All’inquinamento attuale, che si protrae da oltre 50 anni, si aggiungerà anche quest’altro voluto dal Presidente della Regione Cuffaro.

Se mettessimo insieme il numero dei morti e dei feriti degli incidenti industriali, degli infortuni sul lavoro, e se unissimo ad essi il numero di morti per tumori ed il numero dei bambini malformati, potremmo parlare, senza alcuna retorica, di strage: ma di UNA STRAGE DI STATO.

Forse un giorno, verranno le telecamere a documentare l’ennesimo disastro, ad innescare polemiche, dibattiti e passerelle.

Ma non sarebbe opportuno che le telecamere venissero ora per evitare ulteriori disastri?

Distinti saluti.

Sac. Prisutto Palmiro

 

STORIA DI MOBBING ALLA GUARDIA DI FINANZA.

SEDE DI CATANIA: STORIA DI MOBBING ALLA GUARDIA DI FINANZA.

Apriamo le pagine web dedicate alla Regione Sicilia, con il caso del Maresciallo Antonio Laurino della Guardia di Finanza di Catania, suo malgrado sottoposto dalle alte gerarchie militari ad una vera e propria odissea giudiziaria che si trascina da svariati anni, con un numero impressionante di procedimenti civili, penali e amministrativi, tra loro connessi, per avere cercato di fare valere i propri diritti civili ed il rispetto della persona umana, che non possono venire negati, neppure, ai militari di carriera.

Qui di seguito pubblichiamo la denuncia del Maresciallo Laurino che, dopo il corso Sottufficiali presso la G.d.F. di Catania, dal 1997 si trova vittima di una vera e propria persecuzione per essersi opposto ad ingiuste sanzioni disciplinari mediante ripetuti ricorsi al T.A.R. della Regione Sicilia che, secondo il cattivo costume largamente diffuso nei Tribunali Amministrativi del Paese, volto ad insabbiare tutti i procedimenti ritenuti scomodi, per assecondare le varie mafie, legali e non, che occupano le sfere di comando delle istituzioni, non sono mai stati discussi, nonostante i ripetuti solleciti di fissazione (in gergo tecnico: istanze di prelievo) e le innumerevoli denunce penali nei confronti dei Magistrati inadempienti, su cui pure, allo stato, risulta che la Procura della Repubblica di Messina non avrebbe ancora adottato provvedimenti di sorta.

La tecnica diffusa nei tribunali italiani, incidentalmente messa in luce anche in vari procedimenti penali dei magistrati antimafia e anticorruzione che indagavano sulle Tangentopoli giudiziarie ed i collegamenti tra mafia, politica e magistratura, è quella di procrastinare “sine die” le decisioni di tutti quei procedimenti che potrebbero in qualche modo intaccare gli interessi del Regime occulto e dei poteri forti che controllano il territorio e le stesse istituzioni giudiziarie.

Quanto accade al Maresciallo Antonio Laurino è ciò che quotidianamente accade nei Tribunali amministrativi, civili, penali e nelle Procure, non solo della Sicilia, ma di tutto il Paese, che può capitare a chiunque si trovi a contrapporsi a gruppi di pressione politico-affaristici od organismi istituzionali in posizione dominante, organizzati come vere e proprie mafie, in grado di fare venire meno qualsiasi principio di legalità e rispetto delle più elementari procedure di legge, poste a base del nostro Ordinamento giuridico.

I sistemi usati sono sempre gli stessi: isolare i mobbizzati dal loro ambiente, sottoporli a continui trasferimenti a catena, demolirli moralmente e psicologicamente, affossare le indagini, accanirsi giudizialmente contro di essi, sino a sottoporre le vittime a plurimi procedimenti penali per reati inesistenti, inventati di sana pianta da magistrati zelanti e di parte, quali calunnia, diffamazione, oltraggio, vilipendio, etc. Magistrati pronti a prestarsi in ogni sede inquirente e giudicante a porre in essere ogni tipo di ritorsione, rinvio a giudizio e condanna, onde indurre al totale silenzio i soggetti passivi di tali subdole deviazioni del nostro sistema giudiziario, usato come mezzo per opprimere i cittadini, anziché per tutelare i soggetti più deboli.

