RIFIUTI TOSSICI & MASSOMAFIE: I MAGISTRATI HANNO LE MANI LEGATE?

‘Ndrangheta, ex boss al Tg1: “Rifiuti tossici sono grande affare”
 13 ottobre 2008 – Ansa

In un’intervista esclusiva al TG1 un ex boss della ‘ndrangheta parlando del business dello smaltimento illegale dei rifiuti tossici e della Jolly Rosso, affermava che: ”Dietro allo smaltimento illegale dei rifiuti tossici c’e’ un flusso di denaro inimmaginabile”, aggiungendo poi con notevole senso critico e aderenza alla realtà che: “Quando un magistrato ha per le mani un’inchiesta del genere riesce a fare quello che gli è permesso di fare”.

Si riferiva alla capacità delle «massomafie», scoperchiate dall’ex Procuratore di Palmi Agostino Cordova nella prima metà degli anni ’90, di condizionare l’attività della magistratura, tramite la massoneria e la politica.    

 A dirlo, in un’intervista esclusiva al Tg1 e’ un ex boss della ‘ndrangheta. ”Non basta una finanziaria – spiega il collaboratore il giustizia intervistato di spalle – per spiegare i soldi che ci sono dietro questi traffici. un traffico che e’ piu’ remunerativo anche della droga”. ”Siamo stati interpellati – racconta – dal dirigente di un’industria per smaltire una marea di rifiuti radioattivi che usciva dai loro capannoni e che non potevano essere smaltiti come rifiuti legali”.

L’ex boss parla anche delle navi cariche di veleni fatte affondare in mare.

”Diverse navi, diciamo qualche decina sono state affondate – dice – con il loro carico di rifiuti tossici e radioattivi.

La Jolly Rosso e’ una di queste”. ”Tutto questo – afferma – e’ avvenuto con l’appoggio della politica.

Quando un magistrato ha per le mani un’inchiesta del genere riesce a fare quello che gli e’ permesso di fare”. (ANSA). 

Link correlati: http://www.strill.it/index.php?option=com_content&view=…g1-qr

www.lavocedirobinhood.it/Articolo.asp?id=205&titolo=LEGA NORD–MAFIA LOMBARDA. CIO’ CHE SAVIANO NON DICE O NON SA? «STATO E MASSOMAFIE COME UNICO SISTEMA»

DE BENEDETTI, EUGENIO SCALFARI E LA MASSONERIA. UNA VITA PER IL POTERE

De Benedetti, Eugenio Scalfari e la massoneria. Una vita per il potere. 
L’appartenenza di Berlusconi alla loggia p2 in Italia la conoscono tutti… Molto più reticenza, invece, c’è sul suo grande avversario politico e mediatico De Benedetti, ex patron dell’Olivetti, che possiede la Repubblica, l’Espresso, e decine di altri giornali locali, e che ha permesso in buona parte l’ascesa prima di Rutelli e poi di Veltroni…
Analoga reticenza incombe su Eugenio Scalfari, dal cui pulpito del quotidiano la Repubblica negli anni precedenti l’accesa diaspora con Berlusconi mai si è sentito affrontare con onestà intellettuale e trasparenza lo scottante tema delle «massomafie» e della capacità di condizionamento della magistratura e delle istituzioni democratiche. 
Sentiamo cosa scrivono su di loro, partendo da De Benedetti: 
Ferruccio Pinotti in “Fratelli d’Italia” (Edizioni Bur):
“De Benedetti risulta essere entrato nella massoneria a Torino, nella loggia Cavour del Grande Oriente d’Italia (GOI), ‘regolarizzato col grado di Maestro il 18 marzo 1975 con brevetto n.21272’ (Ansa, 5 novembre 1993).
L’informazione è accertata in quanto proviene direttamente dal Gran Maestro del Goi Gustavo Raffi, che lo ha dichiarato pubblicamente nel 1993…. Il Gran Maestro Raffi ha affermato che De Benedetti era ‘proveniente dalla massoneria di piazza del Gesù’. Quindi la sua affiliazione dovrebbe essere anteriore: a quando risale? Ancora più interessante sarebbe capire a quale loggia di piazza del Gesù appartenesse l’imprenditore. E’ noto infatti che la massoneria di piazza del Gesù, molto forte in Piemonte, aveva al pari del GOI delle logge coperte, la più celebre delle quali è stata Giustizia e Libertà, cui sarebbero appartenuti Cuccia, Merzagora, Carli e altre figure della finanza laica. Sembra inoltre che la Giustizia e Libertà sia confluita nel Grande Oriente nel 1973. Ma De Benedetti non è entrato nel Goi col grado di Apprendista: era già Maestro in una non meglio identificata loggia di piazza del Gesù. Quale? Impossibile stabilirlo, certo è curioso che molti anni dopo De Benedetti lanci un’iniziativa politica chiamata «Libertà e Giustizia», con Enzo Biagi, Umberto Veronesi, Giovanni Sartori, Umberto Eco, Claudio Magris….
“Sta di fatto che, secondo Raffi, De Benedetti resta nel Grande Oriente, come Maestro, dal marzo 1975 al dicembre 1982. Un periodo estremamante significativo, in cui accadono molti eventi forti legati alla massoneria. Un anno dopo l’ammissione al Grande Oriente, nel 1976, a De Benedetti viene affidata la carica di amministratore delegato della Fiat…”.
De Bendedetti entra ed esce dalla massoneria come da un taxi ” (Stefano Cigolani) 

————————————————————————————————————————————————————–Eugenio Scalfari e la massoneria. Una vita per il potere.

Ecco cosa scrive su di lui Giancarlo Perna nella “biografia non autorizzata” dal titolo: «Scalfari – Una vita per il potere»  (Leonardo editore, 1990), accolta al suo apparire, come scrisse l’autore, da un “fragoroso silenzio stampa“.

Leggiamo da p. 13 e seguenti: “Come tutti, Eugenio ha aderito al GUF, la gioventù universitaria fascista. La sede è palazzo Braschi. Ecco perchè è lì, lontano dall’università, a due passi da piazza Navona, un giorno dell’inizio del ’42“. 

Scalfari ha un’ispirazione: collaborare a “Roma fascista”, il settimanale del movimento… In redazione c’è Ferruccio Troiani col quale Eugenio simpatizza. Negli anni Cinquanta, saranno insieme all'”Europeo”. C’è Enzo Forcella, oggi editorialista di “Repubblica” e consigliere comunale di Roma eletto nelle liste comuniste nell’autunno del 1989. C’è Paolo Sylos Labini, futuro grande economista e collaboratore di “Repubblica”. Ci sono Luciano Salce e Massino Franciosa, registi cinematografici di sinistra degli anni Sessanta”… “Su “Roma fascista” Eugenio si mette subito in luce. Per sei mesi la inonda di corsivi e articoli…Un paio di brani, tanto per capire. E’ il 16 Luglio del 1942. Gli piace Mussolini. Ma la guerra va male. Ci sono critiche. Il ragazzo insorge: “Noi siamo pronti a marciare, a costo di qualsiasi sacrificio, contro tutti coloro che tentano di fare mercimonio della nostra passione e della nostra fede. E ancora oggi è la stessa voce del Capo che ci guida e ci addita le mete da attingere“. Titolo: Aristocrazia”. “Passa l’estate e gli viene il pallino dell’impero e della razza italiana. Il 24 Settembre esce l’articolo: Volontà di potenza. “Gli imperi quali noi li concepiamo” scrive Scalfari con un sussiego che sopravviverà al crollo del regime “sono basati sul cardine di razza escludendo perciò l’estensione della cittadinanza da parte dello Stato Nucleo alle altre genti“. “In redazione si va due volte alla settimana. Una per concordare i contenuti dell’articolo. L’altra per consegnarlo. Ma per festeggiare il ventennale della marcia su Roma col numero del 28 Ottobre 1942, Pintus [il direttore] convoca una megariunione dei redattori. I giovani decidono di fare un giornale di fuoco. Si sentono tutti moschettieri del Duce attorniato, secondo loro, da imbelli, pancepiene e traditori”.

“Ne viene fuori un numero che è un inno al fascismo rivoluzionario delle origini, allo stato etico, allo stato sociale sul tipo della futura repubblica di Salò, e compagnia cantante. Titolo di copertina: Primo ventennio: avanti verso la rivoluzione sociale. Mussolini, che aveva altre gatte da pelare, prende i redattori per dei pericolosi imbecilli. Chiude il settimanale colpevole di eccesso di zelo e manda tutti a spasso”. “Fascismo e GUF”, continua Perna, “erano comunque agli sgoccioli. Comincia a tirare un’altra aria. Quattro mesi dopo le riflessioni sull’imperialrazza, Scalfari ha già infilato un piede e mezzo nell’antifascismo”.

Nel libro di Giancarlo Perna, Scalfari, una vita per il potere, leggiamo anche: «Scalfari-padre era massone. Una tradizione di famiglia. Il capostipite fu don Antonio, che, a cavallo tra il sette e l’ottocento, fondò la Loggia della Calabria uniforme (…). Eugenio ha i ritratti degli avi che indossarono il grembiulino appesi nella sua villa di campagna, a Velletri. Su ognuno c’è l’emblema massonico scalfariano: uno scudetto a due campi: uno con la scure e l’altro con il ponte (…). Con la caduta del fascismo (…) Pietro (padre di Eugenio) fu tra i fondatori della loggia locale».

13 luglio 2010 di  Lino Bottaro  e Alfredo Musto Conflitti e Strategie 20 giugno 2010

