LE MANI DELLA 'NDRANGHETA SULLA LOMBARDIA. ARRESTATI POLITICI, IMPRENDITORI E APPARTENENTI ALLE FORZE DELL'ORDINE

 
Tra gli indagati anche politici ed  appartenenti alle forze dell’ordine Volevano infiltrarsi nell’Expo 2015.
Maroni: “colpito cuore del sistema”.
ROMA
Trecento arresti tra la Calabria e il Nord Italia: è la maxi operazione più grande mai eseguita dalle forze dell’ordine (Carabinieri e Polizia) contro la ’ndrangheta. Impegnati per il blitz 3000 uomini, gli arrestati sono accusati di associazione di tipo mafioso, traffico di armi e stupefacenti, omicidio, estorsione, usura ed altri gravi reati.

Secondo gli investigatori l’indagine ha messo in evidenza una direzione strategica nella città di Reggio Calabria, cui farebbero capo i «mandamenti» della ’ndrangheta della provincia e quelli del nord Italia e dell’estero, dalle Americhe all’Australia. In pratica è stato colpito lo schema organizzativo della mafia calabrese, mutuato dalla mafia siciliana. Centoventi i fermi disposti dalla Dda di Reggio Calabria; 180 gli arresti disposti dalla magistratura di Milano. Nella rete degli investigatori sarebbero finiti tutti i capi dei clan del reggino. In manette oltre ai vertici delle cosche calabresi, anche 4 carabinieri, un direttore della ASl di Pavia.

Secondo i magistrati di Reggio Calabria e di Milano la ’ndrangheta, dopo un lento processo evolutivo, già delineato da alcuni collaboratori di giustizia nei primi anni ’90, ha raggiunto una nuova configurazione organizzativa, in grado di coordinare le iniziative criminali delle singole articolazioni, soprattutto nei settori del narcotraffico internazionale e dell’infiltrazione negli appalti pubblici. È stato documentato tecnicamente come le cosche della provincia di Reggio Calabria costituiscano il centro propulsore delle iniziative dell’intera organizzazione mafiosa, nonchè il punto di riferimento di tutte le proiezioni extraregionali, nazionali ed estere. Le indagini sarebbero partite dall’omicidio di Carmelo Novella, detto compare Nuzzo, nominato capo di questo organismo, ma fatto uccidere, il 14 luglio del 2008 in un bar di San Vittore Olona, dai calabresi per le sue tendenze giudicate eccessivamente autonomiste.

Tra gli indagati ci sono anche quattro, tra brigadieri e appuntati dei carabinieri di Rho (Milano), l’ex assessore provinciale di Milano Antonio Oliviero (per corruzione e bancarotta) e l’assessore comunale di Pavia Pietro Trivi (per corruzione elettorale). Arrestato per associazione mafiosa e corruzione anche il direttore dell’Asl di Pavia, Carlo Antonio Chiriaco. Le indagini hanno anche portato all’arresto di Francesco Bertucca, 57 anni, imprenditore edile di Pavia, e di Rocco Coluccio, biologo e imprenditore. Insieme al direttore dell’Asl di Pavia sono accusati di essere stati organici alla ’ndrangheta e di essere il punto di congiunzione con l’organizzazione agli ordini del boss Pino Neri. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, si è congratulato con il Capo della Polizia-Direttore generale della Pubblica Sicurezza Antonio Manganelli, e con il Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Leonardo Gallitelli, «per l’eccezionale operazione antimafia condotta oggi in varie regioni d’Italia». «Si tratta in assoluto – afferma Maroni – della più importante operazione contro la ’ndrangheta degli ultimi anni, che oggi viene colpita al cuore del suo sistema criminale sia sotto l’aspetto organizzativo che quello patrimoniale».

Nell’inchiesta emerge il tentativo di mettere le mani sugli appalti dell’Expo 2015. E’ stato ricostruito il tentativo di assorbire nell’organizzazione criminale importanti aziende lombarde operanti nel settore edile che versavano in condizioni di difficoltà economica, allo scopo di costituire imprese ad hoc, in grado di partecipare direttamente all’affidamento degli appalti per l’Expo 2015. Un progetto ambizioso che non si è concretizzato a causa del mancato risanamento della Perego, società attualmente sottoposta a procedura fallimentare. Nell’inchiesta, inoltre, emerge un radicamento sempre maggiore della ’ndrangheta in Lombardia e nell’hinterland. Da alcune intercettazioni e a detta degli stessi indagati, «sarebbero operativi in Lombardia 500 affiliati della ’ndrangheta».

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/201007articoli/56668girata.asp
Blitz anti-‘ndrangheta, 300 gli arresti. Le mani delle cosche sulla Lombardia.

MASSOMAFIA IN UMBRIA. IL SUO GHOTA E LE INFLITRAZIONI NELL'ITALIA CENTRALE

“La Mafia, Il suo Ghota e le infiltrazioni nell’Italia centrale”

Pubblichiamo uno stralcio del documento a cura della Confesercenti di Terni-Sos Impresa che rivela la presenza della massofia nel territorio umbro e nell’Italia centrale. 

Dalla banda degli Ex pentiti all’Operazione Naos

Indagando sul traffico di stupefacenti, intimidazioni e incendi, rapine e altri traffici illeciti, la Dda di Perugia scopre quello che verrà definito dagli stessi inquirenti il clan degli ex-pentiti, che ha agito sul territorio umbro nel biennio 2006-2007. Dalle indagini è emerso che, nel carcere di Voghera, un ex-collaboratore di giustizia, Salvatore Menzo appartenente al clan mafioso di Niscemi, avrebbe deciso, insieme ad altri detenuti, di andare a vivere, al termine della pena, a Perugia, dove aveva una serie di conoscenze utili sia negli ambienti malavitosi, sia nella finanza. Scelta rivelatasi vantaggiosa per il neo gruppo criminale che, da subito, è riuscito a imporsi sul territorio, attraverso il traffico di stupefacenti (soprattutto cocaina dalla Lombardia), di armi, il controllo della prostituzione e il riciclaggio di denaro sporco, entrando in contatto con il clan Farao-Marincola di Cirò Marina.

Anche una seconda indagine, condotta dal PM di Perugia Duchini, vedono al centro le attività illegali di Menzo e del suo gruppo, nonché il night club Kristall di Perugina, oltre a numerose altre insospettabili società. Un’inchiesta partita dallo sfruttamento della prostituzione e arrivata al riciclaggio di denaro sporco che vede Menzo, secondo gli inquirenti, al centro di un’intensa attività di riciclaggio nei settori finanziario e immobiliare. Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio clan mafioso, legato ai rispettivi clan di origine e a nuove cellule residenti in Lombardia. Oltre a Menzo nel gruppo troviamo Marcello Russo, pugliese ex-pentito, e Salvatore Conte, casalese, anche lui ex-collaboratore di giustizia, affiliato al clan camorristico La Torre. Quest’ultimo è ucciso, nel marzo 2007, all’interno di una faida interna, perché diventato “inaffidabile”. L’omicidio, strano a dirsi, è avvenuto proprio sul territorio umbro e il cadavere verrà ritrovato in un bosco di Carpiano di Monteurbino, nel novembre 2007.

A raccontare tutto Paolo Carpissati, un imprenditore, che, dopo una serie di disavventure, è entrato in contatto con il clan e un gruppo criminale albanese dedito al traffico di stupefacenti. Dalla collaborazione di Carpissati e dopo l’arresto di Marcello Russo emergono anche altri aspetti inquietanti dell’intera vicenda. Il clan agiva in territorio umbro, mantenendosi però in stretto contatto con camorristi campani, stanziati nel capoluogo lombardo.

Le indagini infatti si snodano tra l’Umbria, la Lombardia, ma anche la Toscana e la Sicilia.

A svelare i fitti intrecci e la pericolosità del gruppo, un’indagine della Procura di Firenze su una serie di truffe telefoniche, che ha visto coinvolti il presidente dell’Arezzo calcio Piero Mancini, titolare della Fly Net di Arezzo, Giuseppe Cimieri, calabrese di Ciro’ Marina, residente a Perugia, il fratello Fancesco Cimieri, residente a Londra, e Carlo Contini, residente a Perugia.

I tre avrebbero costituito a Londra due societa’, la Plug Easy e la Global Management Trade Ldt, dove venivano trasferiti i soldi provento delle attività illecite. Ed è proprio con Salvatore Menzo, capo del clan degli ex pentiti, che i calabro umbri Cimieri e Contini, avrebbero avuto contatti diretti.

Nel febbraio 2008 scatta l’Operazione Naos, considerata la prima e più grande operazione an- timafia nel territorio umbro: cinquantasette arresti, di cui venti in Calabria, tra gli arrestati amministratori e dirigenti locali, accusati di poggiare politicamente un accordo imprenditoriale tra ‘ndrangheta e camorra per controllare e gestire gli appalti in Umbria, impossessarsi di aziende pulite, ed espandere le proprie capacità aziendali e di business. A svelare l’accordo oscuro i carabinieri del Ros che, al termine di un’inchiesta coordinata dalla Dda di Perugia, hanno eseguito gli arresti nei confronti dei presunti appartenenti al sodalizio mafioso collegati al clan dei casalesi e alla ‘ndrina dei Morabito-Palamara-Bruzzaniti, una delle cosche calabresi più forti e pericolose. Le indagini sono state divise in due parti, la prima ha riguardato le cosche calabresi, la seconda, invece, ha permesso di mettere in evidenza, proprio nel territorio umbro, dell’esistenza di un sodalizio legato al clan dei casalesi che, pur mantenendo contatti con l’organizzazione di appartenenza, ha operato in totale autonomia e in collaborazione con la criminalità umbra per gestire il traffico di stupefacenti e di autovetture rubate e clonate, per riciclare il denaro sporco in attività edilizie e gestire un giro di assegni falsificati. A siglare gli affari calabro-umbri una sostanziale pax mafiosa, in grado di tenere lontana l’attenzione delle forze dell’ordine. L’inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore Antonella Duchini, ha evidenziato quelle che nell’ordinanza di custodia cautelare del gip perugino vengono definite le nuove strategie del gruppo criminale, miranti a spostare, dagli storici territori di appartenenza, l’attività soprattutto economica delle famiglie. Riguardo al presunto sodalizio costituito in Umbria, nell’ordinanza è rilevato il suo elevatissimo spessore criminale tenuto conto della rete di intese con i vertici delle famiglie della ‘ndrangheta del versante ionico e con i loro emissari. Nel provvedimento si fa inoltre riferimento all’accordo tra alcuni degli arrestati per costituire a Perugia una serie di società pulite attraverso le quali aggiudicarsi appalti pubblici e privati mediante concessioni ottenute con intimidazioni e corruzioni. In particolare, le ‘ndrine calabro umbre, si apprestavano a investire in un centro turistico a Norcia, fra i monti sibillini: un villaggio turistico, comprensivo di campeggio, albergo, ristorante, minimarket e una cinquantina di mini appartamenti nel bel mezzo del Parco nazionale. Gli inquirenti, poi, hanno individuato sul territorio, fra Perugia e Ponte San Giovanni, imprese, intestate a prestanome, nate esclusivamente per la partecipazione ai bandi di gara. Alcune di queste aziende contenute nell’ordinanza di custodia cautelare sono: Teti spa, Bnn costruzioni srl, Emmebì costruzioni srl, Italappalti, Imextra spa, IV millennio, Magliulo Costruzioni, Edil Benny. Gli appalti erano concentrati in gran parte nel comune di Marsciano (Pg) dove per realizzare un lavoro sarebbero stati utilizzati materiali scadenti, all’insaputa della ditta pulita che ne copriva l’appalto e che a sua volta lo aveva subappaltato ad altre due ditte: la EdilBenny e la IV Millennio.

Al centro del sodalizio Giuseppe Benincasa, calabrese di origine residente da anni sul territorio umbro, già noto agli inquirenti come pregiudicato, che era riuscito a porsi grazie alle sue amici- zie in noti ambienti calabresi e umbri come interfaccia, locale e mafiosa, sul territorio.

Dalle attività d’indagine –ha scritto il gip – emergeva come i guadagni illeciti dell’organizzazione venivano reinvestiti dai singoli in attività all’apparenza legali, che permettevano di ripulire enormi quantità di denaro.

