LO SCOMODO «GIUDICE RAGAZZINO» CHE AVEVA INFASTIDITO COSSIGA UCCISO DALLA MASSOMAFIA

Era il 21 settembre 1990, quando venne vigliaccamente trucidato con la complicità delle massime cariche dello Stato, giù nel vallone, braccato come un animale ferito, dai sicari della «massomafia», contro la quale aveva diretto sagacemente la sua azione, attraverso mirate indagini patrimoniali,  scoperchiando una vera e propria Tangentopoli, su cui prima per decenni la Procura di Agrigento aveva chiuso entrambi gli occhi.

“Giudice ragazzino”. Così l’aveva ingenerosamente battezzato l’ex Presidente della Repubblica, Cossiga, vicino ai poteri occulti, sempre pronto a scendere in campo quando le indagini della magistratura giungevano a toccare il cosiddetto «quarto livello», cioè quello dell’intreccio, tra mafia, politica, affari, massonaria, servizi segreti.  

Questa è la storia quasi dimenticata dell’assassinio rimasto per la magistratura di regime (ma non per noi) “senza movente” del magistrato Rosario Livatino che «giovane» lo era davvero. Due settimane più tardi se non lo avessero eliminato avrebbe compiuto 38 anni.

L’allarmante esternazione proveniente della più alta carica dello Stato non era certo un complimento.

“Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno? …

Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta”. Parola di Cossiga.

Parole offensive, ingiustificate, sprezzanti.

Come altrettanto offensive e sprezzanti saranno quelle poi pronunciate dallo stesso Cossiga contro il Procuratore di Palmi, Agostino Cordova, che “ragazzino” non era, ma aveva avuto anche lui il torto di indagare sui santuari delle massomafie.

Affermazioni volte ad intimidire, delegittimare e scavare intorno a quei magistrati scomodi, a quegli uomini delle istituzioni che non piegano la testa, una trincea sempre più incolmabile di isolamento, solitudine e discredito.

Rosario Livatino era un servitore fedele, silenzioso e infaticabile della giustizia, un vero uomo delle istituzioni, come ce ne sono stati pochi, di cui tutti gli italiani sono fieri e sarebbero felici se gli altri magistrati silenti ne seguissero l’esempio. Alle pubbliche dichiarazioni preferiva il quotidiano scrupoloso impegno, senza risparmare la propria vita, spesso lavorando sino a notte fonda, con spirito di abnegazione. Insomma, un magistrato che interpretava le sue alte funzioni istituzionali in senso autenticamente nobile e con vero spirito di missione. Generoso di cuore e ferventemente religioso si prodigava come lui stesso affermava con orgoglio per “dare alla legge un’anima“. Si perché la giustizia che tutti ben conosciamo un’anima non l’ha mai avuta. Questo doveva essere secondo Livatino il primario compito del giudice: dare un volto umano all’astratto comando della legge.

Venne invece ucciso la mattina del 21 settembre 1990 sulla superstrada Canicattì-Agrigento, lasciato solo dallo Stato, dai colleghi e dalla Chiesa, che oggi propone di avviarne il processo canonico di «beatificazione».

Da morto si sa anche chi era scomodo può venire eletto santo. Anzi conviene a tutti. 

 Specialmente allo Stato massomafioso che può bere il sangue delle proprie vittime e cibarsi della loro gloria.  

Come affermava lo stesso Livatino: “Il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico”. Diversamente è menzogna, come lo sono per lo più le celebrazioni che provengono da ogni psrte, in occasione dell’Anniversario della sua morte, senza che nessuno si preoccupi di scavare le cause e i veri mandanti rimasti occulti del vile omicidio.

Il giudice Rosario Livatino venne ufficialmente ucciso, mentre si recava, senza scorta, in tribunale, per mano di quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina, organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa Nostra.

LA STORIA UFFICIALE.