L’onda lunga del 1992, l’onda lunga della morsa che stringe l’Italia, l’onda lunga della destabilizzazione e della penetrazione dei poteri che stanno sfibrando il tessuto politico, economico e sociale del Paese, mostra la sua forza d’urto riversandosi in ogni campo. Naturalmente, infiltrandosi nei meccanismi dell’informazione e della propaganda, anzi dominandoli.
L’establishment della stampa e dell’editoria ricalca l’impronta di azione e controllo dei soggetti strategici che da decenni reggono le fila di un continuum oramai chiaramente ideologico e caricaturale. Ne costituiscono una formidabile incarnazione Eugenio Scalfari e la sua emanazione Repubblica, espressioni di quel coacervo laico-azionista-massonico che ha caratterizzato fortemente i passaggi storici di questo Paese e a cui si ricollegano personaggi e vicende di primo piano, negli avamposti della politica, della finanza, della cultura così come dietro le quinte dei circoli e degli ambienti di comando e pressione.
I custodi delle verità precostituite e delle letture storiche preconfezionate amano spesso e volentieri menar vanto di lungimiranti intuizioni e di eccelse frequentazioni ideali o effettive. Costruiscono e aderiscono ad un immaginario di personaggi e ad uno scenario di eventi che poi calano sulla cosiddetta opinione pubblica, appositamente indotta o educata a credervi.
Scalfari, noto trombone di siffatto modus agendi, si è così prodigato per sé e per la Nazione nell’encomio di un uomo-simbolo che in tutti questi anni si è voluto piazzare sul piedistallo di moderno Padre della Patria, con tanto di “medaglia” al valore e al merito. Scalfari loda Ciampi, dunque. L’occasione, l’ennesima, è l’uscita del libro-conversazione dell’ex presidente con Arrigo Levi. Dagli spunti che fornisce il fondatore de la Repubblica pare trattarsi di qualcosa decisamente differente dal pregnante “Fotti il potere” di un altro ex presidente quale Cossiga.
In questo suo “Ciampi, le tre vite del presidente. Autoritratto di un servitore dello Stato” [in data 17 giugno], Scalfari va in digressione sulla vita di quello che definisce “un personaggio unico nella storia dell’Italia repubblicana”. Ecco, distanti dalla ferma tenuta liberal-democratica dell’egregio Direttore, molto più volgarmente il Gran Maestro livornese nei nostri ricordi è un dissolutore dello Stato. La sua ascesa alle postazioni di comando è stata figlia dei tempi.
Ciampi rappresenta quella fase di passaggio dalla primazia della politica alla prassi tecnocratica ed economicistica. Costituisce, di fatto, uno di quei personaggi dotati di un apparentemente neutrale sapere tecnico che si è voluto presentare come imprescindibile per muoversi all’interno delle nuove dinamiche globali. Così è accaduto che un Governatore della Banca d’Italia e punto di riferimento di una certa corrente finanziaria con determinati assetti e mire strategiche, sia stato indicato tra i prescelti a condurre il Paese in una fase di instabilità politico-economica.
Tuttavia, se è pur vero che egli viene fuori da e in una situazione d’urgenza, resta il fatto che questa è stata determinata da un insieme di cause scatenati che non piovono dal cielo, ma sono la risultante di quello che può essere definito – a maggior ragione oggi a distanza di anni- un processo di ridisegnamento geopolitico e geoeconomico, all’interno del quale si inserisce a pieno titolo quell’”oscuro” fenomeno null’affatto solo giudiziario che fu Mani Pulite.
Di Ciampi, a differenza delle complici reticenze di Eugenio Scalfari, preferiamo ricordare le sue per nulla sagge iniziative in particolare da Governatore nel ’92 e poi da Presidente del Consiglio nel ’93, a parte quelle da Ministro indiscusso del Tesoro dal ’96 al ’99. La sua esaltazione storiografico-giornalistica è speculare alla mitizzazione fatta di Maastricht, dei suoi parametri eretti a dogmi di fede inattaccabile, e della moneta unica europea.
Negli anni Novanta l’europeismo è tutta un’alchimia tecno-finanziaria. Ciampi è come un profeta. Alla guida di Bankitalia, in combutta con il fanta-socialista Amato e con le centrali della finanza e dei predoni nazionali ed internazionali, operò la scelta della svalutazione della lira. Nei primi mesi del 1992, le parità di cambio all’interno dello SME erano pressoché consolidate, senza che ci fossero particolari oscillazioni oltre i limiti prefissati. Da parte sua, l’Italia presentava una bilancia commerciale nella sostanza equilibrata e un monte di riserve valutarie intorno ai 34 miliardi di ECU, più o meno 52mila miliardi di lire. Nello scombussolamento generale in atto e nel convergere di diversi fattori endogeni ed esogeni, calò una significativa manovra finanziaria a far scricchiolare gli assestamenti degli anni precedenti. Nel mirino c’era, tra le altre monete, la lira. In cabina di regia operavano Soros&soci. I loro bracci armati come l’agenzia di rating Moody’s lanciavano campagne a discredito del Paese.
Al trio Ciampi-Amato-Barucci non poteva sfuggire che un attacco di quel tipo non poteva essere contrastato operando sul mercato dei cambi con una solitaria iniziativa nazionale, anche in virtù delle condizioni di libera convertibilità. Sarebbe stato necessario almeno un sostegno tedesco, il che era evidente non fosse possibile. La Bundesbank non aveva intenzione di tener fede ormai agli accordi SME, la stessa Germania avrebbe tratto vantaggio dalla svalutazione della lira. Così, con larvato autolesionismo o meglio con subdola complicità, si provvedeva ad attuarla con un iniziale 7% poi in crescendo. La lira scivolava via dallo SME. A fronte di un’estemporanea boccata d’ossigeno sarebbero emersi almeno tre fattori, tutti indicativi di una manovra di destabilizzazione: i profitti dell’orda di speculatori, il dissanguamento delle riserve finanziarie e il deprezzamento della vasta gamma di aziende pubbliche per le quali si preparava il de profundis. La consolidata struttura di economia mista italiana entrava praticamente nel ciclone liberista.
Il 2 giugno, sul Britannia, si raggiungeva un’altra tappa del regime change all’italiana. E non casualmente, ma in perfetta sinergia, all’attacco economico-finanziario si affiancava in quel periodo quello politico, all’uopo per via giudiziaria, con l’operazione Mani Pulite (nome in codice cleanhands). Sorvoliamo sulle altrettanto non casuali sanguinarie sortite della Mafia, a proposito delle quali lo stesso tecno-Carlo Azeglio di recente ed il clan di Repubblica da sempre, continuano a fare opera di depistaggio. Evidentemente il nostro Ciampi, in scioltezza spalleggiato da Washington, Londra e Bruxelles, assurgeva a fidato alfiere del processo di sgretolamento predisposto per l’Italia.
In uno scenario politico sempre più cumulo di macerie, nasceva il primo governo tecnico della storia della Repubblica, con a capo il Gran Maestro (aprile ’93- maggio ’94). Sintomo palese di una frattura storica. Prima di lui, fu Badoglio. In seguito ad un colpo di Stato. Allora il ’43, ieri il ’92. E ho detto tutto. Il governo Ciampi non badò, come naturale che fosse, alla tenuta del sistema. Nacque per gestire un itinerario all’interno di una transizione eterodiretta. In quei giorni si consumò la liquidazione dei vecchi partiti baluardo di un dato assetto, di una data politica; si redisse una riforma elettorale di tipo maggioritario e si avviò tutto quell’infausto processo di dismissioni-privatizzazioni che segnerà il ciclo degli anni Novanta, di chiara matrice centro-sinistra. Ci preparavamo a “fare all’americana
Le sue parole al convegno I Nobel a Milano, riecheggiano la solita solfa del linguaggio moderno-liberista: “… i mali d’Italia si identificano in tre rigidità: quella del sistema economico finanziario, basato su grandi imprese in gran parte di proprietà pubblica incapaci di sviluppare un vero mercato del capitale di rischio; la rigidità del mercato del lavoro e del sistema fiscale; la rigidità della pubblica amministrazione. Assieme, queste tre rigidità – afferma Ciampi – hanno disegnato un volto del sistema economico italiano in cui la propensione naturale per il mercato è stata svilita, in cui lo stato è stato troppo presente dove non avrebbe dovuto essere – favorendo in tal modo l’inquinamento da corruzione – e non abbastanza presente dove avrebbe dovuto: nell’azione in difesa della concorrenza, nello sradicamento dell’economia criminale, nella promozione dei mercati finanziari al servizio di tutti“. [da “I giorni dell’IRI” di M. Pini]
E venne l’ora delle intuizioni. Come “la politica di concertazione delle parti sociali” – per sua stessa definizione – che volevasi rivelare il mezzo per far fronte alle nuove dinamiche del mercato del lavoro. I sindacati, già sclerotizzati, stavano al gioco. Come l’abolizione dei limiti vigenti dalla legge bancaria del 1936 in merito alla separatezza tra banche e industria. Come la nomina di un comitato di consulenza per le privatizzazioni con a capo Mr Mario Goldman Sachs Draghi, di pari passo col ritorno all’IRI di quell’altro fuoriclasse della distruzione ovvero Romano Prodi.
Del duo sfasciacarrozze Carlo Azeglio – Romano ricordiamo la privatizzazione della Banca Commerciale Italiana, del Credito Italiano, di buona parte del settore agro-alimentare dell’IRI, della Nuova Pignone ENI. Con la logica della “ristrutturazione”, nel ’93 fu messa mano all’ILVA. Praticamente l’inizio della fine della grande siderurgia italiana. Praticamente con Ciampi si avvia – per continuare poi con lui stesso al Tesoro- in maniera operativa la disintegrazione del controllo pubblico di banche ed industrie, l’annullamento di una visione strategica nazionale attraverso l’abbattimento dei settori chiave, l’appiattimento alle logiche eurocratiche con le relative disfunzioni nel mondo del lavoro ed in quello produttivo. Un’azione scientemente condotta. Persino eversiva.
Scalfari, nella sua stucchevole sottolineatura dell’alto profilo istituzionale, non manca di far notare l’altro lato dell’atlantismo dell’ex presidente, accennando alla “riunione del Consiglio supremo di Difesa da lui convocato all’inizio della guerra americana in Iraq, che impose al governo la formula della “partecipazione pacifica” del contingente italiano all’iniziativa di Bush, visto che la nostra Costituzione impedisce guerre offensive”. Chiaro, no?
Ci vuole la tenacia, la complicità e la visione azionista di Scalfari per definire Carlo Azeglio Ciampi “un servitore dello Stato”. All’uno e all’altro, del resto, non manca una pedante retorica intrisa di formalismo liberal-democratico, la stessa in uso per giustificare e incensare le manovre di potere e gli sconquassi che segnano Italia dal ’92 ad oggi. La stessa, del resto, in uso quando si ergono a legittimi paladini del bon ton costituzionale e della retta via da perseguire in ossequio ai dettami tecnocratici che provengono dalle “alte cariche” nazionali o estere. L’accolita di giornalisti e intellettuali alla Scalfari dipinge sempre gli interventi e le mosse di grigi funzionari e integerrimi liberal-democratici come fossero le sublimi e necessarie posizioni che ad un Paese moderno e riformista spetterebbe assumere.

La solita solfa.

da www.stampalibera.com

LEONARDO VITALE. STATO E MAFIA: UNA "COSA SOLA".

L’importanza di Leonardo Vitale

di Giovanni Falcone  

Dalla sentenza del maxi ter, istruito dal pool di Giovanni Falcone riportiamo alcuni stralci riguardanti la posizione processuale del primo collaboratore di giustizia che denunciò le collusioni tra mafia, politica e appalti. L’allucinante odissea umana e giudiziaria di Leonardo Vitale, uomo d’onore della famiglia di “Altarello di Baida”, dapprima delegittimato dalla magistratura di regime e rinchiuso in un manicomio psichiatrico, nel tentativo di screditare le sue precise rivelazioni, eppoi condannato a morte dallo Stato massomafioso. 

All’epoca delle sue dichiarazioni  Leonardo Vitale, che tra gli altri aveva accusato l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino e il Principe Vanni Calvello di San Vincenzo, non venne creduto, nonostante i molteplici riscontri investigativi, e dietro pressioni politiche fu spedito nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto. All’uscita dal manicomio fu ucciso per mano della massomafia.
Fino a tempi non molto lontani le conoscenze dell’apparato strutturale – funzionale di “Cosa Nostra” sono state frammentarie e parziali e, correlativamente, episodica e discontinua è stata l’azione repressiva dello Stato, diretta prevalentemente a colpire, con risultati ovviamente deludenti, le singole manifestazioni criminose, viste in un’ottica parcellizzante e disancorata dalla considerazione unitaria del fenomeno mafioso. Solo in tempi più recenti, un rinnovato impegno investigativo, assistito da una professionalità più qualificata e da tecniche di indagine più sofisticate, ha prodotto un corretto approccio al fenomeno mafioso, ispirato dalla riconosciuta necessità di inquadrare gli specifici episodi criminosi nella logica e nelle dinamiche dell’organizzazione criminale di cui sono espressione. In questo contesto si è inserita la collaborazione di alcuni imputati di estrazione mafiosa che ha consentito di verificare la validità dei risultati già raggiunti, offrendo al contempo una chiave di lettura dall’interno del fenomeno mafioso ed imprimendo ulteriore impulso alle indagini. Il primo collaboratore della Giustizia era stato, nell’ormai lontano 1973, Vitale Leonardo, un modesto “uomo d’onore” che, travagliato da una crisi di coscienza, si era presentato in Questura ed aveva rivelato quanto a sua conoscenza sulla mafia e sui misfatti propri ed altrui. Oltre dieci anni dopo, Buscetta Tommaso, Contorno Salvatore ed altri avrebbero offerto una conferma pressoché integrale a quelle rivelazioni; ma nessuno, allora, seppe cogliere appieno l’importanza delle confessioni del Vitale Leonardo e la mafia continuò ad agire indisturbata, rafforzandosi all’interno e crescendo in violenza ed in ferocia. Il Vitale veniva tratto in arresto dalla Squadra Mobile di Palermo il 17.8.1972 perché ritenuto coinvolto nel sequestro di persona, a scopo di estorsione, dell’ing. Cassina Luciano, ma veniva scarcerato il successivo 30 settembre per mancanza di sufficienti indizi; senonché, il 30.3.1973, dopo di essere stato interrogato dal giudice istruttore di Palermo, si presentava spontaneamente alla Squadra Mobile di Palermo e svelava tutto ciò che sapeva su “Cosa Nostra”, di cui ammetteva di far parte, autoaccusandosi anche di gravi fatti delittuosi, tra cui alcuni omicidi, commessi in correità con numerosi personaggi. Le confessioni di Vitale Leonardo sortivano un esito sconfortante: gran parte delle persone da lui accusate venivano prosciolte, mentre lo stesso Vitale, dichiarato seminfermo di mente, era pressoché l’unico ad essere condannato. Tornato in libertà, veniva ferocemente assassinato dopo pochi mesi e precisamente il 2/12/1984.

Vediamo adesso che cosa aveva a suo tempo raccontato … il “pazzo” Vitale Leonardo (che è stato poi indicato da Buscetta Tommaso come “uomo d’onore” della “famiglia” di Altarello di Baida, secondo quanto aveva appreso da Scrima Francesco, appartenente alla sua stessa “famiglia” di Porta Nuova):– era divenuto “uomo d’onore” dopo di avere dimostrato il proprio “valore” uccidendo, su commissione di suo zio Vitale Giovanbattista, certo Mannino Vincenzo, reo di avere acquisito delle gabelle senza avere chiesto il “permesso”. Suo zio, “rappresentante” della “famiglia” di Altarello, lo aveva messo alla prova chiedendogli, prima, se si sentiva capace di uccidere un cavallo; indi, gli aveva dato incarico, unitamente ad Inzerillo Salvatore (nato nel 1922) ed a La Fiura Emanuele, di studiare le abitudini del Mannino Vincenzo per ucciderlo. Egli aveva eseguito gli ordini e, alla fine, a bordo di una autovettura guidata da Ficarra Giuseppe, aveva atteso il Mannino nei pressi della via Tasca Lanza e lo aveva ucciso con un fucile, caricato a lupara, fornitogli dallo zio. Superata la prova, aveva prestato giuramento di “uomo d’onore” in un casolare del fondo “Uscibene”, di proprietà di Guttadauro Domenico, alla presenza dello zio, dello Inzerillo Salvatore e di altri, secondo un preciso rito: gli avevano punto un dito con una spina di arancio amaro e avevano bruciato un’immagine sacra facendogli ripetere il “rito sacro dei Beati Paoli”; quindi, l’avevano invitato a baciare in bocca tutti i presenti. Era entrato così a far parte ufficialmente della “famiglia” di Altarello di Baida di “Cosa Nostra”. – Per effetto del suo ingresso nella “famiglia”, aveva cominciato a conoscere i componenti della propria e di altre famiglie ed aveva cominciato ad operare come membro di Cosa Nostra. Lo zio lo aveva adibito alla acquisizione di guardianie di cantieri edili siti nel viale della Regione Siciliana ed egli, per espletare il suo incarico, aveva cominciato a compiere diversi danneggiamenti a fini estorsivi ai danni di costruttori e proprietari terrieri. … Già da queste dichiarazioni balza in evidenza l’uso sistematizzato dell’intimidazione e della violenza a fini di lucro come attività tipica della mafia. Bisogna a questo punto ricordare che taluni degli imprenditori, indicati dal Vitale Leonardo come vittime di estorsioni  mafiose, si sono poi organicamente inseriti in “Cosa Nostra”. Ci si intende riferire ai costruttori Marchese Salvino e Pilo Giovanni, imputati, nel procedimento n.2289/82 R.G.U.I. (definito con sentenza-ordinanza 8.11.1985), di associazione mafiosa, a Costanzo Giuseppe, la cui posizione viene definita con questa sentenza-ordinanza, ed a Prestifilippo Domenico, titolare del ristorante “La ‘ngrasciata”, che risulta (vedasi il Vol.8 della citata sentenza-ordinanza) aver prestato attività di copertura a Spadaro Tommaso nel riciclaggio di danaro di provenienza illecita; tutti esempi della capacità espansiva e di infiltrazione della mafia nel tessuto sociale, che, forse, un più incisivo intervento repressivo statuale avrebbe potuto impedire.
– Accanto ad imprenditori sicuramente mafiosi, ne sono stati individuati tanti altri, contigui con ambienti mafiosi, che, interrogati, si sono mostrati estremamente reticenti, costretti in una situazione insostenibile per la paura, da un lato, delle ritorsioni mafiose e, dall’altro, della criminalizzazione del loro operato. … Del resto, il settore dell’edilizia, sia per gli elevati utili che consente, sia per l’inevitabile riferimento al territorio, è quello che forse ha risentito maggiormente della presenza mafiosa; ed anche in questo procedimento è stato accertato che tutti i maggiori esponenti di “Cosa Nostra” sono interessati alla realizzazione di attività edilizia sia in proprio che per il tramite di imprenditori vittime o collegati, a vario titolo, con “Cosa Nostra”. 
– Il racconto di Vitale Leonardo è proseguito con la descrizione di altri gravi delitti. Egli, in particolare, ha ammesso di avere ucciso Bologna Giuseppe su mandato di suo zio, Vitale Giovanbattista … Ha ammesso inoltre l’omicidio di Di Marco Pietro, avvenuto il 26.1.1972. Quest’ultimo, a detta del Vitale, era stato ucciso personalmente da Rotolo Antonino su mandato di Calò Giuseppe … Significativo è infine che già allora esisteva, fra Rotolo Antonino e Calò Giuseppe, uno stretto legame, che sarebbe stato in seguito confermato da altre indagini. Vitale Leonardo ha parlato, poi, dell’omicidio di Traina Vincenzo, consumato in Palermo il 17.10.1971. … Il racconto del Vitale trova un impressionante riscontro nelle indagini di Polizia … Da tale episodio emerge come già a quei tempi Scrima Francesco ed il suo capo, Calò Giuseppe, fossero coinvolti nei sequestri di persona, attività che il Calò non ha dismesso, tanto che, secondo quanto dichiarato da Buscetta Tommaso, egli regalò al figlio di quest’ultimo, Buscetta Antonio, la somma di lire 10 milioni proveniente dal sequestro Armellini, consumato in Roma nel 1980. Un’altra vicenda riferita dal Vitale Leonardo chiama nuovamente in causa il Calò ed il suo gruppo di “amici”. Si tratta della spedizione punitiva contro Adelfio Salvatore, proprietario del bar “Rosanero” nonché fratello del cognato di Spadaro Tommaso, ordinata da Calò Giuseppe a richiesta dello stesso Spadaro. Il Vitale aveva agito, a suo dire, con gli immancabili Scrima Francesco e Rotolo Antonino e con due sconosciuti.

