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Prescrizione crediti e cartella esattoriale non opposta: no applicazione analogica art. 2953 cc

Prescrizione crediti e cartella esattoriale non opposta: no applicazione analogica art. 2953 cc

Corte d’Appello Lecce, sez. lavoro, sentenza 14.03.2014 n° 668 (Cristiano Ditonno)

“Alla luce di un più approfondito esame della materia, non può che ritenere che solo il credito derivante da una sentenza passata in giudicato si prescrive entro il termine di dieci anni, per diretta applicazione dell’art. 2953 c.c. (che in quanto norma di carattere eccezionale, non può estendersi per analogia a casi semplicemente assimilabili), mentre, se la definitività del credito non deriva da un provvedimento giurisdizionale irrevocabile, vale il termine di prescrizione di cinque anni previsto dalla norma specifica (Cass. 10.12.2009 n. 25790)” (C. App., Sez. Lav., Sent. N. 668/2014 del 14/03/2014).

Il caso

Con ricorso depositato il 13/04/2011 e pedissequo decreto emesso dal Tribunale di Brindisi, Sezione Lavoro, la sig.ra XXXX proponeva opposizione avverso un’intimazione di pagamento notificatale dall’Equitalia Sud s.p.a., relativa a cartella di pagamento avente ad oggetto contributi previdenziali INPS insoluti e maturati nel 2001. Il ricorso si fondava sull’eccepita mancata notificazione della propedeutica cartella di pagamento e sulla prescrizione del credito previdenziale. Si costituivano in giudizio INPS, S.C.C.I. s.p.a. ed Equitalia e contestavano gli assunti attorei, chiedendo il rigetto del ricorso. Con sentenza del 27/11/2013, il Tribunale di Brindisi, ritenuta fondata l’eccezione di prescrizione, accoglieva il ricorso e, per l’effetto, annullava l’atto opposto.

Proponeva appello l’Equitalia SUD S.p.A., rilevando che il termine prescrizionale del credito previdenziale, poiché intimato con cartella di pagamento “passata in giudicato”, era decennale e, per l’effetto, chiedeva la riforma della sentenza di primo grado, con ogni giuridica conseguenza. Il Concessionario faceva leva sul precedente giurisprudenziale conforme della stessa Corte adita ed emesso nel 2012 (C. App., Sez. Lav., Sentenza 1149/2012) e chiedeva, per l’effetto, la revisione della sentenza di primo grado. Si costituivano in giudizio le parti resistenti e, in particolare, la difesa della contribuente eccepiva e deduceva l’infondatezza dell’appello, chiedendone l’integrale rigetto.

Con sentenza 14 marzo 2014, n. 668 la Corte d’Appello di Lecce rigettava il ricorso in appello e condannava l’appellante alla refusione delle spese di lite.

La decisione

Il provvedimento in commento si inserisce nell’annosa questione giuridica inerente l’applicabilità o meno dell’art. 2953 c.c. alle cartelle di pagamento notificate dall’Equitalia e cristallizzatesi, per mancata opposizione, in un credito irretrattabile.

Non risulterà sconosciuta ai più la teoria, di scuola prettamente giurisprudenziale, secondo la quale all’irretrattabilità del credito censito nella cartella di pagamento non opposta nei termini si applicherebbe l’effetto del citato art. 2953 c.c.

Secondo tale impostazione, dal c.d. “passaggio in giudicato” della cartella esattoriale, discenderebbe la trasformazione della prescrizione propria dei crediti in quella ordinaria, indipendentemente dalla natura degli stessi. Sicché, anche laddove il credito si prescriva per sua natura in un termine più breve, quest’ultimo si trasformerebbe in decennale per applicazione analogica della norma.

L’impostazione de qua ha trovato conferma in diversi precedenti giurisprudenziali, soprattutto nell’ambito delle Commissioni Tributarie Provinciali, ed è stata recentemente avallata dalla stessa Corte d’Appello di Lecce con la nota sentenza n. 1149/2012.

Secondo la sentenza citata, infatti, il termine da osservare per la prescrizione dei crediti di qualsivoglia natura è quello ordinario decennale, “vertendosi in tema di crediti cristallizzati nel loro ammontare e nella loro esigibilità al momento della notifica delle cartelle presupposte” (C. App., sent. 1149/2012).

Conforme a tale ricostruzione è il costante orientamento della Commissione Tributaria Provinciale di Brindisi, in base al quale, “la cartella di pagamento non impugnata nei termini di Legge e, come tale, divenuta definitiva, è soggetta al termine decennale di prescrizione … da quando è stata notificata” (Comm. Trib. Prov. Br., Sez IV, sentenza 24 gennaio 2012, n. 111).

In senso diametralmente opposto si è espressa, invece, la gran parte della giurisprudenza ordinaria civile di primo grado, ritenendo assolutamente inapplicabile l’art. 2953 c.c. alla cartella di pagamento, non rivestendo, quest’ultima, la medesima natura giuridica della sentenza, pur accomunandola in taluni peculiari aspetti.

Ad esempio, la sentenza 6 marzo 2014, n. 509 emessa dal Tribunale di Brindisi, Sezione Lavoro, G.L. dott.ssa Raffaella Brocca, ha sancito che “la cartella esattoriale non è titolo giudiziale ed è regolata dallo stesso termine di prescrizione del credito da essa portata. Pertanto, la prescrizione della cartella esattoriale è decennale solo qualora ci si trovi dinanzi ad una sentenza passata in giudicato (c.d. actio iudicati si veda l’art. 2953 c.c.). In tal caso il termine di prescrizione muta da quello ordinario precedente (breve – quinquennale) – previsto per il singolo tributo – in quello decennale …” (Trib. Br., Sez. Lav., sentenza 6 marzo 2014, n. 509; cfr. Trib. Br., Sez. Lav., sentenza 24 marzo 2014, n. 651).

Con la sentenza in rassegna viene compiuto un ulteriore passo in avanti nell’interpretazione della norma, atteso che la stessa si pone in totale distonia rispetto al punto di vista interpretativo che aveva indotto invece la Corte d’Appello di Lecce alla soluzione opposta, nella già richiamata sentenza n. 1149/2012 e risulta altresì innovativa se comparata alle altrettante decisioni in materia, ancorché conformi nella parte dispisitiva.

Difatti, la Corte ha dichiarato l’inapplicabilità in via analogica dell’art. 2953 cit. alle cartelle esattoriali, in vista della sua specialità nell’ordinamento giuridico.