Il caso è seguito da alcuni bravi legali siciliani e negli ultimi mesi dalla nostra corrispondente per la Sicilia, che ha vagliato il materiale fattoci pervenire dal Maresciallo Laurino, consentendoci di predisporre la presente presentazione, cosa che continueremo a fare per tutti coloro che vorranno segnalarci i loro casi, dando la loro adesione al Movimento per la Giustizia Robin Hood, che si propone di diffondere un’etica universale dei diritti umani e tutelare le persone indifese dai torti e soprusi del potere.
Al momento non riusciamo ancora a seguire legalmente i tanti casi che ci vengono segnalati da ogni parte d’Italia, essendo la rete di Avvocati senza Frontiere ancora in fase di espansione, ma quanto sicuramente possiamo fare è di dare voce ai più deboli, pubblicando sul sito le loro storie, in modo da spezzare il silenzio di regime su vicende di cui nessuno saprebbe nulla, in modo che i giudici ricordino che la Legge è uguale per tutti e deve venire rispettata per primi da loro stessi.

 

IN MEMORIA DI VALERY MELIS, VITTIMA DI UNA AMBIGUA MISSIONE DI PACE, A BASE DI "URANIO IMPOVERITO"….

IN MEMORIA DI VALERY MELIS, VITTIMA DI UNA AMBIGUA MISSIONE DI PACE, A BASE DI “URANIO IMPOVERITO”….

a cura del “Comitato Genitori militari Caduti in tempi di pace”

Quando nel luglio scorso ci recammo in Sardegna per prendere contatti con i familiari dei militari deceduti a causa dell’uranio impoverito, non sapevamo quanto questo viaggio ci potesse coinvolgere, portando alla luce una serie di storie di pura follia e disumana indifferenza da parte dello Stato e delle Istituzioni.

Abbiamo compreso che non eravamo i soli genitori ad essere le uniche “vittime sacrificali” dei soliti trucchi, bugie e ipocrisie, con cui di norma vengono ripagati i parenti dei giovani militari, che hanno dimostrato lealtà, fiducia e amore verso il Paese, tanto da offrire la loro stessa vita. Il giorno del nostro “l’Unione Sarda” pubblica la morte di Fabio Porru, giovane cagliaritano di 29 anni, caporalmaggiore della Brigata Sassari, ucciso dalla leucemia dopo tre anni di malattia “guadagnata sul campo” dopo una delle tante “missioni di pace” in Bosnia.

Nella stessa pagina viene pubblicata la lettera del Tenente Cristiano Pireddu, il quale attraverso il giornale invia una lettera aperta al Capo dello Stato, Ciampi, dall’emblematico titolo “lo Stato ha dimenticato Valery”. Ed è così che poco dopo con vivo sgomento apprendiamo che il Ten. Pireddu è stato sospeso con effetto immediato dal servizio e dallo stipendio…!

Incontrammo i genitori del soldato Salvatore Vacca di Nuxsis, morto a causa della leucemia, pure guadagnata nei Balcani in “missione di pace”. Incontrammo anche il fratello del soldato Giuseppe Pintus di Assemini, anch’egli deceduto di ritorno da altra “missione di pace” …!

Non trovammo invece il Caporalmaggiore Valery Melis di Quartu S. Elena. In quei giorni Egli era ricoverato nella nostra città di Milano, città dalla quale faceva la spola da ormai tre anni a causa di cure presso l’Istituto Oncologico Europeo, affetto da “linfoma di Hodgkin”. Malattia di guerra contratta a causa delle due missioni di pace nei Balcani (in Kosovo e Macedonia), ove i nostri alleati americani hanno sganciato le famigerate bombe all’uranio impoverito dagli effetti micidiali e di cui l’Esercito Italiano si è sempre ben guardato dal rivelare la nocività, anzi facendo di tutto per nasconderne i reali pericoli, condannando a morte (in tempi di pace) i nostri poveri figli.

Per quattro anni, fino alla morte Valery è stato abbandonato dallo Stato, il quale si è limitato a risarcire solo il 40% delle spesi di viaggi e soggiorni ai familiari, costretti anch’Essi a condividere la sofferenza del figlio (spese peraltro recuperate con molti mesi di ritardo e dietro defatiganti procedure).

La Sua famiglia è stata lasciata nelle maglie della burocrazia e della indifferenza. I genitori hanno dovuto vagare da un ospedale all’altro (Cagliari, Napoli, Milano alla ricerca di un miracolo che non si è avverato), senza ricevere le cure che avrebbe potuto ricevere negli Stati Uniti, in quanto “non previste” dal ns. sistema sanitario.