Il Vitale Leonardo ha ancora riferito di avere appreso da Scrima Francesco che “uno da Villabate che aveva partecipato all’uccisione di Cavataio Michele si era montata la testa ed era stato fatto sparire” … . Ebbene, il “pentito” Buscetta Tommaso ha affermato che Caruso Damiano, macellaio di Villabate appartenente alla famiglia di Di Cristina Giuseppe (Riesi), era uno degli autori dell’omicidio di Cavataio Michele, specificando che in seguito il Caruso stesso era stato fatto scomparire dai Corleonesi in odio al Di Cristina (Vol.124 f.108) – (Vol.124 f.110). Da fonti, quindi, assolutamente diverse ed a distanza di parecchi anni, lo stesso omicidio viene riferito in maniera identica, anche nei motivi. Anche stavolta, la fonte della notizia, per Vitale Leonardo, è Scrima Francesco, della “famiglia” di Calò Giuseppe. Se si tiene conto che l’omicidio era stato voluto soprattutto dai Corleonesi, la tesi dell’alleanza del Calò con i corleonesi ne esce confermata. Un altro episodio significativo riferito dal Vitale riguarda una riunione, presieduta da Riina Salvatore, in cui si era stabilito a quale famiglia (Altarello o Noce) sarebbe spettata la tangente imposta all’impresa Pilo, che stava iniziando lavori edilizi nel fondo Campofranco. Alla riunione, organizzata da Spina Raffaele (“rappresentante” della famiglia della Noce), avevano partecipato anche Calò Giuseppe, Cuccia Ciro, Anselmo Vincenzo, D’Alessandro Salvatore e lo stesso Vitale Leonardo. Era prevalsa la “famiglia” della Noce per ragioni “sentimentali” (il Riina Salvatore aveva detto “Io la Noce ce l’ho nel cuore”). Il Vitale, quindi, era andato ad informarne lo zio, al soggiorno obbligato a Linosa, e quest’ultimo, nell’accettare la decisione, aveva incaricato il nipote di far presente al Calò che bisognava, comunque, attribuire parte della tangente alla famiglia di Altarello. L’episodio sopra riferito ha notevole rilevanza, perché offre un puntuale riscontro a quanto avrebbe dichiarato, oltre dieci anni dopo, Buscetta Tommaso sulle vicende di “Cosa Nostra”. Invero, secondo Buscetta, per effetto della prima “guerra di mafia” (1962-1963), e della accresciuta pressione da parte degli organismi di Polizia, “Cosa Nostra” si era disciolta, nel senso che era venuto meno quel coordinamento fra le “famiglie” assicurato dalla “commissione”. Nei primi anni ’70, essendosi conclusi favorevolmente (per la mafia) i processi contro le organizzazioni mafiose palermitane, era stata decisa la ricostituzione di “Cosa Nostra” sotto la direzione protempore di un “triumvirato” composto da Bontade Stefano, Riina Salvatore e Badalamenti Gaetano. Ebbene, la presenza ed il ruolo di Riina Salvatore, riferiti da Vitale Leonardo, nella controversia fra le due “famiglie” della Noce e di Altarello, all’epoca del triumvirato, confermano in pieno le dichiarazioni di Buscetta. Infatti, la questione relativa alla spettanza di una tangente ad una famiglia anziché ad un’altra, è un “affare” di pertinenza della “commissione”; il fatto che la controversia sia stata decisa, invece, dal Riina Salvatore – membro del triumvirato, secondo le dichiarazioni del Buscetta – conferma appieno che ancora la “commissione” non era stata ricostituita e che il Riina aveva la potestà di emettere decisioni che dovevano essere rispettate dai capi famiglia. Ma l’episodio raccontato dal Vitale vale anche a confermare indirettamente il sistema delle alleanze facente capo ai Corleonesi e l’atteggiamento prevaricatore di questi ultimi. Invero, tenendo conto della zona in cui doveva essere realizzata la costruzione del Pilo, la tangente sarebbe dovuta spettare, secondo il rigido criterio di competenza territoriale adottato da “Cosa Nostra”, alla “famiglia” di Altarello; ma, ciononostante, il Riina Salvatore, ergendosi ad unico arbitro della controversia, l’aveva attribuita a quella della Noce solo perché “ce l’aveva nel cuore” ed il fido Calò Giuseppe, rappresentante della “famiglia” di Porta Nuova che aveva partecipato alla riunione, si era ben guardato, come d’abitudine, dal dissentire dalle opinioni del Riina (proprio tale atteggiamento di acquiescenza, secondo Buscetta, era stato rimproverato al Calò Giuseppe da Inzerillo Salvatore e da Bontate Stefano, nel corso di un incontro in cui si era cercato di evitare la frattura coi corleonesi). …
Quasi tutti i personaggi … indicati [da Vitale] come “uomini d’onore” sono stati in seguito accusati da Buscetta Tommaso e da Contorno Salvatore, che li hanno indicati perfino con gli stessi soprannomi … Nel marzo 1985 il Rotolo è stato arrestato, a Roma, proprio con Calò Giuseppe, più potente e pericoloso che mai, senza che, nel frattempo, gli organismi di Polizia si fossero granché interessati di loro. Numerosi sono i riferimenti del Vitale a personaggi insospettabili quali “uomini d’onore”; valga, per tutti, l’indicazione dell’assessore del Comune di Palermo, Trapani Giuseppe (ormai deceduto), come appartenente alla “famiglia” di Porta Nuova, e del principe Vanni Calvello Alessandro di San Vincenzo, imputato nel procedimento-stralcio definito con sentenza-ordinanza del 16.8.1986. Nei confronti del Trapani Giuseppe, del principe di San Vincenzo e degli altri insospettabili indicati dal Vitale allora non vennero compiuti accertamenti di sorta … [Ma Vanni Calvello] coinvolto in Inghilterra in una vicenda di traffico internazionale di eroina … ha riportato recentemente condanna alla pena di anni venticinque di reclusione. Non risulta nemmeno che sia stata in alcun modo vagliata, allora, la posizione di Ciancimino Vito, nei confronti del quale il Vitale Leonardo aveva riferito fatti veramente gravi ed inquietanti … Sia Vitale che Buscetta, poi, hanno riferito di avere appreso dei rapporti fra Riina e Ciancimino proprio dal Calò. Le rivelazioni di Vitale Leonardo sono state in buona parte sottovalutate e passate nel dimenticatoio, benché sorrette da numerosi riscontri, e lo stesso Vitale è stato etichettato come “pazzo” (seminfermo di mente) e comunque da non prendere sul serio. Ma l’asserita malattia mentale che lo affliggeva, non comportando, come accertato dal perito, né allucinazioni, né deliri di persecuzione né altre gravi alterazioni psichiche, non esludeva [sic.] la sua capacità di ricordare e di raccontare fatti a sua conoscenza. Si tratta quindi di valutarne l’attendibilità, che, alla luce dei riscontri già allora esistenti e di quelli emersi successivamente, soprattutto attraverso le dichiarazioni di Buscetta e di Contorno, appare indubbia. Il Vitale, come si evince da un memoriale scritto di suo pugno, trasmesso a questo Ufficio dalla Squadra Mobile …, si era indotto a collaborare con la Giustizia perché aveva subito una vera e propria crisi di coscienza per i delitti compiuti e si era rifugiato nella fede in Dio. Si segnalano i seguenti passi del memoriale perché ognuno possa valutare le motivazioni del suo pentimento: “Io sono stato preso in giro dalla vita, dal male che mi è piovuto addosso sin da bambino. Poi è venuta la mafia, con le sue false leggi, con i suoi falsi ideali: combattere i ladri, aiutare i deboli e, però, uccidere; pazzi! I Beati Paoli, Coriolano della Floresta, la massoneria, la Giovane Italia, la camorra napoletana e calabrese, Cosa Nostra mi hanno aperto gli occhi su un mondo fatto di delitti e di tutto quanto c’è di peggio perché si vive lontano da Dio e dalle leggi divine” …; “bisogna essere mafiosi per avere successo. Questo mi hanno insegnato ed io ho obbedito” …; “La mia colpa è di essere nato, di essere vissuto in una famiglia di tradizioni mafiose e di essere vissuto in una società dove tutti sono mafiosi e per questo rispettati, mentre quelli che non lo sono vengono disprezzati …; “(i mafiosi) sono solo dei delinquenti e della peggior specie” …; “coloro che li rispettano e li proteggono e che si lasciano corrompere o, peggio ancora, si servono di essi (hanno dimenticato Dio)” …; “Si diventa uomini d’onore (seguendo i Comandamenti di Dio) e non uccidendo e rubando e incutendo paura” …; “La mafia in sé stessa è il male; un male che non dà scampo per colui che viene preso in questa morsa” …; “il mafioso non ha via di scelta perché mafioso non si nasce, ma ci si diventa, glielo fanno diventare” …; “la mafia è delinquenza e i mafiosi non vanno rispettati o ossequiati perché sono mafiosi o perché sono uomini ricchi e potenti …”. Ed ancora: “Seminfermità mentale=male psichico; mafia=male sociale; mafia politica=male sociale; Autorità corrotte=male sociale; prostituzione=male sociale; sifilide, creste di gallo ecc.=male fisico che si ripercuote nella psiche ammalata sin da bambino; crisi religiose=male psichico derivato da questi mali. Questi sono i mali di cui sono rimasto vittima, io, Vitale Leonardo risorto nella fede nel vero Dio” …. Certamente è possibile che questa crisi mistica sia effetto delle sue alterate condizioni psichiche: ma ciò non sposta di una virgola il giudizio sulle sue dichiarazioni. Vitale Leonardo, escarcerato nel giugno 1984, è stato ucciso dopo pochi mesi (2 dicembre 1984), a Palermo a colpi di pistola, mentre tornava dalla Messa domenicale. Non dovrebbero esservi dubbi circa i mandanti di tale efferato assassinio, specie se si considera che il delitto è stato consumato in un contesto in cui Buscetta Tommaso, Contorno Salvatore ed altri “pentiti” avevano imboccato la strada della collaborazione con la Giustizia. Con Vitale Leonardo, e in un brevissimo arco di tempo, sono stati uccisi Coniglio Mario (fratello di Coniglio Salvatore, anch’egli collaboratore della Giustizia), Anselmo Salvatore (ucciso mentre si trovava agli arresti domiciliari dopo avere reso importanti dichiarazioni sul traffico di stupefacenti) e Busetta Pietro, inerme ed onesto cittadino reo soltanto di avere sposato una sorella di Buscetta Tommaso. Questo Ufficio, pertanto, ha emesso il 12.5.1986, per l’omicidio di Vitale Leonardo e degli altri, mandato di cattura contro Greco Michele, Greco Ferrara Salvatore, Greco Giuseppe n.1952, Riina Salvatore, Provenzano Bernardo, Brusca Bernardo, Riccobono Rosario, Scaglione Salvatore, Calò Giuseppe, Motisi Ignazio, Di Carlo Andrea, Madonia Francesco, Picone Giusto, Anselmo Vincenzo ed Anselmo Francesco Paolo (detto mandato di cattura ha positivamente superato l’esame di legittimità da parte della Corte di Cassazione: vedasi  – per tutte – la sentenza emessa dalla Sez. I, in camera di consiglio, in data 1.12.1986 sul ricorso proposto da Greco Michele avverso ordinanza 26.5.1986 del Tribunale di Palermo, ed acquisita in copia al presente processo ( (Vol.IV f.63) – (Vol.IV f.65) ).

A differenza della giustizia statuale massomafiosa, la Mafia ha percepito l’importanza delle propalazioni di Vitale Leonardo e, nel momento ritenuto più opportuno, lo ha inesorabilmente punito per avere violato la legge dell’omertà. È augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi anche tra i tanti Santi della Chiesa il credito che meritava e che merita.  

Articolo pubblicato sul numero di ANTIMAFIA duemila giugno 2003

MARSALA. ANTONELLA MORSELLO DENUNCIA LE MASSOMAFIE

Antonella Morsello denuncia da svariati anni l’esproprio dell’azienda familiare subito dal padre, il quale come ex consigliere comunale di Marsala avrebbe supportato Borsellino nello scioglimento del consiglio comunale della città del vino. 

La sua vicenda viene anche ricostruita dalla Casa della legalità, osservatorio antimafia locale, che avvalla la fondatezza della denuncia di Antonella Morsello.