A gestire il cartello d’imprenditori sempre Giuseppe Benincasa, ma nelle compagini societarie, oltre a nomi di comodo, figurano altri indagati che, in una sorta di rete d’incarichi di rappresen- tanza, da un lato rendono problematica dall’esterno la ricostruzione del gruppo societario, dall’altra hanno consentito al sodalizio di gestire, in maniera unitaria, gli interessi comuni.
L’intera operazione, la prima che sancisce la presenza della mafia, così come la connota il 416 bis, è la dimostrazione che non sono infondati gli allarmi riguardanti soprattutto l’intensificarsi del traffico di stupefacenti e come sia in atto, da tempo, il tentativo di esportare e radicare in Um- bria una pratica del malaffare da estendere poi a settori dell’economia e della società umbra.

A cura: Confesercenti di Terni-Sos Impresa-Camera di Commercio di Terni

MASSOMAFIA A VENEZIA. SOTTRAZIONE DI FASCICOLI RISERVATI. LA DENUNCIA DI CARLO PALERMO

I FILONI VENETI DI INDAGINE RIMASTI INESPLORATI SULLE MASSOMAFIE.

Dato il vivo dibattito sull’argomento e l’interesse che riveste per il raggiungimento delle verità nascoste pubblichiamo in calce il testo dell’emblematica lettera inviata al Ministro di Grazia e Giustizia, dall’ ex Giudice Istruttore Carlo Palermo. La missiva risale al 1996, ma è tuttora attuale, grave, nitida: un atto di accusa contro i vertici del sistema giudiziario veneziano e dello Stato, che non richiede commenti e mette in luce come la «massomafia», possa agire indisturbatamente dalla Sicilia al Veneto, facendo sparire addittura interi fascicoli contenenti atti «top secret» dagli archivi riservati della Procura dello storico capoluogo veneto, dove tra acqua, terra e cielo, governa nei secoli l’illuminismo massonico, oscurato dalle sue stesse ombre, dalle collusioni politico-finanziarie, dalla sete di potere o, per usare un eufemismo, dalle contaminazioni con il “mondo profano”. 

Negli anni ’80, Carlo Palermo, quale Giudice Istruttore, partendo dalla Procura di Trento, condusse la grande inchiesta sul traffico di armi, droga, riciclaggio e finanziamenti illeciti, che i successivi eventi e stragi che hanno insanguinato importanti città anche del Nord e centro Italia, hanno messo in evidenza essere di decisiva importanza per dipanare quello che lo stesso Carlo Palermo definì come “quarto livello” [cioè il rapporto mafia, politica, affari, massoneria, servizi segreti], e che poi costò la vita a chi, dopo di lui, ne seguì coraggiosamente le orme, dal Sostituto Procuratore Rosario Livatino sino ai giudici Falcone e Borsellino.

L’azione di Carlo Palermo fu bloccata infatti da martellanti ingerenze e persecuzioni politico-giudiziarie, durante il governo Craxi, sino all’attentato stragista di Pizzolungo, nel 1985, da cui si salvò a stento, riportando lesioni permanenti, ma che provocò la morte di Barbara Rizzo Asta e dei suoi due figli gemelli Giuseppe e Salvatore.

In un intervista, pubblicata su Antimafia 2000, a riguardo, Carlo Palermo, ebbe a dichiarare:

Nell’85, scelsi di venire a Trapani per proseguire un’attività avviata 5 anni prima a Trento. L’attentato ritengo sia da inquadrare in un progetto preventivo“. In altre parole bisognava fermare con ogni mezzo quelle indagini scomode ai poteri occulti per cui prima di lui erano già stati trucidati dalla «massomafia» una serie di altri incorruttibili magistrati e funzionari dello Stato, tra cui Ciaccio Montaldo, del quale proseguì le indagini sul rapporto mafia-politica e i traffici internazionali di armi droga, con la regia di faccendieri e piduisti e la copertura di servizi segreti deviati. 

Sull’anomalo svolgimento delle indagini ed epilogo del caso, Carlo Palermo rimarcò la “contraddizione” legata al fatto che il processo a carico dei presunti esecutori materiali, svoltosi a poca distanza dai fatti, “sfociò nelle assoluzioni“, e che “la condanna dei presunti mandanti avvenne molti anni dopo e solo per le dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia, questi ultimi neppure ascoltati organicamente”.
Carlo Palermo ha poi ricordato che, all’epoca, “nonostante la chiedessi in continuazione, non vi era alcuna vigilanza sulla mia abitazione (una villetta al Villaggio Solare, in territorio di Valderice), né fu mai eseguita un’attività di bonifica lungo il percorso che facevo ogni mattina”. Per l’ex magistrato, “l’assenza di un controllo preventivo ha concorso in quest’attentato”.
“Auspico che in un futuro prossimo – ha detto Carlo Palermo – maturino i tempi e le condizioni per una ricostruzione storica”. “E’ da 23 anni che inseguo determinate piste”.

Come afferma Peppe Sini del Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo, a proposito della missiva dell’ex magistrato al Ministro di Giustizia, rimasta priva di risposte concrete: «l’effetto su chi legge la lettera è folgorante: in queste poche righe si rivelano più cose sull’Italia e sul potere che in tanti ponderosi trattati».
Per questo anche noi crediamo utile diffonderla ulteriormente: «come atto di solidarietà, come protesta contro l’ingiustizia, come impegno per la memoria e per la verità, come contributo alla lotta contro i poteri criminali ed i loro complici».

Ecco il testo della lettera di Carlo Palermo pubblicata alla fine del suo libro “Il giudice“. (Reverdito Edizioni, Trento 1997)

“Egregio  Signor Ministro,
il 30 ottobre scorso, su richiesta del Sostituto Procuratore Paolo Fortuna di Torre Annunziata, ho collaborato, a Venezia, alla ricerca di alcuni atti processuali facenti parte del fascicolo relativo al procedimento penale da me istruito a Trento in qualità di giudice istruttore negli anni 1980-84, e successivamente definito con sentenza dal Tribunale di Venezia.

Nell’occasione – presente era un sottufficiale dei Carabinieri di Torre Annunziata, e (all’inizio) il Sost. Proc. di Venezia dott. Foiadelli, che ci ha condotto sul posto -, è stato possibile constatare che quel fascicolo, che in origine era di circa 300.000 pagine processuali tutte chiuse in faldoni catalogati, si trovava invece, di fatto (all’interno di uno scantinato contenente altri archivi processuali) letteralmente sfasciato, sventrato, mancante di almeno 2/3 dell’originale. Le carte residue si trovavano ammucchiate per terra e in scatoloni aperti, con evidenti specifiche mancanze di atti originali.

Il dottor Foiadelli precisava che, tra questi atti, un’agenda del 1980 (da me sequestrata al direttore del Sismi, il generale Giuseppe Santovito), era stata legittimamente prelevata dal giudice istruttore di Roma Rosario Priore in connessione all’indagine da lui oggi condotta sulla strage di Ustica. Al di là di questo specifico rinvenimento, rimane il dato di fatto, constatabile ictu oculi, che il fascicolo in questione non esiste più: esistono solo poche e ormai inutilizzabili “carte” scompaginate, abbandonate e lasciate in luogo e modalità quasi incredibili, trattandosi pur sempre di atti processuali da custodire secondo modalità disciplinate dalla legge e suscettibili comunque di essere consultate a vari scopi. A parte l’amarezza personale per lo stato di questi incartamenti, che
costituirono il prodotto di quattro anni di lavoro di magistratura e di organi di polizia giudiziaria, non ritengo di essere personalmente in grado di valutare quali iniziative forse dovrebbero essere attivate, se non altro, per recuperare quel che rimane di quel fascicolo, che probabilmente racchiudeva la chiave dell’attentato che subii a Trapani e che ancor oggi continua a offrire spunti utili ad indagini attuali della magistratura.

Quanto sopra segnalo alla S. V. per quanto riterrà del caso.
Un cordiale saluto.
Trento 10 novembre 1996
Carlo Palermo

Opere di Carlo Palermo:

Riflessioni di un giudice, Editori Riuniti, Roma 1987; L’attentato, Publiprint, Trento 1992;

Il quarto livello, Editori Riuniti, Roma 1996;

Il giudice, Reverdito, Trento 1997; Il papa nel mirino, Editori Riuniti, Roma 1998;

Ustica, Avvenimenti, Roma 1998.

Una sintesi della sua inchiesta del 1980-1984 è stata pubblicata, in Armi & droga:

L’atto d’accusa del giudice Carlo Palermo, Editori Riuniti, Roma 1988 (con un saggio introduttivo di Pino Arlacchi).

Segnaliamo inoltre l’intervista, a cura di Michele Gambino, Armi & droga: la mia inchiesta, suppl. ad “Avvenimenti”, Roma 1992.

LO SCOMODO «GIUDICE RAGAZZINO» CHE AVEVA INFASTIDITO COSSIGA UCCISO DALLA MASSOMAFIA

Era il 21 settembre 1990, quando venne vigliaccamente trucidato con la complicità delle massime cariche dello Stato, giù nel vallone, braccato come un animale ferito, dai sicari della «massomafia», contro la quale aveva diretto sagacemente la sua azione, attraverso mirate indagini patrimoniali,  scoperchiando una vera e propria Tangentopoli, su cui prima per decenni la Procura di Agrigento aveva chiuso entrambi gli occhi.

“Giudice ragazzino”. Così l’aveva ingenerosamente battezzato l’ex Presidente della Repubblica, Cossiga, vicino ai poteri occulti, sempre pronto a scendere in campo quando le indagini della magistratura giungevano a toccare il cosiddetto «quarto livello», cioè quello dell’intreccio, tra mafia, politica, affari, massonaria, servizi segreti.  

Questa è la storia quasi dimenticata dell’assassinio rimasto per la magistratura di regime (ma non per noi) “senza movente” del magistrato Rosario Livatino che «giovane» lo era davvero. Due settimane più tardi se non lo avessero eliminato avrebbe compiuto 38 anni.

L’allarmante esternazione proveniente della più alta carica dello Stato non era certo un complimento.

“Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno? …

Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta”. Parola di Cossiga.

Parole offensive, ingiustificate, sprezzanti.

Come altrettanto offensive e sprezzanti saranno quelle poi pronunciate dallo stesso Cossiga contro il Procuratore di Palmi, Agostino Cordova, che “ragazzino” non era, ma aveva avuto anche lui il torto di indagare sui santuari delle massomafie.

Affermazioni volte ad intimidire, delegittimare e scavare intorno a quei magistrati scomodi, a quegli uomini delle istituzioni che non piegano la testa, una trincea sempre più incolmabile di isolamento, solitudine e discredito.

Rosario Livatino era un servitore fedele, silenzioso e infaticabile della giustizia, un vero uomo delle istituzioni, come ce ne sono stati pochi, di cui tutti gli italiani sono fieri e sarebbero felici se gli altri magistrati silenti ne seguissero l’esempio. Alle pubbliche dichiarazioni preferiva il quotidiano scrupoloso impegno, senza risparmare la propria vita, spesso lavorando sino a notte fonda, con spirito di abnegazione. Insomma, un magistrato che interpretava le sue alte funzioni istituzionali in senso autenticamente nobile e con vero spirito di missione. Generoso di cuore e ferventemente religioso si prodigava come lui stesso affermava con orgoglio per “dare alla legge un’anima“. Si perché la giustizia che tutti ben conosciamo un’anima non l’ha mai avuta. Questo doveva essere secondo Livatino il primario compito del giudice: dare un volto umano all’astratto comando della legge.

Venne invece ucciso la mattina del 21 settembre 1990 sulla superstrada Canicattì-Agrigento, lasciato solo dallo Stato, dai colleghi e dalla Chiesa, che oggi propone di avviarne il processo canonico di «beatificazione».

Da morto si sa anche chi era scomodo può venire eletto santo. Anzi conviene a tutti. 

 Specialmente allo Stato massomafioso che può bere il sangue delle proprie vittime e cibarsi della loro gloria.  

Come affermava lo stesso Livatino: “Il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico”. Diversamente è menzogna, come lo sono per lo più le celebrazioni che provengono da ogni psrte, in occasione dell’Anniversario della sua morte, senza che nessuno si preoccupi di scavare le cause e i veri mandanti rimasti occulti del vile omicidio.

Il giudice Rosario Livatino venne ufficialmente ucciso, mentre si recava, senza scorta, in tribunale, per mano di quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina, organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa Nostra.

LA STORIA UFFICIALE.