Valery, un ragazzone di 1 metro e 83 cm, dal viso sereno e sempre sorridente, anche quando ormai privo di capelli, bruciati dalla chemioterapia e dalla debolezza che non lo sorreggevano più. A chiunque gli chiedeva come stava, rispondeva sempre con un sorriso malinconico: Bene, Bene.

A settembre un trapianto di cellule staminali estratte dalla sorella, ma ci si rende subito conto che non va bene (altri due casi eseguiti contemporaneamente su altri due pazienti si rivelano subito mortali).

Subito dopo subentra un blocco renale acuto che lo costringe a dialisi renale presso l’Ospedale Humanitas, dialisi che si effettua ogni 48 ore a mezzo di lettiga che lo trasporta da un ospedale all’altro finché non viene trasferito definitivamente. Ma il destino ormai segnato si accanisce oltremodo su di lui con una nuova complicanza: il sopraggiungere di una insufficienza respiratoria tonica e la necessità di vivere quotidianamente con la maschera d’ossigeno e febbre alta continuamente. Qui giunto, sicuramente Egli percepisce la fine ormai prossima. Vuole tornare a casa nella Sua Sardegna.

Nel silenzio assoluto delle Istituzioni, si sta consumando l’esistenza di un altro martire ed eroe. Sentiamo la mamma tutti i giorni, ci racconta del male che incalza inesorabilmente nel più assoluto silenzio.

Nasce in noi la rabbia e un estremo tentativo di scuotere l’opinione pubblica da sempre disinformata, ma soprattutto i vertici delle Istituzioni; così, parafrasando un noto film americano, tentiamo l’ultimo appello: SALVIAMO IL SOLDATO MELIS. Grazie al computer inviamo l’appello via e-mail al Capo dello Stato, al Presidente del Consiglio, al Ministro della Difesa e al Ministro della Salute e fornendo gli indirizzi di posta elettronica lo inviamo a quante più persone conosciamo, con preghiera di inviarli a quante più persone, amici, parenti o solo conoscenti che a loro volta li inviano ad altri.

Il Cagliari Calcio e tutti i suoi giocatori che da sempre gli sono stati vicino giocano una partita indossando una maglietta con scritto a caratteri cubitali: VALERY MELIS, VOI l’avete dimenticato! NOI NO !!!

Valery Melis ci ha lasciati la sera di mercoledì 4 febbraio 2004, alle 22,30, attorniato come sempre dai soli genitori, dal fratello e dalla sorella. Solo quattro ore prima forse disturbati da una valanga di e-mail da Roma arriva via telefono l’offerta di un aereo militare pronto a trasportarlo ovunque i familiari desiderano. Ironia della sorte dopo tanto silenzio il tentativo di mettersi a posto le coscienze.

Anna Cremona e Angelo Garro

 

AVVOCATURA COMUNALE, GIUDICI E CANCELLIERI FUORILEGGE: L'ALTRA FACCIA DELLA GIUSTIZIA

AVVOCATURA COMUNALE, GIUDICI E CANCELLIERI FUORILEGGE:

L’ALTRA FACCIA DELLA GIUSTIZIA

Qui di seguito, Vi narriamo l’incredibile odissea giudiziaria dei processi civili, amministrativi e penali, contro l’Amministrazione Comunale e i suoi funzionari, che si trascinano dal 1996, con il beneplacito dei vari giudici via via incaricati, in relazione alla rivendicazione dei più elementari diritti del Movimento per la Giustizia Robin Hood.

Con citazione del 23.10.96, il Movimento per la Giustizia Robin Hood, quale O.N.L.U.S., citava in giudizio il Comune di Milano, onde far cessare l’azione persecutoria in atto nei suoi confronti, volta ad estrometterla con metodi illegali e discriminatori dalla sua sede di Via Dogana 2 in Milano, nonché a soffocare (ricorrendo anche a ripetute violenze e minacce), le sue legittime attività petitorie di raccolta firme, a sostegno di mani pulite e della legalità (molti ricorderanno i banchetti sparsi in tutta Milano, spesso oggetto di sequestri arbitrari e aggressioni da parte di Vigili e Carabinieri).

Si chiedeva di fare luce, altresì, sulle responsabilità di alcuni cancellieri (tra cui il Dirigente, Dr. Minori) che, in concorso con l’Avvocatura Comunale, avevano falsificato una precedente ordinanza, passata in giudicato, che respingeva la domanda di rilascio della sede del Movimento per la Giustizia, nonché sull’anomalo svolgimento della causa civile (ove addirittura è sparito il fascicolo d’ufficio per oltre 4 anni).