La tesi esposta appare condivisibile. L’art. 2953 cit., infatti, dispone che “i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni”. La norma riferisce, cioè, il dedotto effetto giuridico esclusivamente e tassativamente al passaggio in giudicato della sentenza. Né, peraltro, l’ordinamento giuridico italiano prevede una norma analoga che alleghi il medesimo effetto giuridico ad altri atti, men che meno alla c.d. irretrattabilità della cartella di pagamento.

Stando al tenore della predetta disposizione, l’effetto de quo risulterebbe, piuttosto, limitato alle ipotesi di condanna al pagamento dei crediti accertati da una sentenza passata in giudicato. In tal caso e per effetto della sentenza, si assiste ad una vera e propria novazione oggettiva del credito, la cui natura diviene irrilevante ai fini della determinazione del termine prescrizionale, avendo il provvedimento natura di titolo di credito efficace, ex legge, per dieci anni.

Di converso, la cartella di pagamento è atto che differisce dalla sentenza, essendo piuttosto uno strumento, analogo al precetto privatistico, per esigere i crediti in concessione ad Equitalia ed alle altre analoghe società di recupero.

Per di più, l’art. 2953 c.c. – che è norma speciale – non potrebbe applicarsi in via analogica ad altre fattispecie diverse dalla sentenza, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 12 preleggi. La Corte di Cassazione escluse espressamente tale possibilità, evidenziando, di converso, che “la norma dell’art. 2953 c.c. non può essere applicata per analogia oltre i casi in essa stabiliti, onde al riconoscimento del diritto, da parte di colui contro il quale il diritto stesso può essere fatto valere, non può essere riconosciuto altro effetto che quello interruttivo della prescrizione propria del diritto medesimo” (Cass. Civ., 29 gennaio 1968, n. 285).

Sebbene il precedente di Legittimità risalga a quasi un lustro addietro, ad oggi non è stato mai messo in discussione se non da sparute sentenze di merito, la cui motivazione è apparsa a dir poco emblematica e sfuggente. Tali ultime risultano, peraltro, in contrasto con alcune più recenti pronunce della Corte di Cassazione, secondo la quale, “la notifica della cartella di pagamento non costituisce il primo atto con il quale viene esercitato il potere di accertamento, atteso che tale potere ha già trovato compiuta attuazione nella emissione dell’atto impositivo (avviso di accertamento) divenuto definitivo per mancata opposizione (fatto incontestato) qualificandosi, pertanto, la cartella come atto consequenziale meramente esecutivo che assolve alla funzione di precetto (consistendo nell’accertamento del mancato pagamento del debito tributario e nell’intimazione al contribuente l’effettuazione del versamento dovuto entro un termine ristretto, con l’avvertenza che in mancanza si procederà ad esecuzione forzata), e si colloca in quanto atto della procedura esecutiva in un momento successivo a quello della definizione del rapporto giuridico sostanziale di natura tributaria” (Cass. Civ., Sez. V, sentenza 6 luglio 2012, n. 11380). A ciò si aggiunga che “l’ingiunzione fiscale, in quanto espressione del potere di auto accertamento e di autotutela della P.A., ha natura di atto amministrativo che cumula in sé le caratteristiche del titolo esecutivo e del precetto, ma è priva di attitudine ad acquistare efficacia di giudicato: la decorrenza del termine per l’opposizione, infatti, pur determinando la decadenza dall’impugnazione, non produce effetti di ordine processuale, ma solo l’effetto sostanziale dell’irretrattabilità del credito (qualunque ne sia la fonte, di diritto pubblico o di diritto privato), con la conseguente inapplicabilità dell’art. 2953 cod. civ. ai fini della prescrizione” (Cass. Civ., Sez. V., sentenza 25 maggio 2007, n. 12263). Da ciò, discenderebbe, sempre secondo la giurisprudenza di Legittimità, che “una volta divenuto definitivo l’atto di accertamento (ed esaurito quindi l’esercizio del potere impositivo (a fronte del quale sta il diritto del contribuente alla determinazione di una imposta “giusta” ex art. 53 Cost.), la pretesa vantata dalla Amministrazione finanziaria si cristallizza nel diritto soggettivo di credito, il cui esercizio (corrispondente ora al potere di riscossione a fronte del quale sussiste soltanto la esigenza che le modalità di esecuzione coattiva non si traducano in una un’inammissibile vessazione del contribuente) rimane assoggettato, in assenza di diversa specifica previsione normativa, all’ordinario termine di prescrizione dei diritti ex artt. 2934 ss. c.c.(Cass. Civ., Sez. V, sentenza 6 luglio 2012, n. 11380).

Sicché, nell’interpretazione maggioritaria, l’art. 2953 cit. è applicabile solo laddove il diritto di credito sia divenuto definitivo in seguito ad una pronuncia giurisdizionale passata in giudicato; diversamente, dovrà applicarsi la prescrizione breve (Corte cass. SU 10.12.2009 n. 25790 cfr. Cass. civ. Sez. V, Sent., 19 luglio 2013, n. 17669). Infatti, la Corte a Sezioni Unite, in materia di sanzioni amministrative, ha di recente osservato che “il diritto alla riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste per la violazione di norme tributarie, derivante da sentenza passata in giudicato, si prescrive entro il termine di dieci anni, per diretta applicazione dell’art. 2953 cod. civ., che disciplina specificamente ed in via generale la cosiddetta “actio iudicati”, mentre, se la definitività della sanzione non deriva da un provvedimento giurisdizionale irrevocabile vale il termine di prescrizione di cinque anni, previsto dall’art. 20 del d.lgs. 18 dicembre 1997 n. 472, atteso che il termine di prescrizione entro il quale deve essere fatta valere l’obbligazione tributaria principale e quella accessoria relativa alle sanzioni non può che essere di tipo unitario. (Rigetta, Comm. Trib. Reg. Roma, 28/10/2006)”.