Gli atti affermano che Livatino venne ucciso dagli ‘stiddari’ ”per lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa nostra” e per punire un magistrato severo ed imparziale. Come esecutori dell’omicidio sono stati individuati Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro, tutti condannati all’ ergastolo con sentenza definitiva. I componenti del commando sono stati individuati grazie al testimone Pietro Ivano Nava, di Sesto San Giovanni, che sopraggiunse poco dopo e vide atterrito la disperata fuga a piedi del giudice nella campagna dove uno dei sicari lo raggiunse sparandogli ancora a bruciapelo gli ultimi quattro colpi in testa. Il 16 ottobre 2001 la Cassazione ha confermato la condanna all’ergastolo per Salvatore Gallea e Salvatore Calafato accusati di essere i mandanti dell’omicidio.
Secondo la sentenza, Livatino venne ucciso perché ”perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attivita’ criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioé una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’ espansione della mafia”.

LE VERITA’ INESPLORATE.

Invero, il giudice ragazzino di Agrigento si era messo in testa di sgominare i clan della provincia, dove operava lo Zar degli appalti, il mafioso Filippo Salamone, fratello del P.M. Fabio Salamone, all’epeca applicato presso la stessa Procura nissena, che avrebbe dovuto contrastare le attività della «cupola» che gestiva i grandi affari isolani, facente riferimento al fratello ingegnere, titolare della società «Impresem», indicato dallo stesso Totò Riina, come anche confermato dai pentiti Siino e Brusca, quale unico manipolatore degli appalti, compresi quelli superiori a 5 miliardi di lire, in rappresentanza di imprenditori e politici.   

Livatino che aveva concentrato la sua azione sul nodo «mafia-politica» voleva colpire duro, partendo dal sequestro dei patrimoni illeciti, tanto da avere passato ai raggi X i beni del Clan Ferro e Petruzzella, proponendo misure di prevenzione personali e patrimoniali per i capi-cosca ed i loro picciotti. La storia di Livatino – scrive di lui il sociologo Nando Dalla Chiesa – da quando nella primavera del 1979 giunge alla procura di Agrigento – è concentrare le sue indagini sugli interessi economici della mafia, dall’azione contro le “famiglie” in guerra a Palma di Montechiaro, sino alla scoperta e alla denuncia del cosiddetto intreccio tra mafia e affari, ricostruito all’interno del “regime della corruzione”, «che con il sistema mafioso condivide l’ambiguità e la doppiezza dei comportamenti, la convinzione strumentale che “sia tutto giusto e lecito, moralmente, politicamente, ciò che non è perseguibile penalmente». In questo senso, secondo Dalla Chiesa e Arlacchi lo scopo di Livatino è di riuscire a rimuovere gli ostacoli politici-istituzionali all’azione giudiziaria. «Quella del giudice ragazzino è la testimonianza di una battaglia coraggiosa contro la mafia ma anche in difesa dell’indipendenza dei magistrati». [“Il giudice ragazzino. Storia di Rosario Livatino assassinato dalla mafia sotto il regime della corruzione“, Einaudi, Gli struzzi, 2002].

E’ inutile ribadire a riguardo che l’incisività senza precedenti dell’azione investigativa e l’integrità morale del giovane P.M. si scontravano in maniera insanabile con l’ambiente giudiziario locale, portato consuetudinariamente ad insabbiare ogni inchiesta riguardante mafia-politica-appalti. Ragione che avrebbe potuto far maturare la decisione di eliminarlo all’interno degli stessi ambienti della locale procura onde mantenere inalterato il controllo del territorio.  Basterà dire, come poi più tardi osserverà lo stesso nuovo Procuratore Miccichè che, fino al 1992, cioè due anni dopo l’uccisione di Livatino, di inchieste contro la Pubblica Amministrazione ad Agrigento se ne fecero in tutto solo una ventina, salendo a ben 500, nel solo 1993 … !  

Le cause della morte di Livatino vanno quindi ricercate nella tangentopoli che verrà poi scoperchiata nella valle dei templi e nell’isola siciliana, dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, in cui perirono Falcone, Borsellino e relative scorte, dove oltre ai templi di Zeus, Giunone ed Eracle, sono rimasti intatti quelli delle logge massoniche, che per decenni hanno garantito impunità alle attività delle organizzazioni criminali e alla “famiglia” di Filippo Salamone, l’ «acchiappatutto isolano», definito con l’altro Salamone magistrato: «i fratelli più potenti della città».

Grazie alle nuove strategie introdotte dal giovane Livatino, volte ad individuare i percorsi dei patrimoni illeciti accumulati dalla mafia e allo sviluppo delle sue intuizioni investigative, sulle cui orme procedettero Falcone e Borsellino, i due grandi magistrati, prima di venire a loro volta trucidati, riuscirono a portare alla luce i collegamenti con le massomafie del nord, il finanziamento illecito dei partitti e il riciclaggio dei proventi del narcotraffico nelle banche svizzere.

Dopo la loro morte, Filippo Salamone venne arrestato per ordine della Procura di Palermo con l’accusa di concorso in associazione mafiosa, eppoi condannato a sei anni di reclusione, confermati nel 2008 dalla V sezione penale della Corte di Cassazione. L’ordine di cattura venne emesso nell’ambito dell’inchiesta «mafia e appalti ter», scaturita dalle dichiarazioni di Angelo Siino, in cui furono chiesti gli arresti di altre 9 persone, tra cui l’amministratore della Calcestruzzi spa del Gruppo Ferruzzi, Lorenzo Panzavolta, già coinvolto nelle inchieste del pool di Milano, e gli imprenditori siciliani Sebastiano Crivello e Giuseppe Bondi; l’imprenditore palermitano Antonino Buscemi, l’ingegnere palermitano Giovanni Bini, collegato a Buscemi, rappresentante del finanziere Raul Gardini e collettore della cosiddetta «tassa Riina», cioè della parte di tangente che toccava alla mafia, dopo che venne deciso di sbarazzarsi di Siino; gli imprenditori agrigentini Giovanni Miccichè, socio di Salamone, e Antonio Vita che regolarmente si aggiudicava appalti pubblici pilotati dal comitato d’affari gestito da Buscemi e Bini e in precedenza da Siino.  L’imprenditore Salamone era già stato in precedenza arrestato nel 1993 e condannato ad un anno e tre mesi per «concussione».

A riguardo, Siino ha dichiarato che alla fine degli anni ’80: «esisteva un gruppo di interessi, che aveva il 90 per cento del controllo dei grandi appalti in Sicilia, facente capo all’ex presidente della Regione siciliana, Rino Nicolosi, all’ex ministro Calogero Mannino, a Salvatore Sciangula (politico democristiano indicato come colui che avrebbe favorito l’ascesa delle imprese del cognato Salamone), a Salamone e Vita», e inoltre che «esisteva un accordo tra Antonino Buscemi e il Gruppo Ferruzzi, tramite Lorenzo Panzavolta». Dopo una riunione avvenuta nel 1988 negli uffici della Calcestruzzi, presenti Salamone, Bini e Buscemi, per decidere il nuovo sistema di controllo degli appalti, venne deciso che a quest’ultimo sarebbero toccati soltanto gli appalti di importo inferiore ai 5 miliardi. Degli altri si sarebbe dovuto interessare Salamone divenendo così, secondo l’accusa, «perno di quel sistema». Circostanze poi praticamente in toto confermate dalla condanna definitiva della Corte di Cassazione.

Può essere che Livatino avesse intuito già dal 1990 questo sistema corruttivo interno alla Procura di Agrigento dove operava e si apprestasse a farlo saltare…? 

E’ la risposta che aspettiamo potere presto ricevere dalla parte sana della magistratura e delle Autorità dello Stato, magari anche con l’aiuto della Chiesa e delle Associazioni antimafia, sempre pronte a ricordare con arrendovole mestizia la memoria dei martiri della giustizia e a inscenare solenni celebrazioni, fiaccolate, dibattiti e manifestazioni di piazza, ma senza mai impegnarsi con la dovuta determinazione sul terreno della denuncia dei poteri forti e della ricostruzione storica dei fatti. Fedeltà ricostruttiva che, come la storia insegna, al di là delle monche ipocrite false verità giudiziarie, è sempre la Società civile nel suo insieme a riuscire a portare alla luce, rivelando le verità nascoste dal potere, attraverso il generoso sforzo e incessante impegno di uomini liberi, privi di collari ideologici e padrini politici. Solo così si potrà veramente rendere giustizia a Rosario Livatino e ai tanti magistrati e fedeli servitori dello Stato, beatificandone veramante la memoria. 

“Il mondo di oggi ha bisogno di persone che abbiano amore

e lottino per la vita almeno con la stessa intensità

con cui altri si battono per la distruzione e la morte”.

Gandhi

A cura di Pietro Palau Giovannetti         

ANTONINO SAETTA MAGISTRATO SCOMODO NEMICO DICHIARATO DEI CENTRI DI POTERE OCCULTO

Antonino Saetta, Presidente della Prima Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo, barbaramente trucidato dalle massomafie, insieme al figlio Stefano la sera del 25 settembre 1988, con caratteristiche da autentica guerriglia urbana.

Gli investigatori conteranno sull’asfalto un centinaio di bossoli di armi di grosso calibro e da guerra.

Un duplice omicidio eccellente con tre finalità: uccidere il più accreditato magistrato giudicante candidato a presiedere il processo d’appello alla cupola mafiosa; vendicarsi dell’integerrima condotta tenuta dal giudice in precedenti processi e gettare un avvertimento ai colleghi superstiti. Obiettivi, almeno per qualche tempo, in gran parte raggiunti.

Per rimediare ad un vuoto di conoscenza di queste due belle figure e dell’alto Valore morale, etico e professionale dimostrato dal Presidente Saetta, conscio dei pericoli cui andava incontro e cui era stato esposto, pubblichiamo un’analisi scritta dell’avvocato Roberto Saetta,  figlio superstite assieme alla sorella Gabriella.

Antonino Saetta magistrato scomodo nemico dichiarato dei centri di potere
di Roberto Saetta
Saetta Antonino. Magistrato canicattinese ucciso dalla mafia il 25 settembre del 1988. Uomo equilibrato ed integerrimo pagò con la vita il rifiuto a piegarsi alle pressioni criminali che volevano ribaltare in appello un verdetto contro la mafia di Palermo. E’ stato assassinato insieme al figlio Stefano. La sua morte è stata però dimenticata, ed ogni anniversario diventa occasione per cogliere con mano l’indifferenza che ha ricoperto questa tragica fine di un servitore dello Stato.
Ecco una breve biografia di Antonino Saetta.

Mi si è chiesto di fornire alcune brevi notizie sulla vita, e sull’uccisione del magistrato Antonino Saetta, e del figlio Stefano, morto con lui.

E’ un compito che, seppure mi riporti alla mente fatti dolorosi, svolgo volentieri, nella convinzione che sia opportuno cercare di tener vivo il ricordo di certi eventi e di certi uomini che sono caduti per difendere interessi e valori della società civile tutta.

A maggior ragione l’informazione appare opportuna con riferimento ad una vittima di mafia, quale Antonino Saetta, che è certamente meno conosciuta e meno rievocata di altre consimili, pur essendo non meno rilevante e significativa. Antonino Saetta nacque a Canicattì il 25.10.22, terzo di cinque figli, da Stefano, maestro elementare, e da Maddalena Lo Brutto, casalinga. Conseguita la maturità classica presso il liceo ginnasio statale di Caltanissetta, si iscrisse nel 1940 alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Palermo.

Chiamato nel frattempo alle armi, partecipò al corso per allievi ufficiali di complemento dell’esercito, che fu però interrotto per la sopraggiunta cessazione delle ostilità. Dopo aver conseguita la laurea in Giurisprudenza nel 1944, col massimo dei voti e la lode, vinse il concorso per Uditore Giudiziario. Entrò in Magistratura nel 1948, all’età di ventisei anni.

La sua prima sede di servizio fu Acqui Tenne (Al), in Piemonte. Nel 1952, sposò Luigia Pantano, farmacista, anch’essa di Canicattì. Ad Acqui Tenne nacquero i figli Stefano e Gabriella.

Si trasferì poi, nel 1955, a Caltanissetta, ove, alcuni anni dopo, nacque il terzo figlio, Roberto (chi scrive). Fu quindi a Palermo, nel 1960, ed ivi svolse poi la maggior parte della carriera, occupandosi prevalentemente di processi civili, salvo talune parentesi. Nel periodo 1969-71 fu Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Sciacca. Negli anni 1976-78, fu Consigliere presso la Corte d’Assise d’Appello di Genova, ove si occupò anche di taluni processi penali di risonanza nazionale (Brigate Rosse; naufragio doloso Seagull). Nel periodo 1985-86, ricoprì le funzioni di Presidente della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta. E qui si occupò, per la prima volta nella sua carriera, di un importante processo di mafia, quello relativo alla strage in cui morì il giudice Rocco Chinnici, ed i cui imputati erano, tra gli altri, i “Greco” di Ciaculli, vertici indiscussi della mafia di allora, e pur tuttavia incensurati. Il processo si concluse con un aggravamento delle pene e delle condanne rispetto al giudizio di primo grado.

