Da Milano a Brescia giustizia alla rovescia. E’ la storia di Giuseppe Maria Blumetti, giudice civile del Tribunale di Milano. Tutto ha inizio, più o meno, una diecina di anni fa, quando sulla sua scrivania finisce una causa di separazione, apparentemente non diversa dalle tante che ogni anno affluiscono presso il locale tribunale . Il magistrato era chiamato a stabilire sulla base di una perizia il valore di alcuni beni attribuiti da una precedente sentenza al coniuge separato che la di lui moglie aveva fatto sparire. In altre parole, l’attore non potendo mettere le mani su quei beni, chiedeva di poterne almeno monetizzare il prezzo. Nel 2001, inizia la causa per l’accertamento del valore. Nel 2003, viene depositata la perizia (che fissa la cifra di 230 mila euro). Poi, il buio. Ma una norma come ben sanno molti avvocati e malcapitati utenti che hanno cause spesso spinose presso il locale tribunale. Il giudice avrebbe dovuto depositare entro 30 giorni la sua decisione. Ma siccome siamo a Milano, dove tutto accade, quei trenta giorni possono diventare anche svariati anni, senza che nessuna autorità censuri il giudice. Ci sono casi in cui la sentenza non è mai arrivata. Il difensore sollecita ovviamente risposta dai superiori del magistrato, ma senza soritre alcun risultato. Fino a quando il legale non decide nel 2008, dopo 5 anni di attesa, di presentare un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura (che avrebbe sospeso la toga dalle funzioni) e una denuncia penale. E così il giudice «lumaca» finisce a processo. Quel che accade davanti al collegio della I sezione del tribunale di Brescia, però, ha il sapore del grottesco. La prima udienza, infatti, è anche l’ultima. Al pubblico ministero e all’avvocato di parte civile, che si attendevano un’udienza «filtro» per iniziare a discutere del caso, viene comunicato che la vicenda va affrontata senza perdere altro tempo, che si procede all’immediata discussione, che ci sarà la camera di consiglio e la sentenza. È il 18 marzo 2010. Il giudice-imputato spiega al collegio che la ragioni di quel ritardo erano dovute al suo stato di prostrazione psichica (e a riprova porta due perizie), e che le sue difficoltà l’avevano portato a trascurare qualcosa come 300 fascicoli che gli erano stati affidati. Non esattamente un’attenuante. Avrebbe potuto prendersi un periodo di malattia, un’aspettativa, ammettere di non essere in grado di fare fronte al carico di lavoro e passare la mano a qualche collega. Avrebbe potuto – extrema ratio – persino dimettersi. E invece no. Ha accumulato ritardi su ritardi. E pace a chi chiede alla giustizia di essere – se non rapida – almeno decente. Il Tribunale, però, l’ha assolto per mancanza dell’elemento psicologico del reato. Cioè non c’è il dolo, e – soprattutto – l’imputato era afflitto da una condizione che gli impediva sì di assolvere le sue funzioni, ma non di vedersi accreditato lo stipendio ogni mese, per dodici mesi, nei cinque anni in cui non ha fatto nulla. Ma se non poteva lavorare, per quale ragione non l’ha responsabilmente ammesso prima di mettere un’altra zavorra al sistema? Tant’è, assolto. Subito. Nel giro di una mattinata. In due ore. E poi si dice che non esiste il processo breve.
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