Risulta, quindi, parzialmente condivisibile l’orientamento di parte della giurisprudenza di merito che lega la mancata applicazione del termine di cui all’art. 2953 cit. esclusivamente all’assenza di analogia tra la cartella di pagamento non opposta e la sentenza passata in giudicato. A tal proposito, il Tribunale di Brindisi aveva, infatti, affermato che “la cartella esattoriale non opposta non può assimilarsi ad un titolo giudiziale, e, pertanto, non può applicarsi al credito ivi contenuto la prescrizione decennale conseguente ad una sentenza di condanna passata in giudicato, ex art. 2953 c.c. La perentorietà del termine fissato dall’art. 24 comma 5 d.l.vo n. 46/99 determina effetti analoghi al giudicato ma, in assenza di un’espressa previsione legislativa in tal senso, non possono ritenersi del tutto equiparabili al giudicato di formazione giudiziale (cfr. Cass. n. 12263/07 e Cass. S.U. n. 25790/09)” (infra multis, Trib. Brindisi, Sez. Lav., G.L. Francesco De Giorgi 27/11/2012 n. 4078/2012). In senso conforme, si era pronunciato, ad esempio, il Tribunale di Torino, secondo il quale “la cartella esattoriale può essere assimilata all’ingiunzione fiscale che, in quanto espressione del potere di accertamento e di autotutela della P.A., ha natura di atto amministrativo, e, pur cumulando in sé le caratteristiche del titolo esecutivo e del precetto, risulta priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato: ne consegue che la decorrenza del termine per l’opposizione, pur determinando la decadenza dall’impugnazione, non produce effetti di ordine processuale, con conseguente inapplicabilità degli effetti del giudicato sulle prescrizioni brevi (art. 2953 c.c.)(Trib. Torino, Sez. III, 10/05/2013, Br.Ga. c/ Comune di Torino + altri, in Leggi d’Italia Professionale, Dea Professionale, massima redazionale 2013). Del medesimo tenore è la sentenza del Tribunale di Cosenza. Secondo una nota pronuncia del Tribunale cosentino, infatti, “non può ritenersi che il termine sia decennale in conseguenza della mancata opposizione avverso le cartelle, perché questa produce il solo effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, ma non rende applicabile, ai fini della prescrizione, l’art. 2953 c.c., che riguarda solo le pronunce giudiziali, solo queste idonee al giudicato (cfr. Cass. 12263/2007, SU 25790/2009)” (Trib. Cosenza, Sez. Lavoro, sentenza 8 maggio 2013, in Leggi d’Italia Professionale, Dea Professionale, massima redazionale 2013).

L’orientamento sopra riportato appare parzialmente condivisibile, poiché, a prescindere dalla non assimilabilità della cartella di pagamento alla sentenza, gli effetti dell’art. 2953 c.c. non possono e non devono mai essere applicati in via analogica, trattandosi di norma speciale, come chiarito dalla stessa Corte di Cassazione, sia pur nel lontano 1968.

Proprio in tale direzione, si pone la sentenza in commento, laddove, nel riformare il proprio precedente giurisprudenziale, espressamente evidenzia che “alla luce di un più approfondito esame della materia, non può che ritenere che solo il credito derivante da una sentenza passata in giudicato si prescrive entro il termine di dieci anni, per diretta applicazione dell’art. 2953 c.c. (che in quanto norma di carattere eccezionale, non può estendersi per analogia a casi semplicemente assimilabili), mentre, se la definitività del credito non deriva da un provvedimento giurisdizionale irrevocabile, vale il termine di prescrizione di cinque anni previsto dalla norma specifica (Cass. 10.12.2009 n. 25790)”.

Sotto tale aspetto, pur nella singolarità del repentino mutamento di orientamento, la Corte d’Appello sottolinea un elemento innovativo della vexata questio, affermando l’inapplicabilità dell’istituto dell’analogia all’art. 2953 cit. in vista del suo carattere eccezionale, esattamente come gli Ermellini ebbero ad evidenziare con la sentenza n. 285/1968 citata.

Si auspica che tale tribolato orientamento sia presto sposato universalmente, così da rendere certezza al diritto e garanzia di effettività della macchina giudiziaria.

Per approfondimenti:

(Altalex, 22 agosto 2014. Nota di Cristiano Ditonno

 

Corte d’Appello di Lecce

Sezione Lavoro

Sentenza 4 marzo 2013 – 14 marzo 2014, n. 668

N. 668/14 SENT.

N. 249/13 R.G.

N. 3702 Cron.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte di Appello di Lecce – Sezione Lavoro

Riunita in Camera di Consiglio e composta dai seguenti Magistrati:

1) Dott. Vittorio Delli Noci Presidente Rel.

2) Dott. Giuseppe Viggiani Consigliere

3) Dott.ssa Caterina Mainolfi Consigliere

ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa civile in materia di lavoro, previdenza ed assistenza, in grado di appello, iscritta al n. 249/2013 del Ruolo Generale, Sez. Lav. App., promossa

DA

EQUITALIA SUD S.p.a., già Equitalia E.TR S.p.a., in persona del suo Amministratore Delegato dott. B. Mineo, con sede in Roma, rappresentata e difesa dall’avv. Omissis, come da mandato in atti.

APPELLANTE

CONTRO

Omissis, rappresentata e difesa dall’avv. Omissis, come da mandato in atti.

NONCHE’

I.N.P.S. e S.C.C.I. S.p.a., in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro-tempore, rappresentati e difesi dall’avv. Omissis, come da procura generale alle liti indicata in atti.

APPELLATI

OGGETTO: Opposizione avverso intimazione di pagamento.

APPELLO avverso sentenza del Tribunale di Brindisi n. 4078/12 del 27.11.2012.

Alla udienza del 4.3.2014 la causa è stata decisa sulle conclusioni come in atti riportate.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 13.4.2011 Omissis proponeva opposizione avverso la intimazione di pagamento relativa alla cartella esattoriale n. 024 2003 001462817000, notificata da Equitalia E.Tr. S.p.a. il 14.3.2003 per contributi dovuti all’INPS in relazione all’anno 2001.

A sostegno della opposizione, eccepiva la mancata notifica della cartella esattoriale e la prescrizione del credito vantato; concludeva per l’annullamento dell’atto opposto.

Si costituivano l’INPS, la S.C.C.I. S.p.a. ed Equitalia e contestavano la fondatezza della opposizione.

Il Tribunale di Brindisi, quale Giudice del Lavoro, con sentenza del 27.11.2012, ritenuta fondata l’eccezione di prescrizione, accoglieva la opposizione e, per l’effetto, annullava l’atto di intimazione opposto, compensando le spese.

Proponeva appello Equitalia Sud S.p.a., già Equitalia E.Tr. S.p.a., con ricorso depositato l’8.2.2013 e rilevava che, nella specie, i termini prescrizionali erano decennali, con la conseguenza che non si era verificata la prescrizione come riconosciuta dal giudice di primo grado.

Chiedeva, pertanto, in riforma della impugnata sentenza, il rigetto della opposizione come a suo tempo proposta.

Si costituiva la Omissis con memoria depositata il 28.1.2014 e contestava la fondatezza dell’appello, del quale chiedeva l’integrale rigetto.