Noi, vittime della massomafia di  Antonella Morsello

La vita impossibile dell’imprenditore Martino Morsello: consigliere comunale di Marsala, nel 1992 aiuta Borsellino a sciogliere il Comune infiltrato dalla mafia. Mafia e massoneria non gliel’hanno perdonata.
Quella che racconterò è la storia della mia Famiglia. Tutto nasce nel 1999: alcuni soci della Ittica Mediterranea acquistano dalla fallita Mirabile e.c. socio di quest’ultima il 12% delle quote possedute a prezzo nominale per l’importo di 600 milioni di Lire. Giudice delegato Caterina Greco. Un altro socio della Ittica Mediterranea acquista il 3% delle quote possedute dalla Trinacria Costruzione a prezzo nominale per l’importo di 150 milioni di Lire. Al fallimento di quest’ultima il Giudice delegato D’Osualdo revoca le quote vendute perchè il valore delle quote viene quantificato il doppio, circa 300 milioni di Lire. Come mai c’è stata questa disparità?
Nel Gennaio 2003: l’avvocato Francesco Trapani propone istanza di fallimento all’Ittica Mediterranea per conto della Hendrix. Il Giudice del pre-fallimentare Caterina Greco manda in riserva il fallimento e aspetta la desistenza da parte della Hendrix a firma dell’ avv. Francesco Trapani dopo che siamo stati costretti sotto minaccia di fallimento a consegnare 100 milioni di Lire alla Hendrix. L’avv. Francesco Trapani ha un incarico da parte della Hendrix congiuntamente e disgiuntamente con l’avv. Morgante agendo autonomamente nell’interesse della Hendrix.
Il 30 Maggio 2003: la Ittica Mediterranea presenta al Giudice Caterina Greco una relazione dove si evince che la società Ittica Mediterranea non può essere dichiarata fallita in quanto Azienda Agricola. Regolarmente iscritta alla camera di commercio di Trapani nella sezione speciale agricola ed iscritta all’ufficio Iva come attività di pescicoltura, itticoltura, agricoltura con il codice 5021. Il 6 Giugno 2003: il Tribunale dichiara fallita la Ittica Mediterranea. La sentenza è stata emessa dai Giudici: Benedetto Giaimo (Presidente), Caterina Greco (Giudice relatore), dott.ssa Planetario Anna Maria (Giudice), prendendo spunto da una sentenza del Tribunale di Capovetere che non ha nulla a che vedere con l’attività di acquacoltura come l’attività della Ittica Mediterranea. Nella sentenza di fallimento 17/2003 si evince chiaramente che i tre giudici sono a conoscenza del fatto che l’avvocato Francesco Trapani abbia chiesto il fallimento della Ittica Mediterranea così come riportato nella sentenza e omettono di applicare la legge Nazionale 102/92, la legge regionale Sicilia 14/98 art 7 che ha modificato la legge 92/81 e l’omissione del trattato di Roma dell’art 32 della Comunità Europea, e la sentenza della Cassazione Sez III 21/07/1993 N. 8123 ed altre. Viene nominato giudice delegato del fallimento Caterina Greco e curatore fallimentare avv. Francesco Trapani. C’è da chiedersi: i curatori fallimentari a Marsala vengono scelti per competenze… per amicizia… per affiliazioni a logge massoniche… perchè amici di infanzia… perchè hanno interessi nel fallimento?… e… perchè non tutte le aziende agricole vengono dichiarate fallite al tribunale di Marsala? Sta di fatto che il curatore fallimentare avv Francesco Trapani ha dimostrato sin dall’inizio del suo incarico interessi nello smantellamento della società. Non ha salvaguardato l’immenso patrimonio della società stessa, non l’ha fatta custodire; l’azienda è stata vandalizzata, ha subito 3 incendi dolosi. L’avvocato non ha lavorato nell’interesse della società, omettendo di perseguire le banche per usura, per anatocismo; non ha perseguito l’enel, che ci ha estorto denaro, per un procedimento civile già iniziato dalla Ittica Mediterranea prima del fallimento, è stato spesso assente nei processi contro la Ittica Mediterranea e risulta che la sua famiglia possiede più di 50 ettari di terreno attorno alla Ittica Mediterranea. È stata fatta opposizione al fallimento 17/2003, sono stati sentiti dei testi che hanno confermato l’attività di riproduzione del pesce, confermando di fatto che la Ittica Mediterranea è azienda agricola. Il tribunale di Marsala conferma la sentenza di fallimento. Tale sentenza viene appellata alla Corte di appello di Palermo per la revoca del fallimento in quanto azienda agricola. La corte di appello di Palermo dopo 3 anni con Sentenza n. 134 del 2009 R.G. 2348/06- cron. 4689/09, non ha deciso riguardo l’ attività agricola della Ittica Mediterranea e della Non Fallenza in virtù delle leggi: Legge Nazionale 102/92, la legge regionale Sicilia 14/98 art 7 che ha modificato la legge 92/81 e l’omissione del trattato di Roma dell’art 32 della Comunità Europea, e la sentenza della Cassazione Sez III 21/07/1993 N. 8123 ed altre.
Così come relazionato dalla memoria difensiva dal Prof. Avv Goffredo Garraffa, la Corte di Appello di Palermo si sofferma sulla inammissibilità del ricorso dicendo, falsamente, che il ricorso era fuori termine perchè presentato dopo 30 giorni, omettendo che l’istanza è stata presentata entro 30 giorni e che comunque il proponente nella qualità di socio opponentesi al fallimento aveva un anno di tempo per presentare ricorso. Fatto strano: la corte di appello non lo condanna a pagare le spese, fra le tante altre cose. L’azienda Ittica Mediterranea viene posta in vendita all’asta per 870 mila Euro in data 26 ottobre 2008 quando l’impianto costò 13 miliardi delle vecchie lire. Abbiamo denunciato che la gara dovesse essere sospesa per incongruità di prezzo e perchè viziata poiché mancante di alcune componenti strutturali… ma il giudice delegato Giacalone, ha continuato nell’espletamento della gara. Il 25 gennaio 2010 il nuovo giudice delegato Francesco Lupia dopo una nuova perizia fatta all’impianto (perizia stimata per 1.039 mila euro, ancora molto al di sotto di altra perizia presentata da noi) ha messo in vendita l’intero immobile. Si è dunque chiesto al giudice delegato di sospendere l’asta in quanto la società risulta usurata come da certificazione della procura della repubblica di Marsala, ma il Giudice delegato Francesco Lupia l’ha rigettata. L’ennesima vendita è il 12 Luglio c.a. Tutto quanto dicharato è dimostrabile, in quanto le carte sono depositate presso il tribunale di Marsala. Appare chiaro che il caso Ittica Mediterranea presenta delle anomalie dove si possono ravvisare azioni criminose che mio padre ha denunciato e per le quali ritiene di essere stato vittima di messaggi intimidatori quali i tre incendi dolosi che hanno distrutto le strutture della Ittica Mediterranea. Non si comprende ancora oggi quale sia la funzione del curatore fallimentare Francesco Trapani che non è stato super partes nella gestione del fallimento.
Questa relazione è indirizzata a tutti gli organismi di giustizia. Spero possano contribuire a fare l’interesse della Giustizia. Confido e ho stima in tutti i Giudici fino all’inverosimile perchè dai Giudici, applicando le leggi, si può avere giustizia. Il fallimento e la vendita all’asta delle aziende agricole rappresentano un mostro giuridico politico in quanto l’attività agricola è e rimane l’attività primaria per sfamare l’umanità con tutte le difficoltà di carattere ambientale , biologico, di storture economiche e giuridiche che l’azienda agricola è costretta a subire, eppoi, perché nel tanto bistrattato Sud d’Italia le uniche attività produttive sono limitate alla qualità e vocazione del territorio ed andrebbero così incentivate e rispettate, unitamente agli imprenditori che non senza sudore e sangue affrontano i rischi d’impresa e garantiscono il LAVORO alle piccole infelici comunità di questa magnifica terra ridotta ingiustamente a bacino depresso d’Italia e d’Europa!
Se mi chiedessero cosa ho imparato in questi pochi ma intensi anni direi che non si è liberi. Se per Libertà si intende il diritto di dire cose che non si vogliono sentire. L’errore di molti è quello di non far nulla quando viene colpita la libertà degli altri, non è certo bello lasciarsi impoverire senza capire cosa stia accadendo, è pericoloso lasciarsi impoverire senza rendersene conto. I nostri politici sono riusciti solo a creare un nuovo mezzo per sentirci ancora più derisi, a me non piace la frase sentita spesso nei nostri telegiornali : “da oggi i meno abbienti avranno la social card”, i meno abbienti? Perchè sono i meno? Quali ingiustizie hanno commesso? Anzi io direi che sono i più abbienti, perchè hanno la capacità e la forza di vivere nella nostra società con molto meno di quello che ci vorrebbe per viverla. Ciò che vale è sollevare gli umili di cuore e donarsi a chi sa donarsi e lo vuole, allora veramente la nostra opera sarà proficua. Esistono persone dimenticate, eppure non c’e’ nessuno che nel diritto dona loro i loro diritti, anzi loro sono quelli che sanno obbedire senza mai indicare lo Stato come colpevole della loro condizione. Ebbene è ardito e semplice scendere in piazza, gridare la fame sia di chi non può più mangiare che di chi non arriva neanche alla seconda settimana del mese mentre chi amministra la giustizia e quindi i diritti di noi tutti resta seduto in poltrona ad osservare e a non agire. Oggi i nostri politici sanno agire solo nei talk-show accusandosi a vicenda, ma realmente chi sta costruendo un florido futuro? E’ vero la crisi ha sfiancato un po’ tutti ma non si sono visti grandi miglioramenti, oggi stiamo assistendo alla strumentalizzazione del volere popolare, non strumentalizzata al riconoscimento dei nostri diritti ma mirata al riconoscimento dei diritti dei singoli potenti con annessi amici e compari. Oggi, quante sono le persone nella schiera degli indignati? Non eravamo quelli che trovavamo ingiustificabile tutto questo? Non eravamo di destra e di sinistra? Facile a dirsi, difficile a farsi quando siamo toccati di persona, quando dobbiamo dare l’esempio, quando dobbiamo prendere una chiara posizione di contrasto al male che vediamo e che “sappiamo riconoscere”. Siamo alla frutta! Siamo nella condizione inaccettabile che bisogna “necessariamente” dire ed accettare la menzogna che ci piace, piuttosto che vedere e combattere la brutta verità che ci potrebbe far soffrire, dovremmo essere più sinceri con noi stessi e con gli altri e agire piuttosto che pagare il biglietto per andare a vedere un film in cui gli attori un giorno potremmo essere noi. E’ la povertà materiale, ma anche e soprattutto la miseria spirituale che rende l’uomo indifferente alle sofferenze del prossimo e che riduce in poltiglia ogni anelito di evoluzione e progresso!
Antonella Morsello

LA LUNGA MANO DEI NUOVI MASSONI SULLA TOSCANA

La lunga mano dei nuovi massoni sulla Toscana 

Quattordici indagati in Toscana: tra questi l´ex capo di gabinetto di Matteoli, ex piduisti, vari esponenti dell´Udc
di Franca Selvatici

“Senti bello, siamo per l´impianto di Rosignano, non per Livorno”

L´imprenditore in cerca di entrature per i suoi affari si rivolge al fratello massone, che contatta il referente politico. E´ questo il rapporto fra impresa e politica che emerge dall´inchiesta del pm di Potenza Henry John Woodcock. Un´inchiesta che investe frontalmente la Toscana, dove risultano avere la loro sede principale la Gran Loggia Unita Tradizionale (Glut) e il Grande Oriente Universale (Gou), ambedue estranee alla massoneria ufficiale. E in Toscana vivono 14 delle 24 persone perquisite su ordine della procura di Potenza, che ipotizza a loro carico la associazione a delinquere allo scopo di sollecitare favori politici e di interferire nelle decisioni di organi costituzionali e di amministrazioni pubbliche, attraverso la costituzione di associazioni segrete vietate dalla Costituzione.
«Senti, bello. Dicevo una cosa: noi, per prendere posizione, in questo momento contraria, se è possibile… su, all´Olt, lì a Livorno… ci sono le motivazioni tecniche giuste per fare una presa di posizione contraria dell´impianto qui a Livorno?». Oggetto della conversazione, intercettata il 15 gennaio 2007, è il rigassificatore che dovrebbe essere realizzato al largo di Livorno da Endesa, Amga, Olt Energy e Asa Livorno. A formulare la domanda è Giampiero Del Gamba, ex Dc, ex segretario personale del ministro Bisaglia, tessera P2 numero 2147, attualmente esponente della Udc e suocero di Piero Di Francesco, segretario provinciale livornese del partito di Lorenzo Cesa che ieri ha inviato in città il commissario ad acta Luca Marconi. L´interlocutore di Del Gamba, nella telefonata intercettata, è Paolo Togni, già capo di gabinetto del ministro dell´ambiente Altero Matteoli (An), vicepresidente della Sogin (società di gestione degli impianti nucleari), e già presidente della filiale italiana della Waste Management, colosso in smaltimento di rifiuti e produzione di energia.
Del Gamba chiede a Togni se è possibile trovare «le motivazioni tecniche giuste» per osteggiare il rigassificatore di Livorno. Togni risponde: «Le troviamo… mi risulta un po´ difficile perché (ride) l´ho fatto approvare io… però…». «E´ possibile?», chiede Del Gamba. Togni: «E´ possibile, è possibile, non ti preoccupare! E´ possibile far tutto!». Del Gamba chiarisce: «Perché noi dobbiamo essere a favore di quello di Rosignano e andare nel c. a quello di Livorno». Togni chiede: «Ti sei messo d´accordo con Altero per prendere questa posizione?». «No», risponde Del Gamba. «Maiale», commenta Togni.
Del Gamba, come suo genero Di Francesco, come Togni, è ora indagato nell´inchiesta del pm di Potenza Henry John Woodcock. Del Gamba è ritenuto uno dei promotori delle logge massoniche che l´accusa ritiene coperte e dedite agli «intrallazzi», per ammissione di alcuni aderenti. Gli altri presunti promotori sono Mauro Lazzeri, Gran maestro del Grande Oriente Universale (Gou), nonché esponente della Udc livornese, gli imprenditori Mariano Gangemi e Gionata Bertuccelli, l´ingegner Luigi Piazza, espulso anni fa dal Grande Oriente d´Italia e fondatore della Gran Loggia Unita Tradizionale (Glut), e Veio Torcigliani, maestro venerabile della loggia Liburnia. Illustri interlocutori degli attivissimi fratelli non riconosciuti dalla massoneria ufficiale risultano essere l´ex onorevole dc Emo Danesi, tessera 1916 della Loggia P2, amico di Chicchi Pacini Battaglia, con cui fu arrestato nel ´96, e divenuto celebre per una frase all´epoca intercettata («Il tuo amico è una fava lessa»), e il generale dei carabinieri Carlo Mori, che i fratelli del Gou vorrebbero affiliare «all´orecchio», cioè all´insaputa degli altri adepti. Gli altri quattro toscani perquisiti sono Andrea Sirabella, forzista, già assessore della comunità montana dell´Elba, Tiziana Giudicelli, ex consigliere comunale azzurra di Portoferraio, l´imprenditore Arimeno Sevignano e l´ex sottufficiale dei carabinieri Ugo Rosi.
Dalle intercettazioni – scrive il pm Woodcock – emerge «una inquietante commistione fra massoneria, affari, politica e apparati pubblici di ogni genere e specie». Uno degli indagati parla della loggia come di «un comitato d´affari e di intrallazzi». Lazzeri è sempre disponibile ad aiutare i fratelli contattando i suoi amici politici, ma poi – si confidano due imprenditori affiliati alla sua loggia – chiede «il ritorno al partito». Cioè il pizzo, commenta l´altro. E in altra circostanza, avendo ben chiaro il quadro, dopo aver chiesto aiuto a Lazzeri per ottenere una concessione per lo sfruttamento di una sorgente nel Parco dell´Orecchiella, in Garfagnana, l´imprenditore affiliato specifica: «Digli al politico che chiaramente, è ovvio, nel giochino c´è anche lui, è normale che funzioni così».