Antonino Saetta tornò poi definitivamente a Palermo, quale Presidente della prima sezione della Corte d’Assise d’Appello.
E qui si occupò di altri importanti processi di mafia, ed in particolare presiedette il processo relativo alla uccisione del capitano Basile, che vedeva imputati i pericolosi capi emergenti Giuseppe Puccio, Armando Bonanno, e Giuseppe Madonia. Il processo, che in primo grado si era concluso con una sorprendente, e molto discussa, assoluzione, decretò, invece, in appello, la condanna degli imputati alla massima pena, nonostante i tentativi di condizionamento effettuati sulla giuria popolare, e, forse, sui medesimi giudici togati.
Pochi mesi dopo la conclusione del processo, e pochi giorni dopo il deposito della motivazione della sentenza, il Presidente Antonino Saetta fu assassinato, insieme con il figlio Stefano, il 25 Settembre 1988, sulla strada Agrigento – Caltanissetta, di ritorno a Palermo, dopo avere assistito, a Canicattì, al battesimo di un nipotino. L’inchiesta, pur essendo sin da subito chiara agli inquirenti la matrice mafiosa dell’omicidio, era stata, in un primo tempo, archiviata a carico di ignoti. In quegli anni, non era ancora stata introdotta la legislazione sul pentitismo; e la quasi totalità degli omicidi di mafia, anche di alte personalità dello Stato, rimanevano prive di colpevoli e persino di imputati. Sette anni dopo, nel 1995, grazie a nuovi elementi investigativi nel frattempo forniti da alcuni collaboranti, e grazie anche al caparbio impegno e alla capacità di due giovani pubblici ministeri presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta, che voglio ricordare, il dr. Antonino Di Matteo, ed il dr. Gilberto Ganassi, si poté riaprire l’inchiesta.

I responsabili della duplice uccisione vennero individuati in Totò Riina, Francesco Madonia, e Pietro Ribisi. I primi due, capi indiscussi della mafia palermitana, e della cosiddetta cupola, come mandanti; il terzo, Ribisi, esponente di una sanguinaria famiglia mafiosa di Palma Montechiaro, quale esecutore, insieme con altri criminali, nel frattempo uccisi. I tre imputati sono stati processati e condannati all’ergastolo, dalla Corte d’Assise di Caltanissetta. Il verdetto, confermato anche nei successivi gradi di giudizio, è ormai passato in giudicato. Antonino Saetta rappresentava un obiettivo di primaria importanza per la mafia, un obiettivo da eliminare necessariamente. Per raggiungere il quale, ebbero a convergere le forze di due articolazioni territoriali della mafia: quella palermitana, e quella agrigentina. I processi di mafia presieduti da Antonino Saetta avevano riguardato prevalentemente se non esclusivamente la mafia di Palermo, che risulta mandante dell’assassinio.

L’esecuzione materiale dello stesso viene però affidata alla mafia dell’agrigentino, con la consegna di occuparsene in quel territorio. Ciò, in parte, è stato determinato da ragioni di maggior sicurezza operativa: nessun rischio presentava infatti un agguato a quel magistrato, nel momento in cui, in compagnia soltanto del figlio, ritornava a Palermo, da Canicattì, in tarda serata, su una normale vettura, e senza scorta, in un tratto di strada poco trafficata e circondata dalla campagna. Si conseguiva, inoltre, il vantaggio ulteriore di confondere le acque agli inquirenti.

Ma il motivo principale di quella scelta era un altro: risulta, dagli atti processuali, che la mafia dell’agrigentino, il cui capo indiscusso era, allora, il canicattinese Peppe Di Caro, poi ucciso, abbia volentieri accettato di occuparsi dell’esecuzione materiale di quell’assassinio, per acquisire maggior prestigio all’interno dell’organizzazione e, soprattutto, per stringere più forti rapporti di alleanza con le cosche dominanti del palermitano.

La collaborazione tra la mafia palermitana e quella agrigentina serviva anche a dare un segnale di compattezza, e di risolutezza, tanto più necessario per il significato dirompente di quell’evento: per la prima volta si uccideva un magistrato “giudicante”, un organo che, per definizione, non è antagonista rispetto al reo, come lo è invece un magistrato inquirente, ma si colloca in una posizione super partes, di terzietà e di garanzia, tra l’accusa e la difesa, e pronunzia il suo verdetto, in nome del Popolo Italiano, sulla base degli elementi processuali forniti dall’una e dall’altra.
Con l’uccisione di Antonino Saetta si compiva un tragico salto di qualità: chiunque amministrava giustizia, ledendo interessi mafiosi adesso avrebbe potuto sentirsi in pericolo di vita.

L’effetto intimidatorio che ne scaturì negli anni successivi – effetto assolutamente voluto – fu esteso e ben evidente, come espressamente è stato scritto nella relazione finale della commissione parlamentare antimafia, presieduta dal sen. Violante, e si concretizzò in una lunga sequela di ingiustificabili assoluzioni. La gravita di quell’omicidio fu per la verità, sin dall’inizio, chiara agli operatori giuridici e alle autorità istituzionali: ai funerali di Antonino e Stefano Saetta, a Canicattì, volle partecipare, accanto al Capo dello Stato, a Ministri, a Segretari di partito, anche l’intero Consiglio Superiore della Magistratura, fatto questo che mai si era verificato prima, in casi analoghi, né mai si verificò dopo, neppure dopo le stragi del 1992.

Ma perché la mafia decise di uccidere un magistrato così poco noto alle cronache come Antonino Saetta?
Innanzitutto, per quello che egli aveva già fatto. Negli ultimi anni di vita, come s’è detto, si era occupato, quale Presidente di sezione di Corte d’Assise d’Appello, di due fondamentali processi di mafia: quello relativo all’uccisione del giudice Chinnici, contro i Greco di Ciaculli, e il processo relativo all’omicidio del capitano dei carabinieri Basile, contro i boss emergenti Puccio, Bonanno e Madonia. Entrambi questi processi, condotti con mano ferma, si conclusero con la condanna all’ergastolo degli imputati, e, particolare che va ricordato, con l’aumento delle pene e delle condanne rispetto al giudizio di 1° grado; invertendo così una comune ma ingiustificata prassi giudiziaria che ci aveva abituati a vedere le sentenze di appello quasi sempre più miti e indulgenti di quelle di primo grado.

Il processo Basile fu l’ultimo processo presieduto da mio padre: il dispositivo venne letto poche settimane prima della sua uccisione. E’ probabile che un movente di ritorsione vi fosse, per il modo rigoroso e inflessibile con il quale il processo fu presieduto, sottraendolo a pesanti condizionamenti criminali.
Ma certamente non vi fu solo ritorsione. Antonino Saetta fu ucciso anche, o soprattutto, per quel che avrebbe potuto fare quale probabile presidente, come correva voce, del maxiprocesso d’appello contro la mafia. La quale non poteva gradire per quell’incarico un giudice che si era dimostrato non influenzabile in alcun modo e non suscettibile di intimidazione. Il movente dell’assassinio è stato quindi triplice: “punire” un magistrato che, per la sua fermezza nel condurre il processo Basile, e, prima, il processo Chinnici, aveva reso vane le forti pressioni mafiose esercitate; “ammansire”, con un’ uccisione eclatante, gli altri magistrati giudicanti allora impegnati in importanti processi di mafia; “prevenire” la probabile nomina di un magistrato ostico, quale Antonino Saetta, a Presidente del maxiprocesso d’Appello alla mafia
.
Antonino Saetta era un magistrato schivo e riservato, per indole e per scelta di vita. Un giudice che, come tanti, ma non come tutti, aveva fatto carriera lontano dai centri di potere, palesi od occulti.
Un giudice che, come il conterraneo Rosario Livatino, evitava la frequentazione dei politici, non per banali pregiudizi nei loro confronti, ma per far sì che non si determinassero indebite interferenze, magari inconsce, sul suo operato. Un giudice che però, dopo la sua tragica fine, è stato spesso dimenticato. Al punto che la sua figura, e persino il suo nome, sono ormai sconosciuti a tanti, soprattutto ai più giovani. All’oblio hanno concorso vari fattori: anzitutto, la sua poca notorietà da vivo, determinata in parte dalle funzioni che svolgeva, che erano funzioni “giudicanti”, solitamente poco illuminate dai riflettori delle telecamere.
In secondo luogo, la sua naturale riservatezza, che dovrebbe essere tuttavia una virtù o un dovere per ogni magistrato. Probabilmente ha contribuito anche il luogo scelto per l’omicidio, un luogo lontano da Palermo, città ove era la sua residenza e ove svolgeva la sua attività. Ancora più sconosciuta è la figura del figlio Stefano, morto con lui, all’età di 35 anni. Talmente sconosciuta che, in quel mediocre film intitolato “Il Giudice Ragazzino”, film che non è piaciuto neanche ai genitori di Rosario Livatino, Stefano viene incomprensibilmente rappresentato come un disabile allo stato vegetativo sulla sedia a rotelle, quando invece era un giovane fisicamente sano, e addirittura sportivo: era un ottimo nuotatore, faceva spesso lunghe camminate, e talvolta giocava pure a calcio.
Aveva avuto dei disturbi psichici, dai quali però era sostanzialmente guarito già diversi anni prima della morte.
La conoscenza della vicenda di Antonino e Stefano Saetta è indispensabile per chiunque voglia realmente comprendere cosa sia stata la lotta alla mafia negli ultimi venti anni, e quale sia stato il livello dello scontro. Ritengo che, prima o poi, a differenza di quel che sinora è avvenuto, gli operatori culturali, gli studiosi, il mondo accademico, si soffermeranno più ampiamente su questa vicenda, che ha caratteristiche di gravità unica: unica perché, per la prima e sinora unica volta, è stato ucciso un magistrato giudicante; e unica perché, per la prima e unica volta, insieme con il magistrato da uccidere, è stato ucciso anche suo figlio.

CESARE TERRANOVA. UN OMICIDIO MATURATO TRA POLITICA, MAFIA E MASSONERIA

Ad onore dei miei genitori voglio ricordare che i principi che mi hanno guidato in tutta la vita sono frutto della educazione da loro ricevuta e che, se in qualche misura sono riuscito ad operare bene da uomo e da cittadino, ciò lo devo soprattutto agli insegnamenti e agli esempi costanti di mio padre e di mia madre, ai quali va la mia infinita gratitudine.” 

1 marzo 1978

Cesare Terranova

 A Palermo viene assassinato Cesare Terranova con la sua guardia del corpo. Per due legislature, eletto nelle liste del PCI e membro della commissione antimafia, stava indagando su casi scottanti: sulla droga, che negli ultimi tempi sull’isola ha un ruolo preponderante nel traffico internazionale degli stupefacenti, oltre il consumo in Italia che é già a dimensioni allarmanti.
Terranova era il magistrato che inchiodò nel ’74 Luciano Liggio a Milano, la “Primula Rossa” di Corleone. Il Boss lasciò la potente organizzazione in Sicilia in eredità ai suoi due luogotenenti Toto Riina e Calogero Bagarella ( legati a Buscetta, Bontade (imperatore delle Tv, morirà ammazzato il 24 aprile 1981), Badalamenti, Salvo, Turatello  – e altri nomi che si intrecciano con le BR, Moro, Della Chiesa, Pecorelli, Gelli, Sindona, Calvi, Borsellino, Falcone e….  omissis, omissis, omissis)

“E solo l’inizio (ed era vero! ma all’incontrario) -disse quel giorno il magistrato a Milano – vinceremo la lotta contro la mafia; è dal 1904 che lo Stato non registrava un successo così importante”.
Ma Liggio o qualcuno per lui, lo aveva già quel giorno condannato a morte. Ma chissà perchè l’assassinio fu rivendicato da Ordine Nuovo (gli stessi che rivendicarono la strage di Piazza Fontana a Milano,  Piazza della Loggia a Brescia, attentato a Rumor, e altri tanti drammatici eventi che hanno funestato l’Italia).

 Il passaggio dalla vecchia mafia alla mafia imprenditrice non fu incruento. Come sempre i regolamenti di conti e i processi di rinnovamento vennero raggiunti con il sangue. All’inizio degli anni Ottanta scoppiò infatti la grande guerra di mafia che porterà al potere il gruppo tutt’ora egemone: i Corleonesi di Totò Riina, in principio rappresentati in Commissione dal “Papa” della Mafia, Michele Greco, della famiglia di Ciaculli, località alle porte di Palermo.