L’INPS e la S.C.C.I. S.p.a. resistevano.

Alla odierna udienza di discussione, la causa veniva decisa, sulla base delle conclusioni di cui in atti, come da separato dispositivo.

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’appello è infondato.

Ed invero, alla fattispecie in esame va applicata la prescrizione quinquennale, così come correttamente ritenuto dal primo giudice.

La società appellante sostiene l’applicabilità della prescrizione decennale ex art. 2953 c.c., sul presupposto che i crediti vantati sarebbero portati da una cartella di pagamento non opposta, assimilabile – a suo dire – ad un giudicato civile.

In contrario, però, va rilevato che l’art. 2953 c.c. parla di “sentenza di condanna passata in giudicato”, alla quale non può assimilarsi la cartella di pagamento opposta.

In proposito, la S.C. ha affermati, in caso più o meno analogo, che “l’ingiunzione fiscale, in quanto espressione del potere di autoaccertamento e di autonomia della P.A., ha natura di atto amministrativo che cumula in sé le caratteristiche del titolo esecutivo e del precetto, ma è priva di attitudine ad acquistare efficacia di giudicato”, con la conseguenza della inapplicabilità dell’art. 2953 c.c. ai fini della prescrizione (Cass. 25.5.2007 n. 12263).

Questa Corte non ignora il proprio precedente citato dalla società Equitalia, ma, alla luce di un più approfondito esame della materia, non può che ritenere che solo il credito derivante da una sentenza passata in giudicato si prescrive entro il termine di dieci anni, per diretta applicazione dell’art. 2953 c.c. (che, in quanto norma di carattere eccezionale, non può estendersi per analogia a casi semplicemente assimilabili), mentre, se la definitività del credito non deriva da un provvedimento giurisdizionale irrevocabile, vale il termine di prescrizione di cinque anni previsto dalla norma specifica (Cass. 10.12.2009 n. 25790).

Ogni altra questione rimane assorbita.

Le spese del presente grado di giudizio sostenute dalla Omissis vanno accollate alla società appellante, con distrazione.

Le spese verso l’INPS e la S.C.C.I. S.p.a. vanno compensate, anche in considerazione del fatto che gli enti suindicati si sono costituiti il giorno prima dell’udienza.

P.Q.M.

La Corte di Appello di Lecce – Sezione Lavoro;

Visto l’art. 427 c.p.c.;

definitivamente pronunciando sull’appello proposto con ricorso dell’8.2.2013 da Equitalia Sud S.p.a. nei confronti di Omissis, dell’INPS e della S.C.C.I. S.p.a. avverso la sentenza del 27.11.2012 del Tribunale di Brindisi, così provvede:

Rigetta l’appello,

Condanna la società appellante al pagamento, in favore della Omissis, delle spese di questo grado, liquidate in € 1.100,00 ex D.M. n. 140/12, oltre accessori come per legge, con distrazione in favore dell’avv. Omissis.

Così deciso in Lecce il 4.3.2013.

IL PRESIDENTE EST.

IL FUNZIONARIO GIUDIZIARIO

Depositato in Cancelleria

14 MAR 2014

Il Funzionario Giudiziario

Accesso agli atti: Equitalia condannata per il silenzio-rifiuto

Accesso agli atti: Equitalia condannata per il silenzio-rifiuto
TAR Lazio-Roma, sez. III, sentenza 13.03.2013 n° 2660 (Alessandra Rizzelli, Maurizio Villani)

Con sentenza 6-3 marzo 2013, n. 2660 il Tar Lazio ha accolto il ricorso ex art. 116 c.p.a. proposto da un contribuente avverso il silenzio rifiuto di Equitalia Sud Spa formatosi su un’istanza di accesso agli atti.

Nello specifico, il ricorrente attraverso l’istanza de quo aveva richiesto di poter prendere visione ed estrarre copia di tutta una serie di documenti e, in particolar modo:
• degli atti e dei documenti sottesi ad un’avvenuta iscrizione ipotecaria su di un immobile di sua proprietà;
• degli atti e dei documenti dai quali poter evincere i nomi dei responsabili del o dei procedimenti sottesi a detta iscrizione.

Tale documentazione si rendeva necessaria per il contribuente al fine di poter esercitare il suo diritto di difesa, sia relativamente alla legittimità dell’iscrizione ipotecaria, sia con riferimento ad un processo penale pendente in fase di appello nei confronti del funzionario responsabile della cartella, sia infine per la richiesta di risarcimento del danno ex art. 30 c.p.a. per responsabilità del legittimo esercizio dell’attività amministrativa.

A seguito del silenzio rifiuto e all’impugnazione dello stesso innanzi ai giudici amministrativi, il Tar Lazio correttamente ha accolto il ricorso del contribuente sottolineando in particolare come <>.

I giudici amministrativi, infine, non hanno mancato di rilevare come il diritto di accesso agli atti sia un diritto soggettivo e, pertanto, è compito del giudice, laddove vi sia un interesse concreto, diretto e attuale del ricorrente all’ostensione richiesta, ordinare l’esibizione dei documenti richiesti, sostituendosi all’amministrazione e ordinando un “facere” pubblicistico.

(Altalex,4 aprile 2013. Nota di Alessandra Rizzelli e Maurizio Villani)

Contratto tra avvocato e cliente: il foro è sempre quello esclusivo del consumatore

Cassazione civile, sez. III, Ordinanza 09.06.2011 n° 12685.

La Cassazione, con l’ordinanza 9 giugno 2011, n. 12685, emessa in sede di regolamento di competenza, ha confermato la sentenza del 19 febbraio 2010, con la quale il Tribunale di Roma si dichiarava incompetente in favore del Foro esclusivo del Consumatore opponente a decreto ingiuntivo (nella specie il Tribunale di Larino).
Si tratta di un’importante pronuncia che sancisce un prinicipio di civiltà giuridica e di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, anche a tutela del diritto di difesa, ex art. 24 Cost. del soggetto più debole, confermando l’evoluzione della giurisprudenza interna alle normative europee in materia di tutela dei consumatori.
Presso quest’ultimo Foro è infatti residente il cliente che aveva promosso opposizione a decreto ingiuntivo in favore del suo ex legale in relazione a compensi professionali asseritamente non onorati.

Il legale propone regolamento di competenza eccependo l’inapplicabilità delle norme a tutela del consumatore in quanto il credito nei confronti del debitore opponente si sarebbe formato nell’ambito della sua professione di insegnante e pertanto sulla base di tale pressuposto invocava l’applicabilità del foro speciale alternativo per notai ed avvocati, di cui al terzo comma dell’art. 637 c.p.c.