Gli atti affermano che Livatino venne ucciso dagli ‘stiddari’ ”per lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa nostra” e per punire un magistrato severo ed imparziale. Come esecutori dell’omicidio sono stati individuati Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro, tutti condannati all’ ergastolo con sentenza definitiva. I componenti del commando sono stati individuati grazie al testimone Pietro Ivano Nava, di Sesto San Giovanni, che sopraggiunse poco dopo e vide atterrito la disperata fuga a piedi del giudice nella campagna dove uno dei sicari lo raggiunse sparandogli ancora a bruciapelo gli ultimi quattro colpi in testa. Il 16 ottobre 2001 la Cassazione ha confermato la condanna all’ergastolo per Salvatore Gallea e Salvatore Calafato accusati di essere i mandanti dell’omicidio.
Secondo la sentenza, Livatino venne ucciso perché ”perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attivita’ criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioé una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’ espansione della mafia”.

LE VERITA’ INESPLORATE.

Invero, il giudice ragazzino di Agrigento si era messo in testa di sgominare i clan della provincia, dove operava lo Zar degli appalti, il mafioso Filippo Salamone, fratello del P.M. Fabio Salamone, all’epeca applicato presso la stessa Procura nissena, che avrebbe dovuto contrastare le attività della «cupola» che gestiva i grandi affari isolani, facente riferimento al fratello ingegnere, titolare della società «Impresem», indicato dallo stesso Totò Riina, come anche confermato dai pentiti Siino e Brusca, quale unico manipolatore degli appalti, compresi quelli superiori a 5 miliardi di lire, in rappresentanza di imprenditori e politici.   

Livatino che aveva concentrato la sua azione sul nodo «mafia-politica» voleva colpire duro, partendo dal sequestro dei patrimoni illeciti, tanto da avere passato ai raggi X i beni del Clan Ferro e Petruzzella, proponendo misure di prevenzione personali e patrimoniali per i capi-cosca ed i loro picciotti. La storia di Livatino – scrive di lui il sociologo Nando Dalla Chiesa – da quando nella primavera del 1979 giunge alla procura di Agrigento – è concentrare le sue indagini sugli interessi economici della mafia, dall’azione contro le “famiglie” in guerra a Palma di Montechiaro, sino alla scoperta e alla denuncia del cosiddetto intreccio tra mafia e affari, ricostruito all’interno del “regime della corruzione”, «che con il sistema mafioso condivide l’ambiguità e la doppiezza dei comportamenti, la convinzione strumentale che “sia tutto giusto e lecito, moralmente, politicamente, ciò che non è perseguibile penalmente». In questo senso, secondo Dalla Chiesa e Arlacchi lo scopo di Livatino è di riuscire a rimuovere gli ostacoli politici-istituzionali all’azione giudiziaria. «Quella del giudice ragazzino è la testimonianza di una battaglia coraggiosa contro la mafia ma anche in difesa dell’indipendenza dei magistrati». [“Il giudice ragazzino. Storia di Rosario Livatino assassinato dalla mafia sotto il regime della corruzione“, Einaudi, Gli struzzi, 2002].

E’ inutile ribadire a riguardo che l’incisività senza precedenti dell’azione investigativa e l’integrità morale del giovane P.M. si scontravano in maniera insanabile con l’ambiente giudiziario locale, portato consuetudinariamente ad insabbiare ogni inchiesta riguardante mafia-politica-appalti. Ragione che avrebbe potuto far maturare la decisione di eliminarlo all’interno degli stessi ambienti della locale procura onde mantenere inalterato il controllo del territorio.  Basterà dire, come poi più tardi osserverà lo stesso nuovo Procuratore Miccichè che, fino al 1992, cioè due anni dopo l’uccisione di Livatino, di inchieste contro la Pubblica Amministrazione ad Agrigento se ne fecero in tutto solo una ventina, salendo a ben 500, nel solo 1993 … !  

Le cause della morte di Livatino vanno quindi ricercate nella tangentopoli che verrà poi scoperchiata nella valle dei templi e nell’isola siciliana, dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, in cui perirono Falcone, Borsellino e relative scorte, dove oltre ai templi di Zeus, Giunone ed Eracle, sono rimasti intatti quelli delle logge massoniche, che per decenni hanno garantito impunità alle attività delle organizzazioni criminali e alla “famiglia” di Filippo Salamone, l’ «acchiappatutto isolano», definito con l’altro Salamone magistrato: «i fratelli più potenti della città».