La guerra fu condotta con una violenza inaudita. In seguito si disse che questa era una novità, che la vecchia mafia usava metodi meno violenti, e che la nuova mafia aveva perso il vecchio “senso dell’onore”. A smentire questa versione stanno però i resoconti storici che risalgono fino al secolo scorso, e che da sempre narrano l’estrema violenza nella soluzione dei rapporti di forza tra le cosche. Anzi, è tradizione immutata nella mafia che l’affermazione personale avvenga sempre attraverso la violenza direttamente esercitata.

L’idea che a volte si ha dei capi mafiosi come “menti” raffinate, che vivono ad un altro livello rispetto agli esecutori dei loro voleri è del tutto sbagliata (Falcone, Arlacchi). Anzi, caratteristica peculiare della mafia, rispetto ad altre forme di criminalità di alto livello, è proprio questa identità tra mandanti ed esecutori, così che si diventa capimafia solo passando attraverso i crimini più efferati, e spesso sono gli stessi capi che partecipano direttamente alle azioni più importanti.

Alla guerra di mafia si associò anche una serie di “delitti eccellenti” che non aveva pari con la precedente storia di Cosa Nostra. Cosa era successo? Fino alla fine degli anni Settanta lo Stato aveva convissuto con la mafia in maniera piuttosto pacifica. Vi erano dirette connessioni tra potere politico e mafia, come abbiamo visto, ma vi era anche una certa tolleranza da parte della magistratura, delle forze di polizia, e persino della classe imprenditoriale nei confronti di un’associazione che garantiva una certa pace sociale, il controllo delle altre forme di criminalità, ed alla quale venivano lasciati in cambio ampi spazi d’azione.

Per svariate ragioni difficili da riassumere in poche righe, la società siciliana, sul finire degli anni Settanta, cominciò a ribellarsi a questo stato di fatto, e nella magistratura, nella società civile, e persino nella politica cominciarono a esserci voci contrarie alla mafia.

La prima reazione delle cosche fu quella di eliminare chiunque si opponesse seriamente al loro strapotere, approfittando anche del fatto che spesso queste persone erano isolate e poco protette negli stessi ambienti in cui vivevano. Iniziò così la stagione dei delitti eccellenti. Si cominciò nel 1979 con il giudice Cesare Terranova, appena tornato alla magistratura attiva dopo essere stato deputato per il PCI e membro della Commissione antimafia. Seguirono, tra i magistrati, gli omicidi di Gaetano Costa (1980), appena nominato procuratore a Palermo, e Rocco Chinnici (1983), capo dell’Ufficio istruzione di Palermo e diretto superiore di Falcone, al quale per primo aveva dato lo spazio necessario per le indagini antimafia. Tra i politici, nel 1980, di particolare significato fu l’omicidio di Piersanti Mattarella, democristiano, da poco nominato presidente della Regione Sicilia confidando nel fatto che il padre, Bernardo, aveva avuto nel passato “pacifici” rapporti con la mafia. Il cambiamento culturale che stava avvenendo in Sicilia passava però anche all’interno delle famiglie, ed il giovane Piersanti si diede subito da fare per isolare i comitati d’affari politico mafiosi nella Regione, pagando con la vita questa scelta. Ancora tra i politici, fu ucciso Pio La Torre (1982), segretario regionale del PCI, da sempre attivo nella lotta antimafia.

Anche le forze dell’ordine pagarono caramente il nuovo clima di opposizione alla mafia. Furono uccisi il vicequestore di Palermo Boris Giuliano, gli ufficiali dei carabinieri Giuseppe Russo e Emanuele Basile, e i dirigenti di polizia Beppe Montana e Ninni Cassarà. Nel settembre 1982 fu ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa con la sua giovane moglie, da 100 giorni nominato prefetto di Palermo, ed ancora in attesa di quei poteri speciali che aveva richiesto per combattere più efficacemente la mafia, e che il governo aspettò troppo a lungo a concedergli.