La Cassazione ritiene infondata la tesi dell’avvocato argomentando che nel rapporto tra il foro speciale alternativo di cui al terzo comma dell’art. 637 c.p.c. ed il foro esclusivo del consumatore di cui all’art. 33, comma 2, lettera n) del d.lgs. n. 206 del 6 settembre 2005 prevale quest’ultimo. Richiama il proprio consolidato orientamento che ritiene esclusivo e speciale il foro del consumatore, considerando presuntivamente vessatoria, e quindi nulla, la clausola che stabilisca come sede del foro competente un luogo diverso da quello di residenza o domicilio elettivo del consumatore, pure nell’ipotesi ove il foro indicato come competente coincida con uno dei fori di cui agli artt. 18 e 20 c.p.c.

La Suprema Corte smentisce pertanto l’eccezione sollevata dall’avvocato in merito alla non riconducibilità della normativa in tema di consumatori al caso di specie, in quanto l’avvocato che conclude un contratto d’opera intellettuale rappresenta un professionista ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 206 del 2005, ricordando le definizioni fornite dal codice del consumo e dalla direttiva comunitaria da cui ha tratto origine.

La Corte infine analizza l’ulteriore questione concernente la locuzione “scopo estraneo all’attività professionale” se si riferisca o meno ad attività differenti da quelle di lavoratore dipendente. La Corte, sulla scia di alcune precedenti sentenze nelle quali il lavoratore subordinato veniva riconosciuto quale “parte debole” del rapporto contrattuale, afferma che il rapporto di lavoro subordinato non integra attività di natura professionale idonea a far ritenere sussistente la qualità di professionista e quindi escludendo la qualifica di consumatore.
Ciò premettendo la Corte elimina ogni dubbio circa la prospettata qualificazione operata dal ricorrente nei confronti dell’insegnante – lavoratore dipendente, come “professionista”.

Testo integrale

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Ordinanza 4 maggio – 9 giugno 2011, n. 12685

(Presidente Preden – Relatore Segreto)

Fatto e diritto

1. L’avv. E.M. ha ottenuto dal Tribunale di Roma un decreto ingiuntivo nei confronti di Ma.Sa. per un credito di Euro. 14.473,88 a titolo di compenso per prestazioni professionali di avvocato in un giudizio promosso davanti al Tar Molise e davanti al Consiglio di Stato, relativo all’orario di insegnamento del Ma. , quale professore di scuola pubblica. Il Ma. proponeva opposizione, eccependo tra l’altro l’incompetenza territoriale del tribunale di Roma ed in via gradata, sollevando l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 637, e. 3, c.p.c.

Il tribunale di Roma, con sentenza depositata il 19.2.2010, dichiarava la propria incompetenza per territorio, essendo competente il tribunale di Larino, quale foro del consumatore, avendo il Ma. la propria residenza in quel circondario.

Avverso tale sentenza, l’attore avv. E.M. proponeva regolamento di competenza adducendo che nel caso di specie non fosse applicabile la previsione sul foro del consumatore, in quanto nel rapporto tra avvocato e cliente non operava la normativa a tutela del consumatore che si riferiva solo alle attività commerciali; che il Ma.Sa. non poteva considerasi un consumatore, in quanto aveva conferito mandato all’avvocato riguardo ad una controversia che rientrava nel quadro della sua professione di insegnante; che in ogni caso avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 637, comma 3, c.p.c. L’avv. M. ha presentato anche memoria. Resiste l’intimato con controricorso.

2. La decisione sulla competenza passa necessariamente attraverso la soluzione di tre questioni.

Il primo problema che si pone nella fattispecie attiene al rapporto tra il foro speciale alternativo di cui all’art. 637, c. 3, c.p.c. in favore degli avvocati (e dei notai), ed il foro esclusivo del consumatore di cui attualmente all’art. 33, c. 2 lett. n) del d.lgs. 6.9.2005 n. 206.

Il punto è oggetto di soluzioni contrastanti nella giurisprudenza di merito, mentre mancano sentenze di legittimità.

L’art. 63 7 c.p.c. statuisce che “Per l’ingiunzione è competente il giudice di pace o, in composizione monocratica, il tribunale che sarebbe competente per la domanda proposta in via ordinaria. Per i crediti previsti nel n. 2 dell’articolo 633 è competente anche l’ufficio giudiziario che ha deciso la causa alla quale il credito si riferisce.

Gli avvocati o i notai possono altresì proporre domanda d’ingiunzione contro i propri clienti al giudice competente per valore del luogo ove ha sede il consiglio dell’ordine al cui albo sono iscritti o il consiglio notarile dal quale dipendono”. L’art. 33, c. 2, lett. u), del d.lgs. 6.9.2005, n. 206,statuisce in tema di contratti c.d. del consumatore che si presume vessatoria fino a prova contraria la clausola che ha per oggetto, o per effetto, di “stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore”.

3.Va anzitutto rilevato che l’art. 637, c. 3, c.p.c. ha superato indenne lo scrutinio di costituzionalità, a cui è stato sottoposto dal Giudice delle leggi con sentenza n. 50 del 2010, in relazione agli artt. 3 e 25 Cost.. La Corte costituzionale ha solo rilevato che lo scopo della norma è quello di agevolare il professionista, che sarebbe invece costretto a seguire le cause relative al recupero dei crediti professionali in luogo diverso (o addirittura in luoghi diversi) da quello in cui egli avesse attualmente stabilito l’organizzazione della propria attività professionale, ma che la censura di incostituzionalità non può ritenersi fondata sotto il profilo della disparità di trattamento in relazione ad altre categorie professionali, che non possono avvalersi della stessa norma. Infatti “si deve osservare che ogni professione presenta caratteri peculiari idonei a giustificarne una disciplina giuridica differenziata. Per la professione legale tali caratteri sono stati già posti in luce con la sentenza di questa Corte n. 137 del 1975. Infine, quanto al rapporto tra l’avvocato e il cliente, se è vero che la norma censurata attribuisce al primo una facoltà processuale ai fini del recupero dei suoi crediti per prestazioni professionali, mediante la possibilità di scegliere un foro che può non coincidere con la residenza o il domicilio del debitore convenuto, è anche vero che tale facoltà non contrasta con il principio di eguaglianza, essendo essa, come già si è notato, frutto di una scelta non irragionevole del legislatore”.