Postato: 6 giugno 2007

PER GIURASTANTE RICHIESTA LA RIAPERTURA DELLE INDAGINI E L'INTERVENTO DELLA DNA

 

RICHIESTO L’INTERVENTO DELLA DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA E LA RIAPERTURA DELLE INDAGINI PER LE MINACCE MAFIOSE ALL’AMBIENTALISTA ROBERTO GIURASTANTE.

Trieste 26.11.2010 – Il 13 ottobre 2010 il G.I.P. di Trieste decretava l’archiviazione dell’inchiesta sulla minaccia di morte di stampo mafioso nei confronti di Roberto Giurastante, ambientalista triestino responsabile dell’associazione Greenaction Transnational e portavoce della rete Alpe Adria Green. 

Giurastante, è autore di rilevanti inchieste sul traffico dei rifiuti nel Nord Est, sul disastro ambientale della provincia di Trieste, sulle frodi di denaro pubblico e dei finanziamenti comunitari (progetti di sviluppo turistico utilizzati come copertura per discariche di rifiuti tossici ed altri traffici), sulla violazione delle gare d’appalto, sulla violazione delle normative comunitarie sulla sicurezza degli impianti industriali (direttiva Seveso), sulla violazione delle norme EURATOM sul rischio degli incidenti nucleari, sulle irregolarità dei progetti dei terminali di rigassificazione nel Golfo di Trieste. Molte delle inchieste sono sfociate in denunce alla Commissione Europea, al Parlamento Europea e all’Ufficio Europeo per la lotta antifrode (OLAF), ponendo non pochi problemi ad un sistema di malaffare istituzionalizzato. A seguito delle denunce dell’ambientalista l’Unione Europea ha avviato  numerose indagini che hanno portato all’apertura di procedimenti di infrazione, deferimenti alla Corte di Giustizia, revoca di contributi comunitari.

E’ perfettamente comprensibile quindi come Giurastante sia persona “sgradita” agli ambienti trasversali del malgoverno del Nord Est, ed infatti era già stato oggetto di intimidazioni e minacce. Ma nonostante la sua posizione certamente scomoda e a rischio, Giurastante si è venuto a trovare in un perfetto isolamento istituzionale. Un vero abbandono da parte dello Stato che in questa maniera presenta il suo aspetto più negativo ed evidente: quello collusivo con il sistema delle illegalità. L’ambientalista sotto attacco è stato sottoposto ad un regime di sicurezza minima. Regime di sicurezza minima che infatti non è servito ad evitare l’ultima e chiara minaccia di morte. Sulla quale peraltro la stessa autorità giudiziaria si è espressa molto chiaramente con una indagine senza esito  durata appena 26 giorni e consistita solo nella distruzione del corpo del reato (la testa della capra utilizzata come macabro avviso) senza alcuna analisi. Un messaggio fin troppo chiaro nei confronti di un cittadino ritenuto “indesiderabile”. 

Sulla vicenda di questa inaccettabile archiviazione e su quanto sta accadendo nella città giuliana all’ombra delle coperture istituzionali è stata ora presentata richiesta di riapertura delle indagini alla Direzione Nazionale Antimafia. Sono stati inoltre informati gli organi di controllo della Magistratura.  Ma questo non è solo un esempio, per quanto preoccupante, di logica follia di schegge impazzite delle istituzioni, bensì la dimostrazione di quel degrado inarrestabile che ha trasformato l’Italia, dal Nord al Sud, in un vero antistato dell’illegalità nell’Unione Europea dei diritti e delle regole. 

SPECULAZIONI TURISTICHE COSTIERE: CHIESTO L’INTERVENTO DELL’OLAF E DELL’ANTIMAFIA SULLA BAIA DI SISTIANA

 

SPECULAZIONI TURISTICHE COSTIERE: CHIESTO L’INTERVENTO DELL’OLAF E DELL’ANTIMAFIA SULLA BAIA DI SISTIANA

CHE FINE HANNO FATTO I 14 MILIONI DI EURO DI FINANZIAMENTI PUBBLICI SUI QUALI L’AUTORITA’ GIUDIZIARIA NON HA VOLUTO INDAGARE?
Trieste 2 dicembre 2010 – Greenaction Transnational ha presentato alla Direzione Investigativa Antimafia, alla Procura della Repubblica di Bologna ed all’OLAF (Ufficio Europeo Lotta Antifrode) un esposto   con “richiesta urgente di indagini coordinate e riapertura di quelle pretermesse dalla Procura della Repubblica di Trieste sulla realizzazione nella Baia di Sistiana (Comune di Duino Aurisina), con grave danno ambientale e paesaggistico, di complessi edilizi residenziali privati di lusso presentati quali villaggi turistici per ottenere le deroghe urbanistiche ed i finanziamenti pubblici destinati allo sviluppo di tale settore produttivo”.
Il caso riguarda il progetto di sviluppo turistico dell’unica baia della regione Friuli Venezia Giulia, quella di Sistiana, piccolo gioiello naturalistico dell’alto Adriatico, incastonata tra le vertiginose falesie di Duino e la costiera triestina.
L’attuale e invasivo progetto prevede la realizzazione di un villaggio turistico, di un marina, di strutture alberghiere, ottenute tramite imponenti lavori di escavazione sulle pareti carsiche che sprofondano nel mare con la creazione di un nuovo golfo artificiale.
Ma dietro a questo progetto si nasconde una lunga storia trentennale di fallimenti finanziati anche con soldi pubblici. Almeno 180 milioni di euro sarebbero spariti nel “buco nero” della Baia. Fallimenti che sarebbero serviti ad alimentare un “sistema” di governo politicamente trasversale. Ed anche sull’ultimo progetto si è stesa l’ombra dei finanziamenti occulti. Quattordici milioni di euro di fondi pubblici che hanno permesso alla società proponente di vedersi autorizzare il progetto. Quattordici milioni di euro che non potevano essere assegnati e che ora sembrano spariti nel nulla. Perché la Procura della Repubblica di Trieste non ha voluto indagare su questo nuovo scandalo del Nord Est?

MINACCE DI DESTITUZIONE PER GENCHI. POLIZIA DI STATO – MAFIA DI STATO?

Le parole recentemente pronunciate da Salvatore Borsellino sono state molto chiare:

Abbiamo paura che Gioachino Genchi, lasciato solo, possa venire eliminato. Non solo professionalmente e personalmente, cosa che è già stata fatta, ma anche fisicamente“.

Dopo la deligittimazione e il tentativo di screditarlo per la sua importante attività di investigatore antimassomafie, quale collaboratore dell’ex P.M. De Magistris,  ora il pericolo si fa più concreta con la minaccia di destituzione dalla Polizia di Stato, che Gioacchino Genchi non ha fatto altro che onorare con la alta professionalità, onesta morale, indipendenza e coraggio.

Fa paura perché Genchi sà, ha visto e probabilmente potrà testimoniare la verità su quella trattativa tra Stato e massomafie, perchè, probabilmente, potrà spiegarci e provare perchè oggi la massoneria e la mafia sono al governo, controllando i gangli vitali delle istituzioni, comprese le prefetture, i rami del Parlamento, le istituzioni economiche, le banche, i media…

Afferma Genchi: “…..E l’attacco che viene fatto nei miei confronti parte esattamente dagli stessi soggetti che io avevo identificato la sera del diciannove luglio del 1992 dopo la strage di via D’Amelio, mentre vedevo ancora il cadavere di Paolo Borsellino che bruciava e la povera Emanuela Loi che cadeva a pezzi dalle mura di via D’Amelio numero diciannove dov’è scoppiata la bomba, le stesse persone, gli stessi soggetti, la stessa vicenda che io trovai allora la trovo adesso!
Ancora nessuno ha detto che io sono folle. Anzi, sarò pericoloso, terribile ma che sono folle non l’ha detto nessuno. Bene allora quello che io dico non è la parola di un folle perché io dimostrerò tutte queste cose. E questa è l’occasione perché ci sia una resa dei conti in Italia. A cominciare dalle stragi di via D’Amelio e dalla strage di Capaci. Perché queste collusioni fra apparati dello Stato, servizi segreti, gente del malaffare e gente della politica, è bene che gli italiani comincino a sapere cosa è stata.”

Chi è Gioacchino Genchi? http://www.lavocedirobinhood.it/Articolo.asp?id=171

Perchè è minacciato di destituzione dalla polizia di Stato?

http://www.youtube.com/watch?v=ROra5QxY9xo

“Processo” a Genchi: la Polizia pronta a cacciarlo – “colpevole” per le critiche al governo

Gioacchino Genchi potrebbe essere rimosso dalla Polizia tra pochi giorni.

Il consiglio di disciplina della Polizia ieri lo ha ascoltato per otto ore. Il verdetto, che sarà ufficiale tra 15 giorni, secondo quanto risulta a Il Fatto Quotidiano è già scritto: destituzione. Il capo della Polizia Antonio Manganelli potrebbe sovvertirlo ma, da quanto si apprende, non è intenzionato a farlo. Genchi è un consulente privato delle Procure ma resta un poliziotto in aspettativa non retribuita. I suoi capi di incolpazione disciplinare sono due discorsi. Il 6 dicembre del 2009 sul palco dei Grillini di Cervignano del Friuli, si è permesso di ridicolizzare l’enfasi data dal governo all’arresto del mafioso Giovanni Nicchi, definito “numero due della mafia” da Berlusconi. Quell’arresto provvidenziale, giunto il giorno dopo il “No Berlusconi day” del 5 dicembre, secondo Genchi fu gonfiato come un’arma di distrazione di massa. Per dimostrarlo Genchi ha depositato il certificato penale incensurato – fino all’arresto – del mafioso. A Genchi è stato contestato anche il discorso al congresso dell’Italia dei Valori del 6 febbraio 2010 in cui aveva usato la parola (senza dubbio infelice) di “pantomima” per la ricostruzione pubblica dell’attentato a Berlusconi in piazza del Duomo. Il funzionario si è difeso sostenendo che si riferiva solo all’eccesso della prognosi inizialmente certificata di 90 giorni (e poi drasticamente ridimensionati) al premier. Il vicequestore con la passione per l’informatica si è difeso mostrando l’ottimo ottenuto in valutazione a maggio scorso, così motivato “eccellenti requisiti intellettuali, professionali e morali”. (Fonte: Il Fatto Quotidiano – 2 dicembre 2010).

E I COLLEGHI DEL G8?
Genchi ha sottolineato anche la disparità di trattamento con i colleghi coinvolti nei fatti del G8 e nell’omicidio Aldrovandi. Il vicequestore viene cacciato con ignominia per avere espresso le sue idee mentre non è stata disposta nemmeno una sospensione per i dirigenti massimi e i funzionari di più alto grado come “Francesco Gratteri, Giovanni Luperi, Gilberto Caldarozzi, Filippo Ferri, Massimiliano Di Bernardini , Fabio Ciccimarra, Nando Dominici, Spartaco Mortola , Carlo Di Sarro, Massimo Mazzoni”, e tanti altri, “tutti coinvolti nelle indagini della Procura della Repubblica di Genova per i noti fatti del G8 del 2001, oggetto della sentenza di condanna della Corte d’Appello di Genova del 18 maggio 2009” . E un’altra disparità inspiegabile per Genchi è il trattamento a lui riservato rispetto all’assenza di provvedimento contro “Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollasti”, condannati in primo grado dal Tribunale di Ferrara per l’omicidio preterintenzionale del giovane Federico Aldovrandi, consumato a Ferrara il 25 settembre 2005. Queste, secondo la Polizia e il suo capo, Antonio Manganelli, non sono condotte che “rendono incompatibile l’ulteriore permanenza in servizio”. Mentre Genchi va cacciato perché ha usato la parola pantomima anche in una seconda circostanza quando ha espresso “commenti pesanti su di un altro episodio riguardante il presidente del Consiglio: la microspia rinvenuta nello studio dell’onorevole Berlusconi nel 1996” . Genchi ha chiamato a testimoniare in sua difesa Roberto Maroni. Nel 1996 aveva detto all’Ansa: “La microspia se l’è messa Berlusconi da solo per fare la vittima”. Ovviamente la testimonianza è stata esclusa. Altrimenti i solerti funzionari avrebbero dovuto cacciare anche il loro ministro.

__________________________________________________________________________     La proposta di destituire Gioacchino Genchi dalla Polizia e’ scandalosa. 

30 novembre 2010 – di Fabio Repici

Per rispetto delle regole del galateo professionale, forse sarebbe stato il caso di tacere in quest’occasione. Perché chiunque potrebbe dire, o anche soltanto malignamente sussurrare, che io mi pronuncio perché sono il difensore di Gioacchino Genchi. E, quindi, è scontato che ne prenda le difese anche nel dibattito pubblico. Confesso che proprio per questo avrei voluto tacere. Poi ho pensato che la proposta di destituzione di Gioacchino Genchi dalla Polizia di Stato è un’evenienza così scandalosa che tacere sarebbe il peggior tradimento del mio ruolo di cittadino fedele ai principi della nostra Costituzione.