Fatti per cui si è richiesto, nei giorni scorsi, la riapertura dei procedimenti affossati e/o arbitrariamente archiviati (R.G.N.R. 4966/96/21, P.M. Napoleone e 4954/99/44, P.M. Gittardi).

La citazione veniva notificata anche al P.M. di Milano, dr. Fabio Napoleone, quale titolare del proc. N. 4966/96/21 (allo stato affossato), il quale già procedeva in relazione all’illecito rilascio di due pretese “copie conformi” dell’ordinanza 1.7.96 del Pretore di Milano, dr. Certo, dolosamente alterate nella parte relativa alla relazione di notifica ricevuta dal Comune di Milano, che era stata scientemente rimossa, in esecuzione del preordinato disegno della P.A. di estromettere con ogni mezzo, il Movimento per la Giustizia dalla sua sede, onde paralizzarne le scomode attività.

Tale espediente, degno di miglior causa, veniva, infatti, attuato (grazie ad oscure connivenze negli uffici giudiziari), allo scopo precipuo di consentire alla difesa del Comune di Milano di proporre, oltre il termine perentorio di gg. 10 dalla notifica, in pieno periodo feriale, un tardivo quanto improcedibile reclamo, ex art. 669 terdecies c.p.c., avverso l’ordinanza 1.7.96, che respingeva la richiesta per la reintegra nel possesso dei locali sede dell’Associazione (singolarmente, la discussione del reclamo veniva fissata la vigilia di ferragosto del 1996…).

Con tale citazione si chiedeva, pertanto, accertarsi, in via principale, la falsità materiale e/o ideologica delle copie conformi della predetta ordinanza, prodotte in giudizio dalla difesa Comune di Milano, oltre ad una serie di ulteriori atti e mendaci attestazioni, relative al rapporto locativo dell’immobile per cui è causa, volte ad aprire una partita contabile, per somme esorbitanti e non dovute.

Onde capacitare il lettore dell’accanimento persecutorio e della valenza offensiva dei molteplici comportamenti posti in essere dalla P.A., in danno del Movimento per la Giustizia, giova precisare che, dopo il sequestro della prima “copia conforme”, eseguito dal P.M. il 29.8.96, l’Avvocatura Comunale, ignorando il provvedimento dell’A.G. penale, allo scopo di mantenere in piedi il reclamo, in data 30.8.96, produceva una seconda “copia autentica”, identica alla prima (con le medesime falsità), rilasciatagli dal Dirigente della Cancelleria Centrale, dr. Minori…!!!

Circa le denunciate connivenze va ricordato che lo stesso, Dr. Minori, riporterà, poi, recentemente, “alla luce”, in circostanze non ancora chiarite dal Presidente Istruttore, della 1^ sezione civile, Dr. TARANTOLA, il fascicolo di causa, su cui la difesa del Movimento per la Giustizia ha investito il giudice di disporre accertamenti sull’anomala sottrazione per oltre 4 anni, notiziandone la competente Procura di Brescia (cosa su cui si è tuttora in attesa dei relativi provvedimenti, seppure la causa sia stata ormai assegnata a sentenza).

Dopo avere illustrato e ampiamente documentato le continue persecuzioni a cui sono stati sottoposti gli attivisti dell’Associazione, tutt’oggi persistenti (attraverso continue turbative, irruzioni senza mandato, sequestri di banchetti per la raccolta di firme, materiali di propaganda, fermi, dinieghi di assegnazione locali, sussidi e finanche di occupazione di suolo pubblico per attività petitorie e mostre umanitarie, nonché campagne diffamatorie a mezzo stampa e TG4), si chiedeva, quindi, oltre all’accertamento della falsità degli atti sopraindicati, di inibirsi, in via cautelare, qualsiasi ulteriore turbativa delle legittime attività petitorie del Movimento per la Giustizia, ordinandosi al Comune di Milano l’indifferibile rilascio delle autorizzazioni richieste; ordinandosi, altresì, l’erogazione dei sussidi previsti per le ONLUS.