4.1. La giurisprudenza ha ritenuto in tema di c.d. contratti del consumatore, che il foro del consumatore è esclusivo e speciale sicché la clausola che stabilisca come sede del foro competente una località diversa da quella di residenza o di domicilio elettivo del consumatore, anche se il foro indicato come competente coincida con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 c.c., è presuntivamente vessatoria e, pertanto, nulla (Cass. 26/09/2008, n. 24262).

Già sotto la vigenza dell’art. 1469 bis c.p.c. le S.U. di questa Corte hanno ritenuto che la norma contenuta nel comma 3, n. 19 nel presumere la vessatorietà della clausola che stabilisca come sede del foro competente una località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore, ha introdotto un foro esclusivo speciale, derogabile dalle parti solo con trattativa individuale. Ne consegue che è da presumere vessatoria anche la clausola che stabilisca un foro coincidente con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 cod. proc. civ., se è diverso quello del consumatore, perché l’art. 1469-ter, terzo comma, cod. civ. – per il quale non sono vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge – non può essere interpretato vanificando in modo surrettizio la tutela del consumatore, come nel caso in cui il “forum destinatae solutionis” coincida con la residenza del professionista (Cass. Sez. Unite, 01/10/2003, n. 14669; Cass. 20/08/2004, n. 16336).

Pertanto con l’introduzione del foro speciale esclusivo in favore del consumatore (originariamente introdotto dall’art. 1469 bis c.c. e poi trasferito nell’art. 33 del d. lgs. n. 206/2005) risulta ridotto l’ambito di applicabilità dell’originario foro speciale alternativo di cui all’art. 637, c. 3, c.p.c., non regolando anche l’area attualmente coperta dal foro del consumatore, ma esclusivamente quella in cui il cliente ingiunto non rivesta tale qualità.

A rigore non si tratta propriamente di una abrogazione dell’art. 637 e. 3 c.p.c., sia pure parziale, per incompatibilità ai sensi dell’art. 15 delle preleggi, in quanto le due norme in esame convivono (e ciò non solo in relazione alle diverse delimitazioni suddette ma anche perché l’art. 34 d. lgs. n. 206/2005 non esclude in modo assoluto la deroga al foro del consumatore, e quindi anche l’applicabilità della norma codicistica, ma indica le ristrette condizioni alla quali può essere ammessa).

Tuttavia, allorché si versa in una fattispecie in cui, per la presenza sia dell’avvocato che del cliente-consumatore entrambe le norme sarebbero astrattamente applicabili ma necessariamente deve darsi la prevalenza o all’una o all’altra, tale prevalenza va accordata alla norma in tema di foro del consumatore per una duplice ragione.

Anzitutto perché la norma in tema di foro del consumatore individua una competenza esclusiva, che prevale su ogni altra, pur configurata da altra norma (così SU 14669/2003 cit.).

Inoltre detta prevalenza è conseguenza dell’applicazione dei principi che regolano la successione delle leggi nel tempo.

4.2.Né potrebbe sostenersi che tale disciplina prevista dall’art. 637, c. 3, c.p.c., per quanto anteriore rispetto al c.d. codice del consumo non sia stata influenzata dalla successiva disciplina in tema di foro del consumatore, costituendo la norma codicistica una disposizione speciale e, come tale non derogata dalla disposizione successiva generale (perché regolante organicamente l’intera materia della tutela del consumatore) secondo il principio lex specialis derogat legi generali e lex posterior generalis non derogat legi priori speciali.

Infatti l’art. 33, c. 2, lett. u), d. lgs. n. 206/2005 cit., per quanto posizionato in una normativa a carattere generale a tutela del consumatore, rappresenta pur sempre una disposizione speciale in tema di competenza territoriale, non diversamente dalla norma di cui all’art. 637, c. 3 c.p.c., che è posizionata nell’ambito del codice di rito e, quindi, della disciplina generale ed organica del procedimento civile.

4.3. In ogni caso, in merito alla qualità di lex specialis della norma attinente al foro esclusivo del consumatore, va osservato che tale foro era stato originariamente disposto dall’art. 1469 bis e. 3, n. 19 c.c. (introdotto con l’art. 25 della l. n. 52/1996). In quella sede tale l’individuazione del foro costituiva certamente una lex specialis a tutela del consumatore, con la conseguenza che per effetto del coordinamento di tale disposizione speciale sopravvenuta con quella antecedente di cui all’art. 637, c. 3, quest’ultima risultava delimitata ai soli casi in cui il cliente non fosse un consumatore.

La circostanza che la norma speciale in tema di foro esclusivo del consumatore sia poi stata trasferita nella più generale normativa a tutela del consumatore, di cui alla legge n. 206 del 2005, non priva la norma attinente al foro del consumatore del carattere di specialità né “riassorbe” gli effetti delimitativi già prodottisi sull’art. 637, c. 3 c.p.c.

Entrambe le norme (sia quella di cui all’art. 637, e. 3, che quella di cui all’art. 33 d. lgs. n. 205/2006) attengono infatti a categorie specifiche di soggetti.

Ne consegue che il loro concorso va regolato nei termini della prevalenza della norma di cui all’art. 33, c. 2, lett. u, d. lgs. n.2006/2005 su quella di cui all’art. 637, e. 3 c.p.c.

4.4. Di nessun rilievo, ai fini della questione in esame, è la sentenza 20.7.2010 n. 17049 di questa Corte, su cui si dilunga il ricorrente nella memoria. Essa infatti si è limitata a statuire che il Consiglio dell’Ordine in relazione al quale va determinato il giudice competente a norma dell’art. 637, c. 3, c.p.c. è quello relativo al momento della proposizione del ricorso. Nessun elemento da tanto si ricava in relazione alla diversa questione in esame della concorrenza tra il foro dell’avvocato e quello del consumatore.

5.1. La seconda questione che si pone è di esaminare se l’avvocato che conclude un contratto d’opera professionale intellettuale sia da ritenersi un professionista, ai sensi dell’art. 3 del d. lgs. n. 206/2005.

La risposta è affermativa.

Invero, appare innanzitutto infondato l’assunto del ricorrente con il quale, facendosi riferimento al preambolo della direttiva comunitaria 5 aprile 1993 n. 93/13 CEE, da cui ha tratto origine la normativa nazionale sul consumatore, si sostiene che il rapporto tra avvocato e cliente esulerebbe dalla normativa de qua, in quanto l’attività del legale non rientrerebbe tra le “attività commerciali”, a cui soltanto la stessa normativa si riferirebbe, sostanziandosi in un’opera intellettuale basata sull’intuitu personae, di modo che l’avvocato non potrebbe essere annoverato tra i professionisti a cui si applica la normativa comunitaria.