Avvenimenti Italiani

Il Cervello omicida non è sempre la mafia

Nella corale lotta al fenomeno mafioso è mancata – non si sa se volutamente o per incapacità – una approfondita analisi sui delitti perpetrati dalla mafia le cui vittime sono state qualificate “cadaveri eccellenti”.
Dal 1972 ad oggi, da quando cioè la Commissione Antimafia ha concluso i suoi lavori in clima di manifesta omertà, nella città di Palermo, sede del potere politico, sono stati assassinati due Procuratori della Repubblica, il magistrato capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, un colonnello dei carabinieri, un Presidente della Regione, il Prefetto di Palermo e la sua consorte, il segretario provinciale della Democrazia Cristiana, due giornalisti, il presidente di uno dei maggiori ospedali dl Palermo, il sindaco di uno dei centri della provincia, il segretario della sezione di uno dei partiti laici, il direttore di un’agenzia di banca, tutti delitti atipici, e tutti rimasti impuniti.
Da questo terrificante elenco sono stati esclusi il vicequestore di Palermo Boris Giuliano, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il maresciallo Ievolella, il brigadiere Aparo ed i numerosi agenti di polizia e carabinieri caduti nella lotta alla criminalità perché non rientrano nella categoria “cadaveri eccellenti”, anche se i delitti sono stati atipici, e anch’essi rimasti impuniti. Ovviamente non sono state incluse numerose altre “vittime eccellenti” perché in evidente odore di mafia.
Tutte le indagini per tutti i delitti si sono adagiate sulla facile pista del traffico degli stupefacenti e del riciclaggio del denaro sporco investito negli appalti delle opere pubbliche, e si è corso dietro raccoglitori di olive, supertestimoni ed altri santipaoli fabbricati dalla mafia, e non si è tenuto conto – o si è voluto ignorare – che nella storia della mafia i pochi “cadaveri eccellenti” hanno avuto “mandanti eccellenti”: e per i pochi casi registrati si ricorda l’omicidio di Emanuele Notarbartolo, barone di S. Elia, direttore generale del Banco di Sicilia, perpetrato nel 1893, per il cui assassinio è stato additato quale mandante l’onorevole Raffaele Palizzolo, deputato del collegio della “Briaria”, quartiere di Palermo tristemente famoso per essere il covo della feroce mafia protetta dai politici del partito allora al potere.
Non si è tenuto conto che sia a Palermo che altrove, la mafia non aveva mai ammazzato o fatto ammazzare uomini politici e alti funzionari dello Stato; non aveva mai “punito” o “fatto punire” un giornalista “nordico” o siciliano che da Palermo ha dettato i suoi articoli a giornali di Roma o di Milano; non ha mai attentato alle attrezzature ed agli impianti delle troupes cinematografiche, anche se il soggetto è stato dichiaratamente contro la mafia; non ha mai infastidito nessun operatore televisivo, salvo ad intervenire in sede di potere per impedire la trasmissione; non ha mai aggredito, ricattato o sequestrato un turista il cui nome è stato seguito da nomi con una lunga serie di zeri ragguagliabili in dollari e sterline.
Nel corso delle indagini per i “cadaveri eccellenti” sono state scoperte “piste convergenti” legate agli stessi motivi ed alle stesse cause per le quali sono avvenute faide fra cosche; sono stati “fatti passi avanti” per avere accertato che la stessa arma è servita per più omicidi perpetrati in tempi e luoghi diversi, e non si è tenuto conto delle diverse origini e cause, della diversa qualità delle vittime e, soprattutto, del fatto che “quell’arma” può anche essere “attrezzo di lavoro” di proprietà di una “anonima delitti” che noleggia la manovalanza armata per la esecuzione di lavori su commissione da eseguire a Palermo o a Catania, in Toscana o nella Germania Occidentale, ove sono avvenuti fatti delittuosi atipici.
L’avere accomunato in un unico fascio tutti i delitti e tutte le vittime, attribuendole alla cosiddetta “mafia emergente”, cioè alle cosche del traffico degli stupefacenti che sono riuscite ad eliminare le “consorelle concorrenti”, è stato un grosso errore che ha favorito la “grande famiglia” della mafia palermitana della quale fanno parte uomini politici e alti burocrati, gli stessi che sono riusciti ad uscire indenni ed indisturbati dalle indagini e dalla inchiesta della Commissione Antimafia.
Ritenere, ad esempio, che Pio La Torre, segretario regionale del Partito Comunista, deputato al Parlamento, ex membro dell’Antimafia, e Cesare Terranova, ex deputato eletto nelle liste del P.C.I., ex membro della Commissione Antimafia e, come tale, come La Torre, depositario dei segreti della “santabarbara” della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, siano stati fatti assassinare da Luciano Liggio o dalla “mafia emergente” – palermitana o catanese poco importa – è stato un errore perché ha depistato le indagini, ha disorientato l’opinione pubblica che dal Partito Comunista in Sicilia si aspetta ben altro tipo di lotta alla mafia e soprattutto una più impegnata lotta ad alcuni gruppi di potere ed alla parte corrotta e corruttrice dell’alta burocrazia dello Stato e della Regione, ha fermato le ansie e le spinte di quanti vorrebbero collaborare con le forze di polizia, come è avvenuto negli anni della prima fase dei lavori dell’antimafia, quando molti siciliani uscirono dall’atavico silenzio ed additarono alle autorità di polizia ed all’opinione pubblica alcuni boss ritenuti intoccabili.
Di fronte a questi assurdi ed inspiegabili fatti che hanno il sapore dell’omertà politica si prova un vero senso di sgomento: si ha l’impressione che tutte le indagini che riguardano le “vittime eccellenti” cozzino contro il muro di solidarietà fra partiti e correnti e cadano sulla facile e generica strada della criminalità comune con l’inevitabile risultato che dopo poche settimane gli arrestati vengono rimessi in libertà per insufficienza di indizi, si rimane sgomenti perché si è testimoni della terribile verità triangolare che vede da un lato carabinieri e polizia procedere ad arresti di veri e presunti criminali, dall’altro alcuni magistrati “di grido”, ritenuti depositari della verità e della lotta alla mafia, portati in giro come fossero il braccio di San Francesco Saverio, rimanere impotenti (o indifferenti) di fronte a sentenze di proscioglimento o di assoluzione, e, dall’altro, infine la mafia che “giustizia” suoi accoliti e servitori dello Stato (terribile a dirsi: sono stati assassinati fino ad oggi 76 dei 114 mafiosi processati ed assolti a Catanzaro mentre altri 13 sono scomparsi).
Purtroppo, i morti ammazzati dalla mafia non parlano e i vivi, quelli che sanno, tacciono, o perché hanno paura, o per sfiducia nelle istituzioni dello Stato, o per solidarietà politica di corrente o di partito, o addirittura, per la partecipazione al potere. Illudersi di avere mafiosi pentiti è un’utopia perché l’esperienza ha dimostrato che i rari casi del genere sono finiti nei manicomi.
Se i molti ammazzati dalla mafia potessero parlare molti boss della politica, alcuni deputati e forse anche qualche uomo di governo potrebbero finire in galera o quantomeno sul banco degli imputati. Se il Parlamento decidesse di rendere di pubblico dominio “le schede” degli uomini di partito ed anche dei parlamentari i cui nomi ed i cui riferimenti sono stati estratti dai fascicoli personali di esponenti mafiosi e dal materiale probatorio raccolto dalla Commissione Antimafia, crollerebbero alcune maggioranze nei partiti, scomparirebbero dalla scena politica alcuni notabili, verrebbero emarginati alcuni capi corrente ed alcuni feudi elettorali cesserebbero di essere supporto per il potere di alcuni capi corrente nazionali.
Verrebbe fuori che Piersanti Mattarella, Presidente della Regione, uno dei pochi e rari uomini siciliani di governo non “parlato”, Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana e Cesare Manzella, presidente dell’ospedale traumatologico-ortopedico di Palermo (undici miliardi di bilancio l’anno) sono stati assassinati in un intreccio di inestricabili rivalità ed egemonie per il controllo e lo sfruttamento di settori della vita pubblica, controllo e sfruttamento che è stato possibile esercitare se e in quanto sono esistite compiacenze, legami, collusioni e complicità tra boss della mafia e politici boss, tra “famiglie” di mafia, “baronie” politiche e burocratiche nello Stato e nella Regione.
Verrebbe fuori anche che Terranova e La Torre sono stati assassinati proprio quando, mutati i tempi, e cambiato indirizzo, il Partito Comunista in Sicilia è ritornato sulle posizioni di intransigente lotta al sistema di potere “all’italiana” nel quale lo “spirito di mafiosità” è diventato elemento di aggregazione tra forze politiche eterogenee il cui obiettivo è la partecipazione al potere, cioè, verrebbe fuori che Terranova e La Torre sono stati assassinati proprio quando la “grande famiglia” della mafia palermitana si è resa conto che stavano per essere buttati in pasto all’opinione pubblica i nomi dei politici trascritti nelle “schede ” della Commissione Antimafia, le schede dichiarate segrete col voto unanime di tutti i membri dell’Antimafia il 31 marzo 1972.
E verrebbe fuori che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è caduto sulla strada delle “schede segrete”, alcune delle quali sono state compilate con le documentate denunzie contenute nel rapporto 23/461 che lo stesso Dalla Chiesa aveva inviato alla Commissione Antimafia il 31 dicembre 1971 quando era comandante della legione dei carabinieri di Palermo.
Anche il rapporto Dalla Chiesa è stato coperto da segreto dai deputati e senatori componenti l”‘Antimafia”, segreto da me violato quando sono riuscito a consegnarlo al Tribunale di Torino a cui la Commissione lo aveva negato.
«Anche quando si è avuta la certezza di avere colpito i gangli vitali della mafia – ha scritto e ripetuto più volte Dalla Chiesa – si è dovuta constatare una vanificazione degli sforzi, vanificazione dovuta, fra l’altro, al mancato accoglimento delle più volte invocate norme che consentono interventi fiscali e paralleli a quelli della polizia», interventi che Dalla Chiesa voleva venissero estesi anche alle sedi, negli ambienti e per le fonti con le quali sono state raggiunte rapide e facili carriere politiche associate a smisurati e rapidi arricchimenti.
E‘ ovvio che tornato in Sicilia con l’incarico di Alto Commissario per la lotta alla mafia, Dalla Chiesa ha chiesto “le norme più volte invocate”, e non avendole ottenute ha minacciato le dimissioni. Ma un generale non si dimette, semmai cerca nuove strategie, nuove alleanze per continuare la lotta intrapresa nella quale crede e per la quale ha dedicato il meglio di se stesso.
Dalla Chiesa è stato assassinato l’indomani che era riuscito a creare nuove strategie e nuove alleanze: è stato ucciso immediatamente dopo il suo incontro con il Ministro delle Finanze da cui aveva ottenuto la mobilitazione della Guardia di Finanza per «gli accertamenti fiscali e paralleli a quelli della polizia» a carico di molti politici boss. La raffica che ha stroncato l’Alto Commissario per la lotta alla mafia è stata, sì, una punizione per il funzionario dello Stato che aveva osato uscire dai vecchi schemi affrontando la mafia sul terreno politico-finanziario, ma è stato anche un avvertimento per i partiti che minacciano di scoprire i nomi dei politici collusi e complici con la mafia.
Ho incontrato due volte il generale Dalla Chiesa: una prima volta, nel gennaio 1977, all’hotel Liguria di Torino, pochi giorni dopo che avevo consegnato il rapporto 23/461 al Tribunale di Torino, chiamato a giudicarmi per diffamazione a mezzo stampa su querela dell’allora ministro Giovanni Gioia e di altri nove suoi amici e parenti.
Con molta cordialità, ma con insistenza, Dalla Chiesa chiese per quali vie ero entrato in possesso del rapporto da lui inviato al Presidente dell’Antimafia. «A me non dispiace – disse testualmente – che lei sia riuscito a fare qualificare amici dei mafiosi alcuni uomini politici di Palermo, nei cui confronti ho espresso un mio giudizio». «Mi preoccupa – e ripetè le parole come a sottolinearle – che un documento “riservato” sia finito nelle mani di un privato. Non le chiedo i nomi, mi dica almeno per quali vie ne è entrato in possesso». Debbo dire che non rimase convinto quando gli dissi di aver ricevuto il grosso plico per posta, senza il nome del mittente.
Una seconda volta ho incontrato Dalla Chiesa, all’aeroporto di Fiumicino, nell’ottobre del 1981. Non so se era nell’aria un suo trasferimento a Palermo, è certo però che il suo interesse nella conversazione (durata circa mezz’ora, presente un giovane alto, robusto, castano, sui 35 anni, che più volte chiamò «capitano») fu per i legami tra mafia e politica, per le collusioni tra politici e boss della mafia, per la mafia nell’apparato dello Stato e della Regione e soprattutto per le “schede segrete”dell’Antimafia, “schede” che potrebbero distruggere le carriere di numerosi notabili siciliani, con grave pregiudizio per alcune correnti della Democrazia Cristiana.
Dalla Chiesa era convinto che oltre alla “scheda Gioia” fossero in mio possesso altri documenti relativi alla mafia ed ai poteri pubblici, documenti fattimi avere da nemici ed avversari di partiti e di corrente. Si tratta delle “schede” che la Commissione Antimafia ha elaborato sulla scorta della documentazione raccolta nei 13 anni di sua attività, ricavate dalle deposizioni, dalle relazioni e dai rapporti di prefetti, procuratori generali, procuratori della Repubblica, questori, colonnelli dei carabinieri. Fra questi documenti vi è anche il rapporto del generale Dalla Chiesa.
«La Commissione avvertì – si legge nella “Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno mafioso alla fine della IV legislatura”: doc XXIII n. 2 septies, pagg. 140 e 141 – come il suo compito più significativo fosse appunto quello di sciogliere il nodo dei rapporti tra mafia e pubblici poteri in quanto ritenne che fosse questa la ragione essenziale della sua istituzione ed in quanto comprese che solo un organo politico come la commissione avrebbe potuto perseguire uno scopo del genere con la necessaria efficacia, imparzialità e credibilità».
«L’Antimafia si preoccupò – continua la relazione – di impostare uno specifico programma sui rapporti tra mafia e poteri pubblici, e successivamente di costituire un apposito Comitato di indagine che operasse in stretto collegamento con l’ufficio di presidenza, secondo i criteri indicati dalla Commissione plenaria. In adempimento di questo suo compito il Comitato ha provveduto anzitutto ad estrarre dal materiale probatorio raccolto dalla Commissione tutti i riferimenti ad uomini ed organizzazioni di partito; questi riferimenti – continua la relazione – sono stati estratti dai fascicoli personali di esponenti mafiosi, da segnalazioni e documenti inviati da privati o da uffici, dagli atti acquisiti dall’Antimafia nel corso della sua attività e in particolare dalle deposizioni di testimoni e dalle dichiarazioni rese alla Commissione ed a singoli comitati. Sono state quindi – conclude la relazione – redatte apposite schede nominative in ciascuna delle quali è stato riportato in sintesi il contenuto della documentazione».
Queste schede sono diventate segreto di Stato. Nella confusa fase politica di una non meglio qualificata maturazione di nuovi indirizzi politici e nel clima di un inspiegabile ed assurdo compromesso, tutti i partiti hanno consentito che i loro rappresentanti nell’Antimafia coprissero con atto di manifesta omertà «i riferimenti a uomini politici ed a partiti estratti dal materiale probatorio raccolto dalla Commissione».
Quante maggioranze crollerebbero all’interno dei partiti laici se le terribili schede venissero rese di pubblico dominio? Con quali partiti e con quali correnti dovrebbero trattare i partiti immuni dalla mafia – ammesso che ve ne siano – per costituire alleanze e maggioranze per partecipare e collaborare al governo?
La crisi dell’Antimafia non è stata provocata dalla vischiosità del fenomeno mafioso, dalla impossibilità di dare una connotazione alla mala pianta della mafia. La vera crisi è stata nei partiti, ed è stata provocata dalla paura di concludere, dal timore di portare alle estreme conseguenze i risultati di una indagine che non a caso aveva indotto i tre presidenti a proferire trionfalistiche ma fondate dichiarazioni di soddisfazione e di fiducia per il materiale raccolto.
I partiti non hanno compreso – o non hanno voluto comprendere – che il problema della mafia è un fatto politico nazionale. E’ un problema dei partiti all’interno dei quali va iniziata la prima vera lotta per sradicare lo “spirito di mafiosità”, inteso come solidarietà brutale e istintiva fra quanti vogliono conquistare il potere, “spirito di mafiosità” che soffoca la vita politica in Sicilia, ove il potere politico ha il carattere di tipica marca proconsolare.
Pubblicare le “schede” è un atto al quale i partiti ed il Parlamento non possono sottrarsi. Continuare a mantenerle segrete significa accollarsi la responsabilità e la colpa dei “cadaveri eccellenti” che inevitabilmente seguiranno.

A cura di Michele Pantaleone

OMICIDIO OCCORSIO. IL P.M. CHE AVEVA CAPITO ESSERE LA P2 A TIRARE LE FILA DEL TERRORISMO

 

Vittorio Occorsio è il magistrato romano che per primo intuì che a tirare le file delle stragi e del terrorismo vi era la P2. Oltre che, ovviamente, i servizi segreti.

Aveva indagato sul Golpe Borghese, sul Piano Solo, sullo scandalo Sifar, sulla strage di Piazza Fontana, insomma su tutte le vicende che hanno visto pesantentemente coinvolti i servizi segreti, aveva capito che, probabilmente, dietro a quella lunga scia di sangue vi era un unico comune denominatore e cercava di provarlo.

Nel 1975 Vittorio Occorsio disse al collega Ferdinando Imposimato: “Molti sequestri avvengono per finanziare attentati o disegni eversivi…. Sono certo che dietro i sequestri ci siano delle organizzazioni massoniche deviate e naturalmente esponenti del mondo politico. Tutto questo rientra nella strategia della tensione: seminare il terrore tra gli italiani per spingerli a chiedere un governo forte, capace di ristabilire l’ordine, dando la colpa di tutto ai rossi…Tu devi cercare i mandanti di coloro che muovono gli autori di decine e decine di sequestri. I cui soldi servono anche a finanziare azioni eversive. I sequestratori spesso non sono che esecutori di disegni che sono invisibili ma concreti. Ricordati che loro agiscono sempre per conto di altri”.

Il 09 luglio 1976, Occorsio viene assassinato.

L’autore materiale del suo assassinio è un neofascista, Pierluigi Concutelli, la cui scheda, con l’indicazione della tessera n. 11.070, verrà ritrovata anni dopo da Giovanni Falcone a Palermo, nella sede della Loggia massonica Camea, retta da Michele Barresi e frequentata anche da uomini di Cosa nostra. 

Il 26 dicembre del 1976 l’ingegner Francesco Siniscalchi (affiliato alla Massoneria dal 1951) invia una denuncia ai magistrati titolari dell’istruttoria per l’omicidio Occorsio: Siniscalchi fornisce alla magistratura notizie e documenti sulla Loggia P2 e sulla sua attività eversiva, e rivela l’oscuro ruolo di Licio Gelli e le “deviazioni” all’interno di Palazzo Giustiniani; per queste sue denunce, Siniscalchi verrà espulso dalla Massoneria” e Gelli avrà la via spianata.

L’omicidio di Occorsio fu quindi determinato dagli interessi della «massomafia» per impedirgli di approfondire le sue indagini, avendo intuito che poteva essere la massoneria a tirare le fila del terrorismo, utilizzando a seconda delle contingenze sia quello rosso che all’occorenza quello nero.

In calce pubblichiamo un contributo di Eugenio Occorsio sulla figura del padre e la sintetica ricostruzione della vicenda del magistrato tratta da Avvenimenti Italiani.

Il sostituto procuratore della Repubblica, Vittorio Occorsio, che indaga sui rapporti fra terrorismo fascista e massoneria, viene ucciso a Roma con una raffica di mitra da un commando fascista guidato da Concutelli di Ordine Nero. Il giorno prima di essere ucciso, il magistrato parlando con un giornalista, aveva fatto notare che il totale della cifra pagata per i riscatti dei rapimenti per cui era stato arrestato Albert Bergamelli (i sequestri dei figli di Roberto Ortolani, Alfredo Danesi e Giovanni Bulgari, tutti e tre iscritti alla P2), corrispondeva esattamente alla cifra spesa per l’acquisto della sede dell’OMPAM.

Nel 1976 dopo l’assassinio del giudice Vittorio Occorsio si cominciò a parlare di p2 e massoneria e i collegamenti di essa con gruppi neofascisti e la Banda della Magliana.