Da quando ho conosciuto Genchi, in verità, ho temuto che prima o poi qualcuno gli avrebbe fatto pagare tutto quello che di buono egli ha fatto in giro per i palazzi di giustizia di tutt’Italia nell’interesse dell’accertamento della verità. Anche – se non soprattutto – nei casi in cui la verità era indicibile. La vera colpa di Genchi è, dopo aver afferrato spezzoni di verità come solo lui è stato capace di fare – perché le sue capacità gliele riconoscono prima di tutto i suoi detrattori –, di aver osato pronunciarle, certe verità indicibili.

Vedete, se Genchi avesse concorso ad uccidere Aldrovandi oppure avesse calunniato e bestialmente pestato i ragazzi che manifestavano contro il G8 di Genova oppure avesse depistato le indagini sulla strage di Via D’Amelio per impedire di individuarne i mandanti estranei a cosa Nostra, se Genchi avesse fatto qualcosa del genere domani non comparirebbe davanti al consiglio di disciplina per sentire pronunciare la sua destituzione dalla Polizia. No, in quel caso per Genchi ci sarebbero state solo promozioni. Come è accaduto per uno dei depistatori di via D’Amelio, il dr. Ricciardi, che naturalmente è diventato questore. O come è accaduto per il dr. Gratteri e gli altri torturatori di Genova. Né, naturalmente, Genchi ha subito condanne rovinose per reati infamanti: in quel caso lo avrebbero fatto, ad honorem, comandante del R.o.s. dei Carabinieri.

Invece no: Genchi non solo non ha ricevuto promozioni ma, poiché su Via D’Amelio è stato proprio l’operato di Genchi a spalancare gli scenari che andavano tenuti seppelliti nell’oscurità, ora lo Stato gli presenta il conto. L’anticipo gli era stato preannunciato niente meno che dal più grosso puttaniere d’Italia, Silvio Berlusconi, il quale, trovandosi un giorno libero da impegni con Patrizia D’Addario o con Ruby Rubacuori, disse che Genchi era “il più grande scandalo della storia della Repubblica”. Lo disse proprio lui, Berlusconi. E così per sovrapprezzo Genchi si trovò indagato da un magistrato al di sotto di ogni sospetto come Achille Toro e dal corpo investigativo più deviato della seconda Repubblica, per l’appunto il R.o.s. di Mori, Ganzer, Obinu, De Caprio, ecc..

E poiché non c’era nulla da contestare a Genchi, il Ministero dell’Interno ha trovato che egli deve essere cacciato dalla Polizia di Stato perché ha oltraggiato l’onore di Silvio Berlusconi, con l’aggravante di averlo fatto al congresso di un partito pericolosamente legalitario come Italia dei Valori. Vi chiederete: come si fa a oltraggiare l’onore di uno che l’ambasciata statunitense in Italia – non propriamente un circolo talebano – considera un puttaniere psicopatico? Il ministro Maroni lo avrebbe potuto spiegare quando ha imposto la sua presenza nel programma di Fazio e Saviano ma lì ha preferito turlupinare gli italiani per difendere l’immagine del suo piccolo partito razzista e secessionista.

Quello che si vuole è, in realtà, la morte civile di Genchi e, insieme a questa, l’insegnamento a qualunque magistrato o investigatore che, a cercare verità troppo scomode per il potere, si finisce male.

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A proposito del capo della Polizia di Stato Antonio Manganelli che molti ci domandano se faccia o meno parte anche lui di logge massoniche viste le sue posizioni nei gravi fatti del G8 dio Genova, ecco alcune sue affermazioni a riguardo sui fatti di Genova del 2001:

“Quella vicenda è certamente servita per avviare una serie di riflessioni  ma il bombardamento mediatico, anche di questi giorni, presenta una immagine che contrasta profondamente con la verità storica. Si dimenticano, infatti, le devastazioni inferte alla città in quei giorni, la presenza a Genova di 3mila guerriglieri provenienti da Paesi esteri e dentro questo contesto si isola l’abuso del singolo poliziotto da tutto il resto. Gli abusi, sia chiaro non vanno comunque giustificati e vanno invece perseguiti e puniti”

“Si è trattato di un’operazione che poteva essere condotta con più pacatezza ..”

Da: Corriere della Sera

http://www.corriere.it/cronache/07_novembre_28/genova_manganelli_53481ba8-9d89-11dc-bac3-0003ba99c53b.shtml

 L’inchiesta di Genova. L’ex questore nelle telefonate: parla di un’azione comune contro i pm
«Manganelli dice: giù di forza»
Colucci intercettato. Il capo della polizia: frasi mal riportate
GENOVA – Manganelli «è arrabbiato e dice che devono fare un’azione comune per essere pesanti contro i magistrati», «il capo dice che devono andarci giù di forza », e ancora «Manganelli stamattina mi ha detto: dobbiamo darci una bella botta a questo magistrato, mi ha accennato che qualcuno sta già prendendo delle carte non troppo regolari». Francesco Colucci, questore di Genova durante il G8 del 2001, parla così con un funzionario del ministero dell’Interno, con un collega e con Spartaco Mortola, ex capo della Digos di Genova. Non sa di essere intercettato.
Colucci commenta il fatto che egli stesso e l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, dimesso da pochi giorni, sono indagati per falsa testimonianza. È accaduto infatti che il 3 maggio Colucci, chiamato a testimoniare sulle telefonate intercorse la notte della Diaz con De Gennaro, abbia modificato la sua precedente versione negando di aver parlato con il capo della polizia a proposito dell’intervento del portavoce Roberto Sgalla nella scuola. Risultato: Colucci è accusato di falsa testimonianza, De Gennaro di averlo istigato a mentire, reato poi contestato anche a Mortola. Nelle intercettazioni che fanno parte del fascicolo relativo alla falsa testimonianza, non ci sono telefonate di Manganelli né di De Gennaro. L’ex capo della polizia e l’attuale compaiono solo nelle parole del molto loquace Colucci. Lo schema, secondo i magistrati che hanno da poco depositato l’avviso di conclusione delle indagini, è questo: De Gennaro fa pressione su Colucci perché cambi la sua testimonianza, Colucci lo fa, scoppia il caso, Colucci telefona a destra e a manca euforico spiegando come Manganelli (non ancora capo della Polizia) la voglia far pagare ai magistrati.
Il prefetto Manganelli ieri ha dichiarato che quelle frasi sono «un tradurre liberamente e con linguaggio inappropriato la mia manifestazione di affetto e di vicinanza a un collega in difficoltà». Nel faldone c’è anche la telefonata fra Mortola (indagato nel processo Diaz per le false molotov) e Maddalena, l’ispettore del Viminale incaricato di investigare sulla sparizione delle molotov dall’ufficio corpi del reato della Questura. Maddalena relaziona a Mortola sulle indagini in Procura. Insomma, una partita avvelenata fra Procura e Polizia, o almeno questo starebbero a dimostrare intercettazioni e atti depositati.

Conclusivamente, auspichiamo che il Procuratore Distrettuale Antimafia di Roma Dr. Capaldo vorrà far luce sul caso e garantire che le decisioni del Capo della Polizia di Stato Manganelli vengano adottate in conformità con i principi di legalità, libertà e indipendenza propri di ogni ufficio e funzione dello Stato, verificandone l’eventuale appartenenza o vicinanza a logge massoniche coperte e non…

Avvocati senza Frontiere

RAOUL GARDINI E GABRIELE CAGLIARI DUE FALSI SUICIDI MASSOMAFIOSI RIMASTI IMPUNITI

Il 20 luglio 1993, il presidente dell’ENI Gabriele Cagliari, primo gruppo siderurgico italiano, viene trovato morto per soffocamento, in circostanze misteriose e mai chiarite dalla Procura di Milano, con un sacchetto di plastica infilato in testa e legato al collo con una stringa da scarpe, nei bagni di San Vittore, dov’era andato per farsi la doccia.

Il 23 luglio 1993, tre giorni dopo la morte di Cagliari, alle sette del mattino, il maggiordomo di Palazzo Belgioioso trova riverso sul letto, Raoul Gardini, ras della chimica italianapatron del gruppo Ferruzzi-Montedison, il quale si sarebbe anche lui suicidato in circostanze misteriose, e mai chiarite dalla Procura di Milano, sparandosi un colpo di pistola con una Walter Pkk, stranamente trovata sulla sponda opposta di dove si trovava il corpo inamimato dell’impreditore ravennate fulminato da un unico proiettile alla tempia.

Due misteriosi falsi suicidi da collegarsi alle attività criminali delle massomafie che controllano l’economia e l’alta finanza, riclicando i capitali della mafia, derivanti dal narcotraffico, come avevano intuito Falcone e Borsellino, prima di venire trucidati su ordine di quei “poteri esterni” che governano nell’ombra il Paese da oltre 150 anni, mettendo a tacere chiunque interferisce o si oppone ai loro progetti.Il (finto) suicidio di Cagliari si è cercato farci credere sino ad oggi sia da imputare allo scandalo che aveva travolto i vertici dell’ENI, per una maxi tangente di 17 miliardi, in buona parte versati a quasi tutti i partiti politici a conclusione di un accordo esclusivo tra l’ENI e la società assicuratrice SAI di Salvatore Ligresti (grazie alla cui megatangente si era riusciti a far fuori l’INA).

Ma nella versione ufficiale secondo cui Cagliari non avrebbe retto allo scandalo che lo aveva coinvolto e al prolungarsi della carcerazione sono rimasti in pochi a crederci, forse neanche gli stessi magistrati di Milano.

Se è pur vero che Cagliari sperava di essere a breve scarcerato, come aveva lasciato trapelare il P.M. Fabio De Pasquale, è anche vero che, proprio in quei giorni, il 19 luglio, era stato arrestato Salvatore Ligresti, che aveva reso una versione dei fatti contrastante rispetto a quella forse più credibile fornita dal presidente dell’Eni, che avrebbe potuto inziare a vuotare il sacco (anzichè infilarselo in testa…) e risultare assai scomodo a quei poteri occulti che hanno ordinato di trucidare anche gli stessi giudici Falcone e Borsellino che stavano indagando proprio sui rapporti tra mafia, economia legale, istituzioni e massoneria.
In quest’ottica appare inverosimile che Cagliari abbia deciso repentinamente di togliersi la vita, quando ormai sapeva di potere uscire dal carcere, per di più con modalità talmente atroci e da manuale di criminologia.

E’ più probabile invece che sia stato indotto da menti subdole e raffinate ad inscenare l’intenzione di suicidarsi per anticipare l’ordine di scarcerazione, inviando lettere disperate alla moglie, come fanno spesso taluni detenuti per fare più o meno consapevolmente pressione sui giudici. Certamente la delusione per il ritardo nella scarcerazione, dovuto all’arresto di Ligresti e al rischio di inquinamento delle prove, può avere provocato nel presidente dell’ENI una profonda prostrazione, ma non tale da indurlo ad uscire così repentinamente dalla scena, cosa che giovava sicuramente a vantaggio solo di chi poteva temere sue nuove rivelazioni.

Ed, infatti, appena settantadue ore dopo, ecco il secondo (finto) suicidio eccellente, anzi eccellentissimo del suo grande antagonista nella vicenda Enimont. Quello del patron della chimica italiana Raoul Gardini, con cui veniva tappata per sempre la bocca a un altro scomodo protagonista di quel perverso connubio tra mafia, alta finanza, politica e massoneria, che aveva deciso di collaborare, raccontando tutto ai magistarti di “mani pulite”.

La discesa di Raoul Gardini era cominciata l’anno prima, nel 1991 quando estromesso dalla gestione della Ferruzzi gli erano subentrati il cognato Carlo Sama e l’amministratore Giuseppe Garofano.

La mattina del finto suicidio avrebbe dovuto incontrare i magistrati di “mani pulite” per definire la sua situazione: c’era nell’aria un ordine di cattura, ma lui sperava di evitarlo mostrandosi disposto a una piena collaborazione. A preoccuparlo c’era stato l’arresto di Giuseppe Garofano, avvenuto due giorni prima, il 24. Al centro delle accuse nei confronti suoi e e della Ferruzzi la “enorme” tangente Enimont, di circa tre miliardi versati alla DC di Forlani. Una storia che Garofano conosceva benissimo.

Secondo la versione ufficiale, alle sette di mattina, Gardini ha già fatto la doccia, è ancora in accappatoio quando gli portano i giornali, il cappuccino e un croissant: ed è proprio mentre si accinge a fare colazione che l’occhio gli cade su un titolo di prima pagina di “Repubblica”: “Tangenti Garofano accusa Gardini“. L’imprenditore ravvenate Ras della chimica italiana e coraggioso uomo di mare che aveva superato ben altre difficoltà e venti contrari a quel punto avrebbe capito che è finita e aprendo il cassetto del comodino vicino al letto si sarebbe sparato un colpo mortale alla testa.

Gardini magnate dell’industria e della finanza che aveva anche sponsorizzato il Moro di Venezia all’American Cup non lascia testamento o lettere, fatta eccezione di un biglietto lasciato lì in bella vista con scritto sopra un semplice “grazie“. Ma si scoprì poi che risaliva al Natale precedente ed era la risposta a un regalo che aveva ricevuto dalla moglie Irina…

Anche a questo secondo plateale “suicidio”, frettolosamente inscenato solo poche ore prima che Raoul Gardini potesse rendere le sue confessioni, sono rimasti a crederci i soli magistrati di Milano, che altrettanto frettolosamente hanno archivato uno dei più scottanti casi della storia dell’alta finanza italiana e del suo rapporto con la mafia. E, forse, anche sè stessi… 

In concomitanza muoiono infatti anche “mani pulite” e le speranze degli italiani di svoltare pagina.

L’ombra delle massomafie sulla morte di Raoul Gardini riapre l’inchiesta sul suicidio.
A distanza di oltre 13 anni dall’archiviazione dell’intera operazione denominata “mani pulite”
, voluta dai poteri forti e dalle massomafie, ecco il colpo di scena che sembra riaprire il caso dei falsi suicidi dei due tra i maggiori protagonisti della Tangentopoli finanziaria italiana e dei rapporti collusivi tra Stato e mafia.  