5.2. Va, al contrario, rilevato che la direttiva comunitaria del 5.4.19 93, n. 93/13 CEE non limita il suo ambito di applicazione alle “attività commerciali”, come comunemente intese. Anzi la predetta direttiva comunitaria, al suo decimo “considerando”, afferma espressamente la sua applicabilità “a qualsiasi contratto stipulato tra un professionista e un consumatore”, eccezion fatta per alcuni contratti espressamente enucleati.

Il D.lgs. n. 206/2005 all’art. 3 lett. a), come modificato dall’art. 3, D.Lgs. 23 ottobre 2007, n. 221 definisce il consumatore come: “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. Lo stesso art. 3 (mod. dal d.lgs. n. 221/2007), alla lett. c) definisce il professionista come: “la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario”. Questa definizione di professionista, così come quella di consumatore, fa riferimento all’esercizio dell’attività “imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale” che, nel nostro ordinamento, rispecchia la distinzione tra imprenditore, artigiano e prestatore d’opera professionale.

6.1. È evidente, quindi, che la disciplina del consumatore si applica anche al professionista prestatore d’opera intellettuale (art. 2229 c.c.), qual’è l’avvocato.

A tal fine, peraltro, a nulla rileva che il rapporto tra l’avvocato e il professionista sia caratterizzato dall’intuitu personae e sia, non di contrapposizione, ma di collaborazione (questo, tra l’altro, solo nei rapporti esterni con i terzi, ossia con le controparti del cliente), non rientrando tale circostanza nel paradigma normativo.

Nella fattispecie si versa nell’ipotesi di contratto (d’opera professionale) stipulato tra un professionista (l’avvocato), che tipicamente conclude quel tipo di contratto nella sua attività professionale, ed un cliente, il quale, a seconda delle circostanze, può esser un consumatore o meno (come si vedrà in seguito).

Invero, è evidente che un avvocato utilizza il contratto (di mandato per la rappresentanza e difesa giudiziale o extragiudiziale di un cliente) per agire nell’esercizio della propria attività professionale ed è, pertanto, da considerare un professionista, secondo la definizione data a tale figura dal legislatore nell’art. 3, lett. u) del citato D.lgs. n. 206/2005.

6.2. Ora, il professionista è colui che nell’esercizio della sua attività “utilizza” i contratti previsti dalla disciplina a tutela del consumatore. Il punto era espressamente dichiarato nel previgente art. 1469 bis c.c.; l’inciso non è stato poi riprodotto nel codice del consumo unicamente per il fatto che la definizione viene riferita, in apertura di codice, non solo alla disciplina dei contratti del consumatore ma del consumo in genere. Tuttavia non pare revocabile in dubbio che l’utilizzo del contratto da parte del professionista quale ordinario strumento per l’esercizio della propria attività sia uno dei presupposti sostanziali della normativa in esame.

6.3. Quanto alla prestazione professionale, lo stesso articolo 3 del cod. cons. alla lett. e) individua nel “prodotto” destinato al consumatore anche una “prestazione di servizi”.

A questo fine va rilevato che già questa Corte aveva affermato con ordinanza 26/09/2008, n. 24257, l’applicabilità dell’art. 33 lett. u) del citato D.lgs 6.9.2005, n. 206, in tema di foro del consumatore nell’ambito di un giudizio instaurato dall’avvocato nei confronti del proprio cliente per competenze professionali, rilevando la prevalenza di detto foro esclusivo rispetto a quelli facoltativi di cui all’art. 20 c.p.c. (non si faceva questione -invece – del rapporto tra foro esclusivo del consumatore e quello alternativo speciale di cui all’art. 637, c. 3, c.p.c.) 6.4.Più in generale questa Corte ha già ritenuto che il prestatore di opera professionale intellettuale (nella fattispecie il medico) integra la figura del professionista di cui all’art. 1469 bis (abrogato) e. e. e quindi dell’attuale art. 3 cod. cons. (Cass. 20/03/2010, n. 6824; Cass. 27/02/2009, n. 4914, Cass. 2/01/2009, n. 20), con la conseguenza che opera per il cliente – consumatore – il foro esclusivo della propria residenza. In questi predetti arresti si è rilevato che è professionista – ai fini dell’applicazione della disciplina sui contratti del consumatore, – una persona che assume verso l’altra l’impegno di svolgere a suo favore un compito da professionista intellettuale, se l’impegno è assunto nel quadro di un’attività svolta in modo non occasionale.

6.5. Né la disciplina di protezione del consumatore è limitata al caso in cui il contratto sia concluso per iscritto con rinvio a condizioni generali di contratto o mediante moduli o formulari, come pure si evince sia dall’art. 35 del codice del consumo (e già dall’art. 1469 quater cod. civ.), sia dall’art. 34, comma 5 del citato codice e già dall’art. 1479 ter c.c., comma 5, che considerano tali ipotesi come eventuali e le elevano a presupposto della applicazione di ulteriori disposizioni di tutela del consumatore.

Il che è del resto conforme a quanto risulta in modo espresso da uno dei “considerando” che introducono alla direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati dal consumatore, dove è scritto che “il consumatore deve godere della medesima protezione nell’ambito di un contratto orale e di un contratto scritto”.

Inoltre la giurisprudenza della Corte ha ritenuto che sia “professionista” il prestatore d’opera intellettuale anche quando si è discusso e risolto negativamente il quesito se della tutela del consumatore possa egli fruire per contratti conclusi nel quadro della sua attività professionale (Cass. 5 giugno 2 007 n. 13083; 9 novembre 2006 n. 23892, quest’ultima con specifico riferimento alla professione di avvocato).

7.Ne consegue che, per effetto dell’applicabilità dell’art. 33 lett. u) d.lgs. n. 2 05/2 006, il foro alternativo speciale di cui all’art. 637, e. 3 c.p.c. opera solo nell’ipotesi in cui il cliente, tenuto alla prestazione del corrispettivo all’avvocato, sia una persona giuridica oppure – nell’ipotesi in cui il cliente sia una persona fisica – che esso non rivesta la qualità di consumatore e, quindi, che abbia richiesto la prestazione professionale all’avvocato per uno scopo estraneo alla sua attività imprenditoriale,commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta (l’art. 15 del Reg. CE 44/2001 utilizza il sintagma X1scopo estraneo all’attività”).

8.1-Si pone a questo punto la terza questione: Se, ai fini dell’individuazione del consumatore, con la locuzione “scopo estraneo all’attività professionale” ci si riferisca necessariamente ad “attività professionale” diversa da quella del lavoratore dipendente.