Nel merito, veniva richiesto di accertarsi e dichiararsi la conclusione di un contratto locativo, tra il Comune di Milano e il Movimento per la Giustizia, a decorrere dal 24.12.94, data della consegna dei locali di Via Dogana 2 e dell’iniziale rapporto di comodato gratuito (in cambio della ristrutturazione degli stessi). Infine, veniva, richiesto di accertarsi la misura del canone, tenuto conto delle agevolazioni concesse alle ONLUS e degli affitti praticati in zona ad altre associazioni, condannandosi il Comune di Milano, ex art. 2043 c.c., al risarcimento dei danni, derivanti dai comportamenti “contra legem” .

Con ricorso ex art. 700 c.p.c., in corso di causa, depositato il 25.10.96, venivano ribadite tutte le richieste cautelari, disponendosi l’acquisizione, in originale, degli atti impugnati di falso e facendo rilevare l’irreparabilità del pregiudizio in essere, derivante dalla lesione di fondamentali diritti politici e soggettivi, ovvero dall’atteggiamento apertamente prevaricatorio, tenuto dalla P.A., volto a soffocare, in radice, qualsiasi legittima attività del soggetto passivo.

Senza provvedere all’acquisizione degli atti impugnati di falso, né a notiziare il P.M., onde consentirgli di conoscere la causa, il G.I. dr. Cappabianca fissava udienza per il 13.12.96, ove a prova dell’esistenza di oscuri interessi dietro il comportamento discriminatorio della P.A., si faceva rilevare circa la pretesa “natura amministrativa” degli atti di diniego che non può più parlarsi di natura amministrativa dell’atto, quando la P.A. pone in essere comportamenti di natura illegittima, che esorbitano le sue funzioni, integrando violazione di un diritto soggettivo pubblico (come è quello di raccogliere firme), assumendo, altresì, rilevanza penale.

Avverso l’ordinanza riservata di rigetto, in data 19.12.96, veniva proposto reclamo, facendo rilevare che il G.I. aveva da una parte omesso di provvedere all’acquisizione degli atti impugnati di falso e di notiziare il P.M. (definendola attività istruttoria) e dall’altra di prendere atto che il sistematico ricorso a comportamenti illeciti e prevaricatori di diritti soggettivi, costituzionalmente protetti, imponeva all’A.G.O. di inibire tali condotte, non riconducibili ad atti legittimi e alle funzioni proprie della P.A. Il reclamo veniva, poi, respinto dal collegio presieduto dal DR. PATRONE e dal DR. BONARETTI (relatore), nei cui confronti risultavano in precedenza sporti più esposti, in relazione alla sparizione di altri fascicoli di ufficio e all’affossamento dei relativi procedimenti attinenti rilevanti interessi economici di noti personaggi legati a Tangentopoli.

All’udienza del 14.5.97 si insisteva per l’acquisizione degli atti impugnati di falso e nei mezzi di prova dedotti, facendo rilevare la persistenza del pregiudizio e il pericolo nel ritardo, derivante dal perdurante diniego di occupare suolo pubblico, in relazione alla promozione della mostra “Pittori contro la guerra” (tenacemente boicottata dal Comune di Milano e dalla Federazione Milanese del PDS – vedasi storia a parte), seppure patrocinata dall’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra, dalla Commissione Europea e dall’UNICEF.

Il ricorso veniva ancora una volta, pretestuosamente, respinto e all’udienza 20.5.98, prendendo atto della ricusazione proposta nei suoi confronti, il dr. Cappabianca sospendeva il procedimento, disponendo la trasmissione degli atti al Presidente del Tribunale. Dopo di che il buio assoluto per 5 anni!

SUL FUMUS PERSECUTIONIS E IL DOLO DELLA P.A.

Mentre la “mafia giudiziaria” riusciva così a fare sparire per svariati anni il fascicolo di ufficio, imponendo alla Procura di affossare ogni procedimento, pur trattandosi di gravi reati contro la P.A. (quale è la falsificazione di una Ordinanza del Pretore, passata in giudicato), l’Amministrazione Comunale si faceva giustizia da sé, riprendendosi con la forza i locali di Via Dogana 2.

Attraverso un vero e proprio blitz, senza alcuna autorizzazione dell’A.G.O., che nel frattempo aveva respinto, anche in appello, qualsiasi richiesta in tal senso, condannando, per di più, il Comune di Milano alle spese di lite, il Movimento per la Giustizia veniva spogliato, con violenza e minaccia, di oltre 400 opere d’arte e di tutte le sue attrezzature di ufficio, tra cui computers, fascicoli processuali, archivi, etc. (v. storia a parte).