A Roma il 10 Luglio 1976 viene ucciso in un agguato terroristico il sostituto procuratore Vittorio Occorsio, l’agguato al magistrato sarà prima rivendicato dal gruppo terroristico “Ordine Nuovo” e successivamente dalle Brigate Rosse, con un volantino fatto trovare in una cabina telefonica a Reggio Emilia. Gli inquirenti però non credono a questa rivendicazione, essendo il documento assai diverso dal solito linguaggio delle BR.

Qualcuno conosce la loggia p2 ?

Claudio Vitalone, Giancarlo Armati, Nicolò Amato, Ferdinando Imposimato: ieri pomeriggio alle 17, in gran segreto, si sono riuniti nell’ufficio del primo, incaricato dell’inchiesta sull’assassinio di Vittorio Occorsio, per mettere a punto la strategia da seguire. Perchè questi quattro magistrati  e non altri? Perchè la pista giusta è quella che, partendo dalla manovalanza nera di “Ordine Nuovo” risale, tramite l’anonima sequestri romana, alla “Propaganda 2” , una loggia che la massoneria ufficiale ormai non riconosce più e combatte con  tutte le armi a disposizione.

Cioè quella che ( ormai se n’è convinto anche Vitalone, inizialmente scettico) verrà battuta nei prossimi giorni senza risparmio di energie e che probabilmente porterà alla verità, o assai vicino ad essa. Armati, Amato e Imposimato  (alla riunione era presente anche il funzionario della squadra mobile Ernesto Viscione) sono i tre magistrati che , insieme con Vittorio Occorsio, indagavano sui sequestri avvenuti a Roma negli ultimi mesi.

 Occorsio si occupava dei rapimenti di Angela Ziaco, Alfredo Danesi, Amedeo Ortolani e Marina D’Alessio: Armati di quelli di Anna Maria Montani e Renato Filippini; Amato  di quelli Maleno Balenotti e Giuseppe Lamburghini. A Imposimato, poi, come giudice istruttore, facevano capo le indagini su tutti i sequestri romani, compresi quelli affidati a PM occasionali ( Armati Amato e Occorsio invece facevano parte della “ squadra antisequestri” di: Ezio Mattacchioni, Fabrizio D’Amico, Gianni Bulgari e Fabrizio Andreuzzi. C’è da dire, infine,  che Nicolò Amato ha detto la sua  anche come PM nel processo contro Albert Bergamelli, Jacques Renè  Berenguer e soci per la rapina in piazza dei Caprettari in cui venne ucciso l’agente di Ps Giuseppe Marchisella. Dopo  quella rapina la banda passò ai sequestri, più lucrosi e meno pericolosi ( in seguito soppiantati dalla “Banda della Magliana”).

 Nelle primissime ore del pomeriggio qualcosa è cambiato e Vitalone ha chiesto ai tre colleghi di recarsi al palazzo di Giustizia alle cinque in punto per una presa di contatto. Alla riunione ognuno ha detto la sua ma tutti erano d’accordo su un punto: è quella la pista da battere.

I colleghi di Occorsio quelli, diciamo che stavano lavarono con lui per sgominare la gang dei sequestri, hanno le idee fin troppo chiare in proposito. Lunedì ce ne ha parlato il PM Giancarlo Armati, ieri un accenno in proposito è venuto dal giudice istruttore Imposimato, il magistrato che avrà l’ultima parola a proposito delle indagini su Albert Bergamelli, su Gian Antonio Minghelli, sulla pletora di  personaggi minori che sono finiti a Regina Coeli come complici o come favoreggiatori, sui collegamenti della banda con gli squadristi neri e con i sedicenti massoni,anch’essi legati a filo doppio con i fascisti d’alto bordo.

Ad Imposimato e contemporaneamente alla Guardia di Finanza, sono pervenute nelle ultime settimane numerose lettere anonime, scritte evidentemente da persone legate alla massoneria ufficiale e da esponemti della P2. Lettre contenenti accuse roventi, rivolte dai massoni a quelli della P2 e viceversa. Alcune accomunano in un unico fascio il” gran maestro della massoneria grande oriente d’Italia” Lino Salvini e il reprobo dellaPropaganda 2” Licio Gelli.

Proprio in questi giorni, Occorsio e Imposimato stavano esaminando l’incartamento che, per legge, essendo anonimo, non può essere acquisito agli atti a meno che gli accertamenti non stabiliscano la validità del suo contenuto.  Dice Imposimato, 40 anni, napoletano, sposato da poco :< se un legame c’è tra anonima sequestri e loggia P2, questo è dato da Albert Bergamelli e da Gian Antonio Minghelli. Basterebbe ricordare le frasi pronunciate dai due, spontaneamente, dopo l’arresto>. < Se mi avete preso, vuol dire che qualcuno mi ha tradito. Ma la pagherà cara perché sono protetto da una grande famiglia>, disse Bergamelli il 30 aprile scorso mentre manette ai polsi ,sostava in questura. Dieci giorni dopo, interrogato da Occorsio e da Imposimato per la prima volta come imputato di concorso nei sequestri di persona, Minghelli dichiarò: “I giornali dicono che io faccio parte della massoneria. E’ vero: ma questo che c’entra con le accuse contro di me?”.

Facile pensare che la “ grande famiglia” di cui parlava Bergamelli fosse la massoneria e in particolare, visto il legame Bergamelli- Minghelli e dato che l’avvocato fascista fa parte della segreteria della Loggia P2, quella diramazione della massoneria ufficiale che fa capo al maestro venerabile Licio Gelli, aretino, con interessi in una fabbrica di confezioni e, sembra, uomo dei servizi segreti argentini . In una  delle lettere anonime fatte pervenire al giudice Imposimato e alla finanza si parla di contrasti sorti nel marzo del 1975 nella gran loggia massonica. Salvini, il gran maestro – stando sempre all”informativa” non firmata – venne attaccato da un avvocato palermitano legato agli ambienti della mafia siciliana. L’operazione non sarebbe stata diretta  a far dimettere Salvini ma da avvertirlo: < Non devi più intralciare i passi di Licio Gelli nella operazione trame nere>.

L’operazione anti-Salvini, infatti sarebbe stata diretta da Gelli con la collaborazione del padre di Amedeo Ortolani, iscritto anch’egli alla loggia P2. Inevitabile un riavvicinamento Salvini-Gelli , il promo costretto dal secondo. La nuova , forzata alleanza portò allo “scaricamento” di Ortolani padre. A Gelli non serviva più, Salvini voleva vendicarsi di lui. Inoltre,Ortolani, vista la mala parata , minacciava di parlare. Dice sempre la lettera anonima:  fu a questo punto che decisero di punirlo sequestrandogli il figlio Amedeo e prendendo  i classici due piccioni con una fava: eliminazione definitiva dal campo massonico di Ortolani padre ( che infatti è uscito di scena9 e guadagno netto di un miliardo, cioè del prezzo pagato per il riscatto. Del sequestro venne incaricato un esperto del ramo, Albert Bergamelli. Poi,  dice sempre l”informativa”  visto che la cosa ando bene, si passò al secondo sequestro, l’operazione Gianni Bulgari. < I sequestri – dice testualmente l’anonimo – servono a finanziare svolte a destra e la formazione di campi paramilitari fascisti>.

Finora a proposito del riciclaggio del denaro sporco, gli inquirenti avevano accertato che una parte dei capitali è stata utilizzata per l’acquisto di immobili come una villa a Sabaudia e un residence sulla via Aurelia. Un’altra parte sembra sia finita a Zurigo tramite Maria Rossi, detta Mara, l’amante di Berenguer. Non si era ancora stabilito l’impiego della parte più consistente dei riscatti. Forse Occorsio s’era avvicinato, ma una sventagliata di mitra l’ha fermato per sempre.

Franco Coppola 14 Luglio 1976

Pier Luigi Concutelli

ll documento con cui “Ordine Nuovo” rivedicò l’assassinio di Vittorio Occorsio.

“La giustizia borghese si ferma all’ergastolo, la giustizia rivoluzionaria va oltre. Il Tribunale speciale del M.P.O.N. ha giudicato Vittorio OCCORSIO e lo ha ritenuto colpevole di avere, per opportunismo carrieristico, servito la dittatura democratica perseguitando i militanti di Ordine Nuovo e le idee di cui essi sono portatori.

Vittorio OCCORSIO ha, infatti, istruito due processi contro il M.P.O.N. Al termine del primo, grazie alla complicità dei giudici marxisti BATTAGLINI e COIRO e del barone D.C. TAVIANI, il movimento politico è stato sciolto e decine di anni di carcere sono stati inflitti ai suoi dirigenti.

Nel corso della seconda istruttoria numerosi militanti del M.P.O.N. sono stati inquisiti e incarcerati e condotti in catene dinanzi ai Tribunali del sistema borghese. Molti di essi sono ancora illegalmente trattenuti nelle democratiche galere, molti altri sono da anni costretti ad una dura latitanza.

L’atteggiamento inquisitorio tenuto dal servo del sistema OCCORSIO non è meritevole di alcuna attenuante. L’accanimento da lui usato per colpire gli ordinovisti lo ha degradato al livello di un boia. Ma anche i boia muoiono!

La sentenza emessa dal Tribunale del M.P.O.N. è di morte e sarà eseguita da uno speciale nucleo operativo. Avanti per l’Ordine Nuovo!”

Questo era mio padre

In questo articolo dell’ottobre del 1976 il figlio del magistrato ucciso delinea un ritratto del padre.

Sono tre giorni che cerco disperatamente nella memoria un segno, un indizio,una traccia di qualche discorso pronunciato da mio padre negli ultimi mesi  della sua vita che potesse riferirsi a minacce ricevute. Niente , non trovo niente. Paura forse si, ma accettata come una sorte di fatalismo, e non poteva essere diversamente nelle sue condizioni, sempre al centro delle più travagliate e spinose vicende giudiziarie di questi ultimi anni. Se non voleva lasciarsi sopraffare dall’angoscia, dall’ansia e dalla paura, un uomo con cosi tanti nemici doveva farsi forza e andare avanti, incredibilmente come se niente fosse per fare coraggio a sé ed  a noi.

Ma la verità  è che non ho neanche la forza di pensare correntemente al passato, ricostruire  gli ultimi giorni della sua vita, quella vita a cui guardava sempre con tanta gioia, nonostante la perenne  atmosfera di tensione in cui era costretto a lavorare.

Ho vissuto questi anni come perseguitato dalla domanda << ma tu sei figlio di Occorsio?>>, e quando glielo  raccontavo lui ci rideva, come rideva di tutte le altre cose , di mia nonna, sua madre, che gl telefonava ogni notizia di cronaca nera. Si faceva forza per sé ma soprattutto per noi. Parlava volentieri del suo lavoro , ma senza ossessionarci.

Sembrava  ovvio, scontato, ma in questo momento non riesco a vedere lati negativi della sua personalità. Non riesco a vedere neanche lontanamente cosa odiavamo in un uomo come lui colpevole solo di fare il proprio lavoro con serietà e fiducia. Ma forse non è retorico né scontato per il semplice motivo che neanche quando era ancora vivo provavo per lui sentimenti diversi dall’amore, dalla stima e forse  più che  ogni altra  cosa, dall’amicizia.

Eravamo amici, lo hanno scritto i quotidiani, ed è vero. Con mia madre aveva un rapporto di vero amore. Così come con Susanna mia sorella misto a una tenerezza e a un trasporto definivamo “ napoletano” ma che era dettato solo dall’amore e forse da un tragico presentimento.

Per me era un amico, un consigliere, più che un padre. E anche se facevo una strada professionale diversa, mi seguiva…..

Ora questa tragedia ha sconvolto in modo irreparabile la nostra famiglia e l’intera comunità di coloro che credono in qualche ideale, non riesco a pensare razionalmente a qualche momento preciso, ma solo a una lunghissima, profonda amicizia che non è finita sabato mattina sotto le raffiche di mitra che mi hanno svegliato e fatto ritrovare solo in quella casa che lui e mamma pezzo per pezzo avevano messo su e continuavano a completare per avere tanti piccoli momenti nella loro vecchiaia insieme, che non ci sarà mai.

Eugenio Occorsio

BRUNO CACCIA: IL PROCURATORE UCCISO DALLA MASSOMAFIA CHE CONTROLLA LA PROCURA TORINESE

Caccia, un omicidio ancora senza firma.
 
 
Il magistrato Bruno Caccia, ucciso il 26 giugno 1983 

Cinque processi non hanno cancellato tutti i misteri.