Nell’agosto 2006, dopo le indagini sui legami tra la Calcestruzzi S.p.A. e la mafia parlemitana, la Procura di Caltanissetta chiede alla Dia di riesaminare il caso, come già riferito anche dalla stampa: “I pubblici ministeri hanno ordinato agli investigatori di ripartire da zero, senza trascurare nulla”. Alla base delle nuove indagini, “la convinzione dei pm che sia stata Cosa Nostra a determinare la scomparsa del “Contadino” che aveva sfidato la finanza e la politica…”. (E, aggiungiamo noi: “la Massoneria“, N.d.r.).
Ci sarebbero stati almeno due elementi della scena del crimine che non convincevano appieno gli inquirenti dell’ipotesi suicidio, riferiscono le cronache dell’epoca. Così, fu chiesta una nuova perizia balistica perché, come rivelato da L’espresso, citando fonti giudiziarie, “la pistola esplose due colpi, una modalità insolita per un suicidio, tanto più che nessuno sentì le detonazioni e solo diversi minuti dopo il corpo venne trovato in un lago di sangue”. La Procura di Caltanissetta prese in considerazione anche il biglietto lasciato da Gardini ai familiari con la scritta “Grazie”: “Secondo un esperto – scrive il settimanale – poteva essere stato scritto anche mesi prima”.
L’inchiesta della Procura di Caltanissetta si ricollega alle ipotesi già vagliate da una vecchia indagine della Procura di Palermo, ribattezzata “Sistemi criminali“, secondo la quale “dietro le stragi del 1992-93 ci sarebbe stata la volontà di Cosa Nostra di impedire ogni inchiesta sul monopolio degli appalti“. Ora però, i magistrati nisseni avrebbero potuto disporre di fatti nuovi, a partire dagli sviluppi nella ricostruzione dei rapporti tra i Buscemi, padrini palermitani di Passo di Rigano, vicini a Totò Riina, e i Gardini, per cui il gip di Caltanissetta Giovanbattista Tona, su richiesta della Procura, fece scattare alcuni ordini di custodia nei confronti dei gestori di una cava nissena e di due dipendenti della società Calcestruzzi, poi assorbita nel gruppo Italcementi.

Più recentemente sono venute alla luce le clamorose deposizioni rilasciate da Luigi Ilardo, un pentito inflitrato che già nel gennaio 1994 aveva inascoltamente denunciato i legami del Gotha di Cosa nostra con Marcello Dell’Utri, Salvatore Ligresti, Raul Gardini e altri famosi imprenditori del suo entourage, dei quali taluni verranno poi condannati per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Ma Ilardo non si ferma qui, denuncia anche un patto politico-elettorale con il nascente partito di Forza Italia, facendo i nomi di influenti politici, tra cui, oltre a Dell’Utri, quello dell’attuale Ministro della Difesa, Iganzio  La Russa e di suo fratello Vincenzo, che secondo tali riivelazioni e fonti giudiziarie “legherebbero la famiglia La Russa e la famiglia Ligresti a Cosa nostra“.

Noi non sappiamo se tali accuse siano fondate, ma è cosa certa che dal 1994 ad oggi ogni verità falsa o vera che sia, ci è stata subdolamente celata e non è stata svolta alcuna indagine. Ciò mentre il povero Ilardo veniva tradito e ucciso dallo Stato che stava servendo, proprio poco dopo aver rivelato ai Ros dei Carabinieri, dove si trovava l’ “introvabile” covo del superlatitante Bernardo Provenzano, che oltre a non venire arrestato nè attenzionato, sarà lasciato indisturbatamente libero di frequentare e agire, mandando pizzini a destra e a manca, per ben sei anni successivi alle informative ai Ros e all’uccisione di Luigi Ilardo.

Il caso di Luigi Ilardo che in pochi mesi aveva fatto decapitare le famiglie mafiose di tutta la Sicilia orientale, legate alla fazione più cruenta di Totò Riina, è quindi emblematico del patto scellerato tra istituzioni e massomafie, ovvero del fatto che Stato e mafia siano ormai divenute da oltre 40 anni una “Cosa sola“.

Alla luce di tutto ciò chiediamo quindi al Procuratore Nazionale Antimafia Grasso come mai a distanza di 18 anni ancora oggi nessuno ha ancora scoperto la verità sul duplice “omicidio-suicidio” di Gabriele Caglairi e Raoul Gardini e sulla catena di morti sospette e stragi che hanno insaguinato l’Italia, riaprendo la pista della Duomo connection di Falcone e Borsellino?

GARDINI E I PADRINI

A riguardo, riprendendo alcuni stralci di un articolo de L’Espresso, ricordiamo che pochi giorni dopo le rivelazioni di Leonardo Messina, primo mafioso a pentirsi dopo la strage di Capaci, che accettò di collaborare con il pm Paolo Borsellino, collegando gli investimenti e le attività di Cosa nostra con quelli dell’alta finanza italiana e del sistema dei partiti, quest’ultimo venne frettolosamente trucidato.

Infatti, in quell’interrogatorio Messina, piccolo boss dalle rivelazioni sconvolgenti sulla rete planetaria di Cosa nostra, disse senza mezzi termini: “Totò Riina i suoi soldi li tiene nella calcestruzzi”. All’inizio venne verbalizzato con la ‘c’ minuscola, come se si trattasse di una qualunque fabbrica di cemento, ma l’uomo d’onore precisò subito: “Intendo dire la Calcestruzzi spa”. Ossia il colosso delle opere pubbliche, leader italiano del settore posseduto dall’ancora più potente famiglia Ferruzzi ma, secondo quel mafioso della provincia nissena, controllato in realtà dal padrino più feroce.

Borsellino rimase colpito da quelle parole: all’indomani dell’uccisione di Giovanni Falcone aveva riaperto il dossier del Ros sul monopolio degli appalti. Una radiografia dell’intreccio tra cave e cantieri che costituisce il polmone di Cosa nostra: permette di costruire relazioni con i politici e con la borghesia dei professionisti, di creare posti di lavoro e marcare il dominio del territorio. E guadagnare somme sempre più grandi. “Ma se ci sono tante persone che possono riciciclare qualche miliardo di lire”, dichiarò Borsellino all’indomani dell’interrogatorio di Messina, “quando bisogna investire centinaia di miliardi ci sono pochi disposti a farlo. Imprenditori importanti, di cui i mafiosi non si fidano ma non possono nemmeno fare a meno. È uno dei fronti su cui stiamo lavorando”.

Il magistrato siciliano non ebbe il tempo di andare avanti: 19 giorni dopo fu spazzato via dall’autobomba di via d’Amelio. Un anno più tardi, anche Gardini uscì di scena.

Due morti che, secondo la Procura di Caltanissetta, sono direttamente collegate.

Per questo i magistrati nisseni riaprirono l’inchiesta sul suicidio di Gardini, a cui la moglie Idina Ferruzzi, non ha mai creduto, ripartendo da un’ipotesi, già percorsa invano con un’indagine ribattezzata ‘Sistemi criminali’ e chiusa con l’archiviazione: “dietro le stragi del 1992-93 ci sarebbe stata la volontà di Cosa nostra di impedire ogni inchiesta sul monopolio degli appalti“.

Ora, proseguiva L’Espresso, nel 2006, “i pm di Caltanissetta dispongono di fatti nuovi, alcuni ancora segreti, a partire dagli sviluppi nella ricostruzione dei rapporti con i Buscemi, padrini di Passo di Rigano: il feudo di Salvatore Inzerillo, a loro affidato da Totò Riina per la fedeltà dimostrata in guerra e in affari…”.

Già dieci anni fa si era scoperto che il Gruppo Gardini e i Buscemi erano sostanzialmente soci: ciascuno controllava il 50 per cento della Finsavi, creata per fare affari nell’isola. Poi nel ’97 la Compart, nata dal crollo della Ferruzzi, vende tutto a Italcementi. In Sicilia, però, secondo le indagini, le mani della mafia restano avvinghiate alla Calcestruzzi. Poco dopo finiscono in carcere il capomafia di Riesi, Salvatore Paterna, impiegato della Calcestruzzi Spa; Giuseppe Ferraro, proprietario della cava Billiemi e Giuseppe Giovanni Laurino, detto ‘ù Gracciato’, responsabile locale dell’azienda…”.

Possono personaggi così provinciali custodire segreti che hanno sconvolto il Gotha della finanza italiana? Alcuni dei più importanti pentiti nell’ultimo decennio, tra loro Giovanni Brusca e Angelo Siino, hanno sottolineato come la questione del calcestruzzo fosse strategica per i corleonesi.

Anche Falcone e Borsellino si sarebbero mossi sulla stessa traccia.

Nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta ‘Sistemi criminali’ i pm scrivono: “Già le loro indagini nel 1991 avevano aperto scenari inquietanti e se fossero state svolte nella loro completezza e tempestività, inquadrandole in un preciso contesto temporale, ambientale e politico avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancor prima o contestualmente a Tangentopoli”.

In ballo c’erano investimenti miliardari e relazioni fondamentali per il potere mafioso, che andavano difese a tutti i costi.

Dopo le bombe che hanno eliminato i due migliori magistrati della storia del ns. Paese, pare che altre fossero pronte per l’ex P.M. Di Pietro, come rivelato dal pentito Maurizio Avola e a posteriori dallo stesso Di Pietro.

Fino alla tarda serata del 23 luglio 1993, poco prima dell’inscenato suicidio, Gardini era deciso a presentarsi ai magistrati di mani pulite per rispondere alle accuse mossegli sulla megatangente Enimont e le relazioni tra il Gruppo Ferruzzi e il sistema dei partiti. Cosa che, all’epoca, riferirono i suoi stessi avvocati, con i quali “fino a poche ore prima aveva discusso della deposizione, mostrando la determinazione di sempre”. La mattina dopo, invece, Gardini viene trovato morto.

Possibile, si interrogano i magistrati nisseni, che le pressioni di Cosa nostra abbiano pesato su questo gesto? Possibile che si sia trattato di un omicidio?

I pm, prosegue L’Espresso, senza che sia mai stata data alcuna concreta risposta, chiedono alla Dia di usare ogni strumento per non lasciare dubbi. E di approfondire ogni possibile legame anche con la bomba di Milano, esplosa all’indomani dei funerali in via Palestro. Secondo gli atti del processo, gli attentatori sbagliarono bersaglio di alcune centinaia di metri. E Palazzo Belgioioso, residenza di Gardini, era poco lontano.

“Tanti fantasmi siciliani”, a cui Sergio Cusani, fiduciario del sistema dei partiti, non ha mai dato stranamente credito, seppure fossero molto concreti e capaci di seminare morte: “La Calcestruzzi godeva di una autonomia assoluta perché Lorenzo Panzavolta l’aveva creata e la gestiva come un autocrate”, ha spiegato in un’intervista: “A un certo punto, dopo un attentato, saltò fuori il nome di questo Buscemi. Gardini fu molto seccato da questa storia e all’interno del gruppo si aprì un’inchiesta. Cusani ricorda che Panzavolta presentò Buscemi “come un manager dell’azienda comprata in Sicilia”. E descrive Gardini turbato, tanto da pensare di liberarsi dell’azienda: “Mi disse: ‘Vendo la Calcestruzzi e così vendo anche Panzavolta'”. Ma, conclude il settimanale L’Espresso: “Era qualcosa che Gardini poteva fare? Si poteva dire di no ai soci palermitani? E si poteva licenziare Panzavolta, l’ex comandante partigiano romagnolo che teneva i rapporti tra Ferruzzi e Pci, ma soprattutto gestiva i grandi appalti nazionali della famiglia di Ravenna?

Da: “Gardini e padrini”, L’Espresso del 10/8/2006

Lettera aperta al C.S.M. e alla Procura di Palermo sulle bugie e i silenzi di Cusani.

Agli interrogativi dei magistrati nisseni e del settimanale L’Espresso a distanza di oltre 5 anni la DDA non ha ancora risposto e neppure il C.S.M. e la Procura di Palermo alla lettera aperta del giornalista di Antimafia 2000, Antonio Bongiovanni, di cui pubblichiamo alcuni stralci, onde consentire ai lettori di comprendere come siano andate le cose e quanto ci sia ancora da scoprire dietro ai falsi suicidi di Gabriele Cagliari e Raoul Gardini, ovvero dietro ai torbidi rapporti tra alta finanza, mafia, sistema dei partiti, massoneria e capacità di condizionamento dell’attività giudiziaria.

“Vorrei richiamare la vostra attenzione sulla notizia apparsa lo scorso 23 novembre sul Corriere della sera riguardante le informazioni rilasciate dal collaboratore di giustizia Angelo Siino relative alla collusione tra cooperative rosse e mafie in relazione al suicidio del ’93 di Raul Gardini.

Le dichiarazioni del pentito circa le cause della morte del finanziere imputano la totale responsabilità del fatto alla mafia. Ciò contrasta con la tendenziosa smentita di Cusani che, icordiamo, nell’ambito dell’inchiesta “Mani Pulite” fu condannato, per corruzione, a 4 anni di carcere.
In qualità di giornalista mi permetto quindi di intervenire, focalizzando alcuni fatti rilevanti, per poter meglio chiarire la posizione di Sergio Cusani, del gruppo Ferruzzi – Gardini e del loro legame con i fratelli Buscemi di Cosa Nostra.

Come abbiamo già pubblicato nel numero di maggio della rivista ANTIMAFIA Duemila, riportiamo integralmente le affermazioni inquietanti del direttore dello SCO, Alessandro Pansa, inerenti le cause della morte del Gardini: “Si grandi interessi economici in una realtà criminale come Cosa Nostra hanno come esigenza assoluta elementi di mediazione, di coloro cioè che mettono in contatto il criminale con il mondo economico. Se guardiamo al territorio nazionale, ad esempio, la Sicilia scopriamo che i collegamenti fra i livelli più bassi a quelli più elevati che si sono stabiliti tra il mondo economico e il mondo criminale sono stati quelli della politica. Nel momento in cui le inchieste del passato sono state mirate ad individuare questa relazione tra politica e mafia, senza considerare che il ruolo della politica era un ruolo intermedio, strumentale, non era lo scopo finale, si scopre forse anche il perché alcune inchieste sono fallite e il livello economico non è stato interamente perseguito, perché ancora oggi noi non ci siamo spiegati bene perché Calvi si è suicidato o è stato ammazzato, perché Sindona si è suicidato o è stato ammazzato e forse oggi sorge anche il dubbio di altri personaggi come Raoul Gardini che si è suicidato o è morto perché è morto” (tali affermazioni sono registrate in una documentazione audio, a disposizione della Magistratura).