Che si tratti di una lucida e preordinata strategia persecutoria si può ben intuire dalla circostanza che, il Comune di Milano era perfettamente a conoscenza che i locali in menzione erano esclusivamente adibiti a sede dell’Associazione per l’organizzazione di conferenze, mostre, umanitarie, dibattiti, seminari e “attività socio-culturali, attinenti problematiche ecologiche, legali e politiche”, come attestato dalla stessa U.S.L. di zona, in data 22.1.96, su richiesta di accertamenti dello stesso Comune di Milano.

Ciò nonostante, in spregio alla Verità e alle più elementari regole di buone fede nell’espletamento delle proprie alte funzioni istituzionali, il Comune di Milano, fingendo che sarebbero stati occupati abusivamente da privati, per iniziative non consentite, con Ordinanza Sindacale, in data 13.2.96, si è spinto al punto di ordinare la chiusura del preteso “esercizio pubblico”, nel quale si sarebbero somministrate… (sic!) “bevande alcoliche” .

Attività umanitarie, invero, nei cui confronti l’Amministrazione Comunale, attraverso i suoi funzionari, doveva e deve nutrire evidentemente un accanito “odio politico”, avendo sempre cercato di disconoscere l’esistenza stessa del Movimento per la Giustizia Robin Hood e delle iniziative da questo promosse, seppure patrocinate dalle maggiori autorità in campo internazionale, tra cui l’UNESCO, l’Alto Commissariato per i Diritti Umani, la Commissione Europea, la Regione Lombardia e la Provincia di Milano.

In proposito, va ribadita la denuncia dello scandaloso boicottaggio della mostra umanitaria “Pittori contro la guerra” (di cui sono state svolte ben tre edizioni), che il Comune di Milano si è spinto a sostenere che non sarebbe, neppure, esistita, rifiutando qualsiasi sostegno – invece concesso dalla Provincia di Milano, dalla Regione Lombardia e da svariate autorità sovranazionali – per, poi, infine, smantellare l’intera mostra, in data 8.6.99, attraverso una preordinata azione di spoglio clandestino (approfittando della momentanea assenza degli attivisti impegnati in una manifestazione alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo a Strasburgo), asportando con violenza e minaccia su persone e cose, senza alcuna cura né perizia tecnica, oltre 400 opere e sculture, in gran parte andate disperse o distrutte, oltre arredi, fascicoli processuali, computer e attrezzature di ufficio, pure, in gran parte, andati dispersi, stante l’assenza di inventario, di personale specializzato e l’omessa notifica di qualsiasi preavviso di rilascio e titolo legittimo per procedere (v. la Voce di Robin Hood n. 0).

SULL’ILLEGITTIMITA’ DELLO SPOGLIO VIOLENTO E CLANDESTINO

Sulle modalità illegittime dello sgombero attuato dalla Polizia municipale, in assenza di qualsiasi valido titolo esecutivo, ovvero di valida notifica nei confronti dell’effettivo detentore dell’immobile, è poi doveroso denunciare l’illegittimo rigetto del ricorso, ex art. 703 c.p.c., tempestivamente proposto in data 18.6.99, nonché il successivo reclamo, da parte della Dr.ssa D’ORSI, nonché l’ulteriore ricorso, in sede amministrativa, avanti al TAR ed al Consiglio di Stato.

Ricorsi, tutti, illegittimamente disattesi, con motivazioni incongrue, capziose e prive di qualsiasi logicità ed, infine, oggi, riproposti al Dr. TARANTOLA, di cui è attesa la sentenza a breve.

Circa le domande cautelari volte a tutelare i diritti politici dell’Associazione, in relazione alla sue attività petitorie e ai reiterati dinieghi di occupazione di suolo pubblico, ripetuti per circa nove anni consecutivi, nonché circa le ulteriori domande di inibitoria e di sussidi, si rileva che trattasi di domande strettamente connesse a quelle di merito per cui si insiste per l’accoglimento.

Per la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione si è infatti ricordato come “le azioni possessorie contro l’amministrazione pubblica siano pienamente ammissibili, ove quest’ultima abbia agito “iure privatorum” o abbia posto in essere un comportamento che non si ricolleghi a un provvedimento amministrativo legittimo o giuridicamente esistente, ma si concreti e si risolva in una semplice attività materiale, in quanto per il G.O., in tale ipotesi non opera il divieto di condanna dell’amministrazione ad “un facere”, il quale si applica in relazione alle attività da quest’ultima compiute nell’ambito dei suoi poteri e delle sue finalità istituzionali” (Cass. n. 5136 del 9.6.97, n 1713 e 891 del 1955 n. 9459 del 1989, n. 1151 del 1993).