Preso il mandante, mancano i killer e il vero movente

di Niccolò Zancan

TORINO. Ventisei anni dopo in via Sommacampagna, fra il Po e la collina torinese, resta una targa sotto la fronda di un glicine: «Il 26 giugno 1983 qui è caduto, stroncato da mano assassina, nel pieno della sua lotta contro il crimine, Bruno Caccia. Procuratore della Repubblica, medaglia d’oro al valor civile, strenuo difensore del diritto, luminoso esempio di coraggio e fedeltà al dovere». Era la sera delle elezioni politiche. Craxi stava per diventare presidente del Consiglio. Il magistrato più importante della città, quello che si occupava di lotta al terrorismo, poteri forti, tangenti, mafia e criminalità organizzata, uscì di casa senza scorta. Come un cittadino qualunque. Doveva portare fuori il cane. Erano le 23,15. Due killer lo stavano aspettando.

La prima relazione della polizia è precisa: «Il conducente della Fiat 128, con rapida manovra, si avvicinava al magistrato. Bloccata l’autovettura, gli esplodeva contro alcuni colpi di arma da fuoco che ne provocavano la caduta sul marciapiedi. Contemporaneamente, il passeggero scendeva dalla 128, e chinatosi sul corpo del dottor Caccia, gli esplodeva contro altri tre colpi». Diciassette proiettili in tutto. Di questo omicidio, che ha cambiato la storia di Torino, c’è una verità processuale. Il pentito «Ciccio» Miano, catanese, ha raccolto e registrato la rivendicazione di un boss calabrese orgoglioso del suo lavoro: «Per Caccia, dovete ringraziare solo me…». Cinque gradi di giudizio hanno stabilito che il mandante dell’assassinio è proprio Domenico Belfiore, tutt’ora in carcere. Mai pentito.

Ma c’è anche una verità storica, più difficile da mettere a fuoco, ancora sospesa. «Una zona grigia», l’hanno definita alcuni investigatori. Mancano gli esecutori materiali, nonostante l’identikit tracciato sulla base di due testimonianze. Mancano, forse, soprattutto, alcuni passaggi che hanno portato alla condanna a morte del procuratore Caccia. Dove «la sua colpa» sembra riassunta in una frase della sentenza della V sezione penale della Cassazione, datata 23 settembre ’92: «I calabresi lo consideravano uomo di particolare durezza e di particolare pericolo per loro, nella sua inavvicinabilità». Era rigoroso, ostinato. Estremamente riservato. Teneva sempre con sé la chiave della cassaforte della Procura. La notte dell’omicidio però non fu trovata.

Di tutto questo si occupa domani la puntata di «La Storia Siamo Noi» condotta da Giovanni Minoli (alle 8,05 su Rai Tre, alle 22 su Rai Storia). Il documentario firmato da Sergio Leszczynsky si intitola «Torino Criminale. Il caso Caccia». È una ricostruzione scrupolosa, punteggiata dalle voci dei protagonisti. La figlia Paola Caccia: «Io credo che non sia emersa tutta la verità su questo caso». Il magistrato Francesco Gianfrotta: «Il procuratore era un personaggio pericoloso per gli interessi criminali». Il magistrato Marcello Maddalena: «Sicuramente mancano dei tasselli. Anche sul piano dei moventi possibili». La figlia Cristina Caccia: «Mi è sembrato strano che fosse solo questione di dare noia a una banda di criminali… Che si potesse decidere di uccidere così un procuratore…».

Chi aveva benedetto quella decisione? Durante i processi sono emersi aspetti inquietanti. «Le bobine che contenevano le registrazioni del pentito Miano furono alterate e manipolate», spiega il procuratore Laudi. L’avvocato Badellino: «Si è detto che fossero soppressioni volontarie, per questo la Cassazione dichiarò inutilizzabili le conversazioni». Ma la Procura di Torino aveva fatto copia dei nastri originali. Riuscì a salvare l’attendibilità delle dichiarazioni del pentito. Rimasero molti dubbi. Alcuni conducono proprio a Palazzo di Giustizia. Ai legami fra clan malavitosi e certa magistratura. Rapporti che passavano per il bar «Monique», gestito dal pregiudicato Gianfranco Gonella, proprio di fronte alla vecchia Procura.

Nella sentenza si legge: «Le disposte intercettazioni avevano consentito di accertare l’esistenza di rapporti di familiarità ed amicizia fra il Gonella ed il dottor Moschella (Procuratore della Repubblica di Ivrea) e la dottoressa Carpinteri (giudice del Tribunale penale di Torino). Senza contare la perfetta conoscenza che il Moschella aveva delle attività del Gonella… Gonella aveva riposto particolare attenzione nel rendere favori e servigi, era persino riuscito ad imporre deferenza ai suoi amici magistrati… Il solito Gonella si era incessantemente interessato presso il procuratore Moschella delle vicende processuali di Belfiore…». C’è anche questo, nella zona grigia. Si sa che Bruno Caccia è stato ucciso perché il suo impegno disturbava l’attività della ‘ndrangheta a Torino. Mancano i killer della 128, mancano troppi pezzi di verità.

25 giugno 2009

www.lastampa.it

BARDONECCHIA. IL PRIMO COMUNE DEL NORD-OVEST SCIOLTO PER MAFIA

La mafia al Nord. Il caso Bardonecchia

Rocco Lo Presti, il boss morto pochi giorni fa, era arrivato a Bardonecchia nel lontano ’63. Il primo mafioso inviato al confino al nord. Invece è stato lui a impadronirsi della città. Nel ’95 il comune era già in mano ai mafiosi. Violenza, affari, cementi­ficazione selvaggia, usura. E champagne per festeg­giare.

6 febbraio 2009

È morto Rocco Lo Presti, il “padrino” di Bardonecchia. Bardonecchia è una non troppo ridente località turistica del profondo Nordovest – al confine con Modane – che vanta un primato non invidiabile: primo e unico, finora, comune del Nord d’Italia ad essere commissariato per mafia, nel ’95. Chi comanda sono i calabresi. Tutto era cominciato con quella scellerata legge sul soggiorno obbligato d’inizio anni Sessanta: trasferiamo lontano dalla Sicilia e dalla Calabria i mafiosi, li isoliamo e li rendiamo inoffensivi. Non aveva immaginato, il legislatore, che l’iniziativa sarebbe servita soltanto ad “esportare” la criminalità. Nel ’63 Bardonecchia aveva dovuto ospitare Rocco Lo Presti, un giovane muratore di Marina di Gioiosa Jonica in odore di ‘ndrangheta. E così, per oltre quarant’anni, Lo Presti, dapprima vicino al clan dei Mazzaferro, poi degli Ursino (sua sorella ne ha sposato uno), fa di Bardonecchia il suo feudo, spadroneggiando nell’edilizia, nell’autotrasporto, nel commercio (suoi ristoranti, bar, negozi di materiale edilizio, sale giochi). Centinaia di calabresi vengono in Val di Susa a lavorare per lui e il clan Lo Presti-Mazzaferro mette le mani sulla località sciistica dove un tempo trascorreva le vacanze Giovanni Giolitti.

L’impresa edile di Lo Presti lavora a ritmo incessante. Bardonecchia non è più una località di montagna, ma una propaggine metropolitana di Torino. Oltre che visibile, la cementificazione è terribile, ma – se c’è la criminalità organizzata – nasconde una faccia ancora peggiore: riciclaggio del denaro, racket delle braccia, strozzinaggio, voti di scambio, intimidazioni, aggressioni. Ne fa le spese Mario Ceretto, un imprenditore edile che nel ’75 si rifiuta di assumere gli uomini proposti dal boss calabrese: viene rapito e ucciso. Lo Presti è condannato in primo grado. Nell’82 l’appello conferma 26 anni di galera. Poi la Cassazione annulla tutto e sappiamo perché.

Lo Presti è morto il 23 gennaio scorso, il giorno dopo la conferma della sua condanna per associazione per delinquere di stampo mafioso finalizzata all’usura (un giro di denaro di 3,5 milioni di euro, tassi del 10 per cento mensile). Forse il suo cuore di 70enne non ha retto. Ma le storie di mafia hanno sempre un inizio, mai una fine. A Bardonecchia, dove qualcuno sostiene che Lo Presti era un benefattore, ci si domanda chi prenderà il suo posto. Nei manifesti listati a lutto i primi nomi erano quelli non dei figli, ma dei nipoti, Luciano e Beppe Ursino, condannati anch’essi per strozzinaggio. Questo fa pensare a una pubblica investitura. Quando gli nacque il primo figlio Lo Presti organizzò una grande festa al Riky Hotel di Bardonecchia. Arrivò una fila interminabile di Bmw, Mercedes, anche delle limousine. Cantò Mino Reitano. Il Dom Perignon scorse a fiumi. Si racconta che “don Rocco” ne prese due bottiglie e le lanciò fuori dal locale, sull’asfalto, gridando: “Bevine anche tu, sindaco Corino, ma da sdraiato!”. Una scena da film hollywoodiano, ma senza Marlon Brando e Al Pacino, che trasformano la cruda realtà in una favola.

Riccardo De Gennaro

LICENZIAMENTI, RISARCIMENTI E SGOMBERI. LA TORBIDA VICENDA DEL PIANO ALFA E GLI INTERESSI DEL SINDACO DI RHO

La bocciatura in consiglio comunale a Rho dell’Accordo di Programma sull’area Alfa Romeo di qualche mese fa era stato l’esito dell’opposizione di un blocco sociale molto ampio sul territorio, che ha avuto l’effetto di spaccare sul voto il centrodestra rhodense.
Con l’intento di influenzare l’opinione contraria diffusa in città e di conquistarne il consenso, nei giorni precedenti alla discussione in consiglio, il territorio circostante era stato invaso di manifesti che offrivano falsi posti di lavoro per un centro commerciale, quello che sarebbe dovuto sorgere sull’area Alfa, che ancora non esisteva.
La società che gestiva questa campagna pubblicitaria indecente era G.I. Group, società nell’orbita di Comunione e Liberazione, come anche il Gruppo Clas di cui il Sindaco di Rho Zucchetti è socio e Presidente. E proprio queste due società hanno vinto nei primi mesi del 2010 il primo e il secondo lotto di un appalto di Regione Lombardia per un valore di oltre 1.200.000 euro per lo sviluppo e il consolidamento del mercato del lavoro, gara di appalto a cui avevano partecipato solo 4 società.
Tra i maggiori clienti del Gruppo Clas appare anche EuroMilano Spa, società proprietaria di parte dell’area ex Alfa Romeo, che tra i maggiori progetti in corso indicati nel proprio sito internet, esplicita proprio l’intervento sull’ area di Arese, con un progetto che prevede la realizzazione di circa 260.000 metri quadri di superficie edificabile per residenziale e commerciale.
Tutte coincidenze? Non sta a noi dirlo, ma certamente il Sindaco di Rho annovererà questo caso nella categoria della “convergenza di interessi” piuttosto che del conflitto di interessi. Peccato che il Sindaco continui imperterrito ad individuare come interesse pubblico ciò che il consiglio comunale rifiuta, ciò che i cittadini non vogliono e che nemmeno compare nel programma amministrativo sulla cui base è stato eletto.
Nella vicenda del Piano Alfa c’è molto di torbido. Dopo la bocciatura del Piano Alfa in consiglio comunale contro gli oppositori si è scatenata la vendetta dei poteri forti che stavano dietro la speculazione orchestrata da Formigoni: oltre 60 lavoratori iscritti allo Slai Cobas di Innova Service, zoccolo duro dello Slai Cobas dell’Alfa Romeo sono prossimi al licenziamento, l’Assessore Tizzoni, critico verso il nuovo centro commerciale per l’impatto sul commercio locale, è stato defenestrato e il centro sociale Fornace è sotto impellente minaccia di sgombero. E per chi avesse dubbi su questa interpretazione ricordiamo la richiesta di 58 milioni di euro di danni di risarcimento presentata dalle società proprietarie dell’area Alfa nei confronti del Comune di Rho per la mancata approvazione del progetto in consiglio comunale.
L’avvicinarsi delle scadenze di Expo 2015, con l’avvio dei cantieri nel 2011, sono un’occasione ghiotta per fare man bassa di un territorio da cementificare in ogni centimetro disponibile e la traballante dimezzata giunta Zucchetti deve proseguire il mandato per concretizzare i progetti ed avviare i cantieri senza più intoppi, a costo di commissariare l’amministrazione rhodense e cancellare con ogni mezzo chi si oppone alla speculazione.

Il bando della Regione Lombardia
http://www.arifl.regione.lombardia.it/shared/ccurl/574/659/Aggiudicato%2…

I clienti del Gruppo Clas
http://www.gruppoclas.com/clienti.asp

Autore Sos Fornace: www.sosfornace.org