Riscontri importantissimi emergono dalle inchieste del P.M. della DDA di Palermo, Dott.ssa Franca Imbergamo, sui rapporti tra il gruppo Ferruzzi – Gardini della Spa in Sicilia e i fratelli Buscemi, capi di Cosa Nostra per il mandamento di Passo di Rigano – Boccadifalco di Palermo. Di particolare interesse è l’inchiesta riguardante la perizia legale fatta su alcune di queste società e il loro forte coinvolgimento con i Buscemi.
La prima dichiarazione in assoluto fu quella del Dott. Falcone che nell 1989/’90 disse che “la mafia era entrata in borsa”, in coincidenza con l’ingresso, appunto in borsa, del gruppo Ferruzzi – Gardini. La conferma che Falcone fece riferimento a queste due organizzazioni ci arriva proprio dai suoi amici, detentori delle sue confidenze.

Gli stessi elementi emergono in due requisitorie: quella del PM Luca Tescaroli per la strage di Capaci, che comprende le testimonianze di Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca e di altri collaboratori di giustizia, e quella dei P.M. La Palma e Nino Di Matteo per quanto riguarda il processo Borsellino.
Concludendo, è ormai provato che i fratelli Buscemi (ai quali il Tribunale ha sequestrato centinaia di miliardi di capitali in beni immobili) collaboravano con il gruppo Ferruzzi – Gardini tramite Lorenzo Panzavolta.
A dimostrazione di ciò che emerge dalle indagini della magistratura palermitana, risultano false e in cattiva fede le smentite dell’ex detenuto Sergio Cusani delle deposizioni del pentito Angelo Siino.

Auspichiamo che i magistrati della DDA di Palermo, in particolare il procuratore Grasso, chiedano di interrogare Sergio Cusani e Lorenzo Panzavolta, come persone informate sui fatti, sulla questione degli affari della Ferruzzi – Gardini in Sicilia, per cercare di scoprire la verità sulle stragi che nel ’92/’93 hanno insanguinato l’Italia”.

Da 10 anni, aggiungiamo noi, oggi, questi auspici e interrogativi devono ancora trovare risposta, malgrado le buone intenzioni del Procuratore Grasso che se ne va in giro per Tv a mostrare il volto gentile ma impotente del potere giudiziario (n.d.r.).
Sant’Elpidio a Mare, lì 30 novembre 2000
In Fede: Giorgio Bongiovanni
http://www.antimafiaduemila.com/2000/05/0005_49.html

OMICIDIO CLAPS. COPERTURE MASSOMAFIOSE E INQUINAMENTO DELLA GIUSTIZIA

Spesso i procedimenti penali vengono insabbiati de plano o archiviati con indagini frettolose e carenti. 
Spesso i colpevoli di efferati delitti e spregevoli reati vengono prosciolti senza neanche arrivare al processo.
Spesso persone innocenti prive di mezzi economici sulla base di prove false e lacunose vengono ingiustamente condannate al posto dei veri rei, senza la possibilità di difendersi adeguatamente e venire ascoltate.
All’origine, in genere, vi è da una parte la povertà delle vittime che non gli consente di pagare profumatamente un legale e dall’altra l’assenza di responsabilità o l’ignoranza dei magistrati incaricati che spesso non leggono neppure o non hanno tempo di studiare a fondo gli atti e la materia trattata, giudicando in maniera sommaria.
Ma spesso, quando i conti non tornano, la causa va ricercata nella diffusa obbedienza dei magistrati italiani alle logge massoniche coperte e non che gli impedisce di essere sottomessi solo alla Legge.  
E’ quanto probabilmente accaduto nel caso di Elisa Claps e del P.M. Felicia Genovese, insabbiato per oltre 17 anni, le cui responsabilità di Danilo Restivo, figlio di un massone aderente alla stessa loggia del marito del P.M. 
che affossò le indagini, impedendo il sequestro degli indumenti dell’indagato, sono state recentemente portate alla luce solo grazie alla tenacia dei congiunti della vittima e della giornalista della trasmissione televisiva “Chi l’ha Visto?”, Federica Sciarelli.   
Il ritrovamento del corpo di Elisa Claps riapre una fra le pagine piu’ incandescenti ed inedite dell’inchiesta Toghe Lucane, condotta dall’allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris. A settembre 2008 la Voce aveva dedicato in esclusiva un articolo di copertina alle minuziose ricostruzioni della Procura di Salerno, cui si erano rivolti De Magistris ed i magistrati oggetto delle sue indagini. Ripubblichiamo i brani da cui emerge il collegamento fra Toghe Lucane e la scomparsa della ragazza. Con l’ombra della massoneria.
Una pagina inquietante si apre, nell’inchiesta Toghe Lucane, sulla misteriosa scomparsa della giovane Elisa Claps, avvenuta a Potenza il 12 settembre 1993. Il caso torna infatti alla luce su iniziativa dei pm Luigi Apicella e Gabriella Nuzzi che, per riscontrare ulteriormente la correttezza delle attivita’ investigative condotte da Luigi De Magistris, assumono importanti riscontri in merito alle indagini condotte da quest’ultimo a carico di Felicia Genovese e del marito Michele Cannizzaro, iscritto alla Massoneria, coinvolti – secondo quanto emerge dall’inchiesta Toghe Lucane – nel caso Elisa Claps.
Seguiamo la ricostruzione dei pubblici ministeri salernitani.
Nel 1999 il collaboratore di giustizia Gennaro Cappiello rivela come un fiume in piena particolari sulla scomparsa della ragazza, verbalizzando dinanzi al pubblico ministero della Dda di Potenza Vincenzo Montemurro. Secondo Cappiello (il quale dichiarava di aver appreso le notizie sul caso Elisa Claps da un mercante d’arte di Potenza, Luigi Memoli), a causare la morte della ragazza era stato il giovane Danilo Restivo. Il fatto sarebbe avvenuto presso la scala mobile in costruzione a quell’epoca.
Sempre stando alla versione fornita dal pentito, Maurizio Restivo, padre di Danilo, «implicato nell’indagine e poi condannato per false informazioni al pubblico ministero, aveva, per il tramite del Memoli, contattato il Cannizzaro accordandosi per la somma di 100 milioni di lire affinche’ intervenisse sulla moglie, dottoressa Genovese, titolare delle indagini riguardanti il caso della scomparsa della Claps».
In seguito alle verbalizzazioni di Cappiello, il caso Claps passa alla Procura di Salerno, competente ad indagare sulle presunte omissioni o violazioni della Genovese. Veniva accertato che quel 12 settembre 1993 Danilo Restivo era stato effettivamente in compagnia della giovane poco prima della scomparsa.
Cosa fece il pm Genovese, che era all’epoca titolare dell’inchiesta sulla scomparsa di Elisa? «Le articolate indagini esperite dalla Procura di Salerno consentivano di ricondurre la scomparsa della giovane Elisa Claps ad una morte violenta, ma non anche ad individuare nel Restivo Danilo l’autore del fatto criminoso. Invero, si acclarava che il giorno 12 settembre 1993, Restivo Danilo, effettivamente, era stato in compagnia della giovane poco prima della scomparsa; che quel giorno stesso era stato medicato presso il locale nosocomio per alcune lesioni, prodotte, a suo dire, per un’accidentale caduta, ma, verosimilmente, frutto di una colluttazione. L’esame dell’attivita’ investigativa svolta e coordinata dalla Procura di Potenza, in persona del pubblico ministero Dr. Genovese, evidenziava, tuttavia, che nella immediatezza della notizia della scomparsa, alcuna perquisizione era stata disposta ne’ sulla persona del Restivo Danilo, ne’ presso l’abitazione familiare ovvero altri luoghi nella sua diretta disponibilita’».
Il 27 gennaio 2000 depone dinanzi al pm di Salerno l’avvocato Giuseppe Cristiani, legale della famiglia Claps, il quale fra l’altro fornisce elementi circa la comune appartenenza alla massoneria di Cannizzaro e di Maurizio Restivo, padre di Danilo. Le indagini avviate all’epoca dalla Procura salernitana su questa vicenda non consentirono di «individuare nel Restivo Danilo l’autore del fatto criminoso» ed anche l’operato della Genovese venne considerato corretto.
Strettamente collegato alla scomparsa di Elisa Claps era pero’ quanto il pentito Cappiello verbalizzo’ in seguito sul duplice omicidio di stampo mafioso dei coniugi Giuseppe Gianfredi e Patrizia Santarsiero, avvenuto a Potenza il 29 aprile ‘97. Cappiello sosteneva di avere appreso quelle notizie da Saverio Riviezzi, un pregiudicato di Potenza che era stato contattato da alcuni calabresi, fra cui un certo Aldo Tripodi, uno degli esecutori dell’omicidio, per quella duplice esecuzione. Secondo il racconto del collaboratore di giustizia ai pm della Direzione Antimafia, «mandante dell’omicidio dei coniugi Gianfredi-Santarsiero era – seguiamo ancora la ricostruzione di Cappiello, cosi’ come riportata dal documento di Apicella e Nuzzi – Cannizzaro Michele, marito del sostituto procuratore dottoressa Genovese, che aveva inizialmente curato le indagini relative al duplice omicidio in questione». Quanto al movente, «il Cappiello lo riconduceva ai rapporti che il Gianfredi aveva avuto con il Cannizzaro Michele aventi natura finanziaria, assumendo che tale ultimo era un grosso giocatore d’azzardo, rapporti bilanciati da favori giudiziari di cui il Gianfredi godeva per il tramite della moglie del Cannizzaro».
Comincia dunque una lunga serie di indagini che la Procura di Salerno avvia per riscontrare le dichiarazioni di Cappiello. «Gli esiti – spiegano oggi nell’ordinanza Apicella e Nuzzi – non consentivano di ritenere acquisite fonti di prova idonee a ricondurre agli indagati i gravi fatti delittuosi iscritti a loro carico. Emergevano, tuttavia, dalle investigazioni svolte alcune significative circostanze atte a delineare il particolare contesto ambientale di consumazione dei fatti delittuosi, la condotta tenuta dalla dottoressa Genovese nelle prime investigazioni, la personalita’ del marito dottor Cannizzaro, le frequentazioni ed i suoi legami con ambienti criminosi – in particolare, con Gianfredi Giuseppe, vittima del duplice omicidio – i contatti con esponenti della criminalita’ organizzata calabrese, i suoi interessi economici che, allora, come oggi, non potevano, comunque, non apparire “inquietanti” in relazione alla natura dell’attivita’ svolta dalla moglie dottoressa Genovese, designata all’incarico di sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Potenza, nell’ambito, cioe’, del medesimo luogo di consumazione degli accadimenti delittuosi».
Dopo lunghe indagini, il pentito Cappiello sara’ considerato dall’autorita’ giudiziaria di Salerno “inattendibile”. Eppure, ad offrire uno scenario sorprendentemente simile delle due vicende (Claps e Gianfredi), era arrivata la testimonianza di un prete-coraggio della diocesi di Potenza: don Marcello Cozzi. La giovane, quel fatale giorno del 1993, aveva battuto mortalmente la testa per sottrarsi ad un tentativo di violenza messo in atto da Danilo Restivo, il cui padre, per coprire le responsabilita’ del ragazzo, avrebbe contattato il dottor Cannizzaro; questi a sua volta si sarebbe rivolto a Giuseppe Gianfredi, che avrebbe fatto sparire il cadavere con l’aiuto dei fratelli Notargiacomo, titolari di un’officina meccanica, che avevano pertanto la disponibilita’ di acido in grado di dissolvere il cadavere.
Anche stavolta le indagini furono archiviate. Si segnala intanto ancora un particolare: da alcuni accertamenti della Guardia di Finanza di Catanzaro era emerso che Luigi Grimaldi, dirigente della Squadra Mobile di Potenza all’epoca delle indagini sulla scomparsa di Elisa Claps, dopo aver ricoperto l’incarico di dirigente amministrativo presso l’Universita’ di Salerno, svolgeva l’incarico di dirigente amministrativo presso l’Azienda Ospedaliera San Carlo di Potenza, dove Michele Cannizzaro era direttore generale.
Per concludere questa vicenda va segnalato che, sentito come teste a ottobre 2007 nel corso delle indagini sull’operato di De Magistris, ai colleghi Nuzzi ed Apicella il pubblico ministero di Potenza John Woodcock ha raccontato d’aver chiesto a marzo 2007 di astenersi in un procedimento a carico, fra gli altri, di Michele Cannizzaro in ragione del contenuto di una intercettazione telefonica fra la moglie di Cannizzaro Felicia Genovese ed il procuratore generale Vincenzo Tufano, «nella quale venivano usate espressioni particolarmente volgari sulla giornalista (Federica Sciarelli, che piu’ volte nel corso della trasmissione “Chi l’ha visto” si e’ occupata del caso Elisa Claps, ndr) e sul suo rapporto di amicizia con il magistrato (Woodcock, ndr)». Quest’ultimo riferiva inoltre «di altri emblematici tentativi di indebita strumentalizzazione del suo rapporto personale con la giornalista Federica Sciarelli, riconducibili al medesimo gruppo di soggetti indagati dal pubblico ministero De Magistris nel procedimento Toghe Lucane».

IL CSM “AMICO”
Il 4 marzo 2008 De Magistris chiede alla Procura salernitana che indaga sul suo conto (e che poi lo prosciogliera’, aggiungendo ipotesi di gravi addebiti a carico dei suoi principali denuncianti), di rendere testimonianza spontanea. Dalla lunga verbalizzazione emerge, fra l’altro, l’allucinante spaccato sul ruolo del Csm cosi’ come si evince direttamente dalla lettura dell’intercettazione telefonica intercorsa il 28 febbraio 2007 tra Felicia Genovese ed un altro noto esponente di Magistratura Indipendente, Antonio Patrono, presidente della prima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, deputata a verificare l’apertura di una pratica di trasferimento per incompatibilita’ ambientale di De Magistris. La conversazione avviene il giorno successivo all’esecuzione delle perquisizioni nell’ambito del procedimento Toghe Lucane.
Nel commentare con Patrono le sue vicende giudiziarie, Genovese sollecita l’interessamento di altri componenti del Csm tra cui Giulio Romano, della sua stessa corrente, e Cosimo Ferri. «Tra i nominativi richiamati nella conversazione – tengono a sottolineare Apicella e Nuzzi – vi e’ quello del dottor Giulio Romano, componente della Sezione Disciplinare del Csm e relatore della sentenza emessa nei confronti del dottor De Magistris».

Rita Pennarola
Fonte: www.lavocedellevoci.it
Link: http://www.lavocedellevoci.it/news1.php?id=134
29.03.2010