Orientamento ribadito, anche, dalle Sezioni Unite che hanno più volte avuto occasione di precisare che l’esperibilità del rimedio di cui all’art. 700, nei confronti della P.A. è pacificamente ammesso qualora si tratti, “non già dell’adozione di provvedimenti nell’ambito di svolgimento dell’azione amministrativa, bensì della rimozione di situazione materiali, riconducibili alla iniziativa della P.A., che si presentino in contrasto con i precetti posti dalla prudenza e dalla tecnica a salvaguardia dei diritti soggettivi altrui” (C. n. 2148/92).

SULL’OBBLIGATORIETA’ DELL’INTERVENTO DEL P.M. E LA NULLITA’ DELL’INTERO PROCEDIMENTO PER INVALIDA COSTITUZIONE DEL GIUDICE MONOCRATICO

Sul punto si è rilevata la pregiudiziale e assorbente eccezione della necessaria rimessione in ruolo della causa e di chiamata del P.M., al fine di consentirgli di conoscere la causa e di svolgere le proprie autonome conclusioni. In proposito si ricorda che ai sensi degli artt. 50 bis e quater c.p.c. e del nuovo testo, art. 48, c. II, ordinamento giudiziario, di cui al R.D. 30.1.1941 n 12, trattasi di causa da decidere in sede collegiale, sia perché concerne la proposizione di una querela di falso, sia in quanto le relative questioni di diritto sono state più volte al vaglio dell’organo collegiale, a seguito dei diversi reclami proposti.

Giova ricordare ancora che anche nel caso di querela proposta “incidenter” nell’ambito di una causa devoluta al giudice monocratico, sorge una ipotesi di connessione per dipendenza e cumulo oggettivo di causa che, stante il nuovo art .281 nonies c.p.c., impone al G.I. di ordinarne la riunione e, all’esito dell’istruttoria di rimetterle al collegio che pronuncerà su tutte le domande, salva separazione (art 279 comm. II n. 5 cpc).

Nella specie pertanto ex art 281 octies c.p.c. il giudice ha l’obbligo di rimettere la causa al collegio, provvedendo ai sensi degli art 187, 188, 189 cpc, previa remissione in ruolo della causa e notiziazione del P.M., onde consentirgli come detto di svolgere proprie autonome conclusioni, sussistendo in difetto, nullità assoluta dell’intero procedimento e dell’eventuale sentenza per violazione delle norme sull’integrità del contraddittorio, riconducibile all’ipotesi di cui all’art 158 c.p.c. (C. 21.5.98 n 5067, C. 6.3.92 n 2699, C. 26.6.92 n 7992 e altre conformi).

SULLA AMMISSIBILITA’ DELLA QUERELA DI FALSO

Sul punto si è invece ribadito l’orientamento costante della Suprema Corte che, trattandosi di querela proposta, in via principale, rileva come non siano sindacabili dal Giudice né tantomeno dalla controparte, le ragioni di fatto per cui la stessa è proposta, dovendosi attenere l’esame esclusivamente al giudizio sull’autenticità o meno dell’atto e/o sulla veridicità delle dichiarazioni ivi contenute. In particolare, si è affermato che “nel giudizio in via principale il giudice non può sindacare la rilevanza del documento rispetto ai fatti che si intendono provare, ma deve accertare la sussistenza di una contestazione sulla genuinità del documento” (C. 27.7.91 n. 9013).

Né, d’altro canto, può, sensatamente, affermarsi che il Movimento per la Giustizia non avrebbe interesse a coltivare la proposta querela principale di falso, posto che al di là dell’evidente abnormità di tale poco meditata considerazione, in palese violazione dell’art. 112 c.p.c. (per cui sussiste l’ineludibile obbligo, da parte del giudice, di pronunciare su tutte le domande), appare ictu oculi palese che l’accertamento delle denunciate falsità materiali e/o ideologiche degli atti impugnati, è strettamente funzionale alla dimostrazione della sussistenza di una più ampia azione persecutoria paralegale, senza esclusione di mezzi, volta a paralizzare le stesse iniziative giudiziarie intraprese dall’attrice a tutela delle sue attività e diritti fondamentali.