Grazie alle nuove strategie introdotte dal giovane Livatino, volte ad individuare i percorsi dei patrimoni illeciti accumulati dalla mafia e allo sviluppo delle sue intuizioni investigative, sulle cui orme procedettero Falcone e Borsellino, i due grandi magistrati, prima di venire a loro volta trucidati, riuscirono a portare alla luce i collegamenti con le massomafie del nord, il finanziamento illecito dei partitti e il riciclaggio dei proventi del narcotraffico nelle banche svizzere.

Dopo la loro morte, Filippo Salamone venne arrestato per ordine della Procura di Palermo con l’accusa di concorso in associazione mafiosa, eppoi condannato a sei anni di reclusione, confermati nel 2008 dalla V sezione penale della Corte di Cassazione. L’ordine di cattura venne emesso nell’ambito dell’inchiesta «mafia e appalti ter», scaturita dalle dichiarazioni di Angelo Siino, in cui furono chiesti gli arresti di altre 9 persone, tra cui l’amministratore della Calcestruzzi spa del Gruppo Ferruzzi, Lorenzo Panzavolta, già coinvolto nelle inchieste del pool di Milano, e gli imprenditori siciliani Sebastiano Crivello e Giuseppe Bondi; l’imprenditore palermitano Antonino Buscemi, l’ingegnere palermitano Giovanni Bini, collegato a Buscemi, rappresentante del finanziere Raul Gardini e collettore della cosiddetta «tassa Riina», cioè della parte di tangente che toccava alla mafia, dopo che venne deciso di sbarazzarsi di Siino; gli imprenditori agrigentini Giovanni Miccichè, socio di Salamone, e Antonio Vita che regolarmente si aggiudicava appalti pubblici pilotati dal comitato d’affari gestito da Buscemi e Bini e in precedenza da Siino.  L’imprenditore Salamone era già stato in precedenza arrestato nel 1993 e condannato ad un anno e tre mesi per «concussione».

A riguardo, Siino ha dichiarato che alla fine degli anni ’80: «esisteva un gruppo di interessi, che aveva il 90 per cento del controllo dei grandi appalti in Sicilia, facente capo all’ex presidente della Regione siciliana, Rino Nicolosi, all’ex ministro Calogero Mannino, a Salvatore Sciangula (politico democristiano indicato come colui che avrebbe favorito l’ascesa delle imprese del cognato Salamone), a Salamone e Vita», e inoltre che «esisteva un accordo tra Antonino Buscemi e il Gruppo Ferruzzi, tramite Lorenzo Panzavolta». Dopo una riunione avvenuta nel 1988 negli uffici della Calcestruzzi, presenti Salamone, Bini e Buscemi, per decidere il nuovo sistema di controllo degli appalti, venne deciso che a quest’ultimo sarebbero toccati soltanto gli appalti di importo inferiore ai 5 miliardi. Degli altri si sarebbe dovuto interessare Salamone divenendo così, secondo l’accusa, «perno di quel sistema». Circostanze poi praticamente in toto confermate dalla condanna definitiva della Corte di Cassazione.

Può essere che Livatino avesse intuito già dal 1990 questo sistema corruttivo interno alla Procura di Agrigento dove operava e si apprestasse a farlo saltare…? 

E’ la risposta che aspettiamo potere presto ricevere dalla parte sana della magistratura e delle Autorità dello Stato, magari anche con l’aiuto della Chiesa e delle Associazioni antimafia, sempre pronte a ricordare con arrendovole mestizia la memoria dei martiri della giustizia e a inscenare solenni celebrazioni, fiaccolate, dibattiti e manifestazioni di piazza, ma senza mai impegnarsi con la dovuta determinazione sul terreno della denuncia dei poteri forti e della ricostruzione storica dei fatti. Fedeltà ricostruttiva che, come la storia insegna, al di là delle monche ipocrite false verità giudiziarie, è sempre la Società civile nel suo insieme a riuscire a portare alla luce, rivelando le verità nascoste dal potere, attraverso il generoso sforzo e incessante impegno di uomini liberi, privi di collari ideologici e padrini politici. Solo così si potrà veramente rendere giustizia a Rosario Livatino e ai tanti magistrati e fedeli servitori dello Stato, beatificandone veramante la memoria. 

“Il mondo di oggi ha bisogno di persone che abbiano amore

e lottino per la vita almeno con la stessa intensità

con cui altri si battono per la distruzione e la morte”.

Gandhi

A cura di Pietro Palau Giovannetti         

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