Come si può permettere che il Comune di Milano, capitale del Volontariato, lasci da oltre 5 anni una ONLUS, per quanto scomoda, priva di qualsiasi sostegno e sede dove continuare le proprie attività umanitarie, violando i più inderogabili doveri di solidarietà politica ed economica?

Domande tutte, a cui si confida, saprà dare esaustiva e congrua risposta riparatoria, l’emananda sentenza.

 

CASE POPOLARI: UNA SENTENZA IN FAVORE DELLA MAFIA POLITICA TRIBUNALE DI MILANO

 CASE POPOLARI: UNA SENTENZA IN FAVORE DELLA MAFIA POLITICA

A partire degli anni ’70, 200 assegnatari di alloggi popolari si erano rivolti all’Autorità Giudiziaria, chiedendo accertarsi il vincolo di pertinenzialità dei box e la restituzione dei canoni pagati in eccedenza, a seguito dell’indebita pretesa di ex IACP (ora ALER) di esigere canoni a valori di libero mercato.

I legali del Movimento per la Giustizia Robin Hood che hanno patrocinato, gratuitamente, la causa, intervenendo in giudizio quale O.N.L.U.S., denunciano la palese illegittimità della sentenza e l’omessa applicazione, da parte del Tribunale, degli artt. 817 e 818 c.c. che fissano i principi inderogabili, in base ai quali viene regolato il regime delle pertinenze tra alloggio e box.

E’, infatti, da ritenersi pacifico che in base ai Bandi di concorso, ai contratti di assegnazione e alle vigenti leggi sulle locazioni urbane, gli Istituti Case Popolari non possano liberamente determinare il canone dei box, in quanto assegnati quali pertinenze.

Cosa, invece, contrastata dall’ALER che sostiene che il box sia un “bene di lusso”, non meritevole della stessa tutela riservata all’edilizia abitativa, da considerarsi alla stregua di un’unità commerciale.

Singolarmente il Tribunale ha accolto questa bizzarra tesi senza fornire alcuna motivazione sul punto e senza tener conto della costante giurisprudenza dello stesso Tribunale e della Corte d’Appello di Milano, nonché della Cassazione, favorvole agli inquilini.

Ciò, mentre i box delle case degli Enti pubblici assegnate ai magistrati (con stipendi 10 volte superiori ai pensionati minimi dell’ALER) continuano a venire considerati pertinenze !

Del caso si sta occupando la 1^ Commissione Referente del Consiglio Superiore della Magistratura e la Procura di Brescia in quanto la dr.ssa Peschiera, in base all’Ordinamento del C.S.M.,, non può esercitare le sue funzioni giudicanti nello stesso Distretto di Corte di Appello in cui svolge la professione di avvocato il di lei marito.

Si ipotizzano i reati di malversazione, abuso d’ufficio e falso ideologico, finalizzati a favorire gli interessi dei partiti che controllano l’ALER, onde procurare un flusso ininterrotto di illeciti profitti, valutabile in svariate centinaia di miliardi, se si considerano le circa 9000 famiglie, assegnatarie di alloggi popolari, costrette a versare, da oltre 25 anni, canoni di locazione non dovuti, nonché a riscattare i box, separatamente dall’alloggio, a valori di libero mercato che hanno raggiunto circa 20.000 euro !

Si tratta, sicuramente, della causa più lunga nella storia del diritto del lavoro in Italia.

I legali di “A.S.F.” preannunciano appello e ricorso alla Corte di Strasburgo, in quanto i cittadini non sono più disposti a farsi defraudare dei loro diritti nè dall’ALER nè, tantomeno, da quei magistrati che non applicano le leggi, assecondando gli interessi del potere.

Corre l’obbligo di denunciare che questo comunicato è stato diffuso a tutte le agenzie giornalistiche, senza che nessun quotidiano riportasse la notizia, seppure di rilevante interesse per ben 9000 famiglie lombarde assegnatarie di alloggi popolari.

Evidentemente, si teme che la gente conosca la verità sul reale funzionamento della giustizia, che se ne parli e si organizzi di conseguenza.

DUECENTO CAUSE CONTRO L'ALER PER COLPA DEI BOX

DUECENTO CAUSE CONTRO L’ALER PER COLPA DEI BOX

I residenti difesi da “Avvocati senza frontiere” specializzati nelle ingiustizie ai danni dei cittadini. I procedimenti, iniziati nel 1978…..
(articolo di Manuela D’Alessandro – 30 aprile 2004 “Libero”).
[Cronaca di Milano]