Secondo il ricorrente, infatti, poiché il Ma. gli aveva richiesto l’attività professionale di avvocato relativamente ad atti in merito all’orario di insegnamento, la prestazione richiesta non era estranea all’attività professionale di insegnante del Ma. , con la conseguenza che questi non era un consumatore, ma a sua volta un professionista, per cui non poteva invocare il foro del consumatore.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale italiano prevalente (Cass. S.U. n. 7444 del 20/03/2008) deve essere considerato consumatore e beneficia della disciplina di cui all’art. 1469 bis c.c. e segg., ed attualmente D.Lgs. n. 2006 del 2005, artt. 3 e 33 e segg., la persona fisica che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un qualche contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività; mentre deve essere considerato “professionista” tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che invece utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale e professionale, ricomprendendosi in tale nozione anche gli atti posti in essere per uno scopo connesso all’esercizio dell’impresa (cfr. anche Cass. 23/02/2007, n. 4208).

8.2.Non sono mancate critiche a tale orientamento, finalizzate ad un’interpretazione estensiva del concetto di consumatore, fondata sulla distinzione tra atti della professione e atti inerenti alla professione e con la tendenza ad escludere dall’ambito di applicazione della tutela dei consumatori solo quegli atti che presentino una pertinenza specifica con l’attività professionale svolta e non quelli in cui il collegamento sia riconducibile ad un rapporto di pertinenza generica, sul presupposto che in tali situazioni il soggetto vessato, pur agendo per finalità diverse dal puro consumo privato, è sostanzialmente un profano, sfornito di quelle competenze specifiche che possono farlo ritenere in posizione di parità con il contraente forte, con conseguente asimmetria informativa.

8.3. Sennonché non vi sono ragioni per discostarsi dall’orientamento già espresso da queste S.U. e sopra indicato. Va, anzi, osservato che la tesi è corroborata dalla definizione di consumatore fornita nell’ambito del commercio elettronico (art. 2, lett. e), D.lgs. 9.4.2003, n.70): questa normativa prevede che anche la mera riferibilità dell’atto all’attività professionale svolta dalla persona fisica impedisce che quest’ultima possa essere qualificata come consumatore.

8.4. Ne consegue che anche la persona fisica che abbia richiesto all’avvocato la sua prestazione professionale per una questione non estranea alla sua attività imprenditoriale o professionale, sia pure occasionale, non ha la qualità di consumatore e quindi non può beneficiare del foro di cui all’art. 33, c. 2 lett. u) d.lgs. n. 205/2006, mentre rimane soggetto al foro alternativo di cui all’art. 637, c. 3 c.p.c.

9.1. Sotto questo profilo non può essere condiviso l’argomento sotteso alla sentenza impugnata e fatto proprio dal resistente, secondo cui nella fattispecie il contratto di prestazione di opera professionale intervenuto tra l’avvocato ed il cliente non costituiva un atto finalizzato alla sua attività di professore di scuola pubblica statale, svolta dal cliente, per cui questi non era un consumatore.

Poiché nella fattispecie, invece, come emerge dalla sentenza impugnata, il mandato professionale era stato conferito, dall’opponente all’opposto per ottenere l’annullamento dal TAR del provvedimento di smembramento delle ore di insegnamento del Ma. , insegnante di topografia, costruzioni rurali e disegno presso istituti tecnici, tale prestazione difensiva richiesta, non era estranea all’attività del cliente, come rileva il ricorrente.

9.2.Osserva, quindi, questa Corte che se la questione della qualità di professionista (e quindi di non consumatore) dovesse essere impostata solo nei termini di inerenza della prestazione difensiva richiesta con l’attività svolta dall’opponente (cliente), nella fattispecie dovrebbe necessariamente concludersi che la prestazione richiesta all’avvocato non era “estranea” alla stessa, poiché atteneva espressamente a tale attività di insegnante del cliente.

Sennonché tale assunto si fonda su un presupposto errato e cioè che si possa predicare, ai fini che qui interessano, l’equazione tra “attività lavorativa” ed “attività professionale”.

Invece nella fattispecie la disciplina dei c.d. contratti del consumatore trova applicazione non perché manchi l’inerenza tra il contratto concluso con l’avvocato e l’attività lavorativa di insegnante del cliente, ma perché tale attività lavorativa, trattandosi di lavoro subordinato, non è qualificabile come “attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale”, come richiesto dalla legge e sostenuto dal ricorrente.

Solo se il soggetto persona fisica agisce per uno scopo relativo ad una di queste quattro “attività”, è esclusa la qualità di consumatore, subentrando invece la qualità di professionista. 10.1.Ritiene questa Corte che il rapporto di lavoro subordinato (sia privato che pubblico), contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non integri “attività professionale”, idonea (ai sensi dell’art. 3 d. lgs. n. 206/2005) a far ritenere sussistente la qualità di professionista e, per converso, escludere quella di consumatore.

Infatti anzitutto la disciplina relativa alla tutela del consumatore individua nel professionista un soggetto che opera direttamente sul mercato per un’attività imprenditoriale artigianale, commerciale o professionale, svolgendo su tale mercato un’attività economica, tendenzialmente nei confronti di tutti i soggetti che possono richiederla.

A fronte di tale attività vi è il consumatore, quale persona fisica, che, se non ha egli stesso in relazione a quel contratto la qualità di professionista, rappresenta la parte debole. Nel rapporto di lavoro subordinato, invece, il lavoratore non svolge sul mercato la propria attività economica, ma effettua la sua prestazione lavorativa esclusivamente con l’inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa del datore di lavoro (Cass. civ., Sez. lavoro, 14/09/2009, n. 19770), e solo l’attività di quest’ ultimo è un’attività imprenditoriale, commerciale o artigianale o professionale (e non quella dei soggetti che all’interno svolgono per lui l’attività lavorativa dipendente).

Peraltro sarebbe ben strano che il lavoratore dipendente, all’interno del rapporto di lavoro, sia considerato la parte debole (Cass. 12/02/2004, n. 2734), mentre quando poi “agisce nell’esercizio della propria attività”, ai fini del codice del consumo sia considerato un “professionista”, parte forte. Ulteriori elementi per escludere che nel concetto di “attività professionale” rientri anche l’attività lavorativa conseguente a rapporto di lavoro emergono dal decimo “considerando” alla direttiva 93/13/CEE, che ai contratti di lavoro ha attribuito una propria autonomia.

10.2.In definitiva con il sintagma “attività professionale”, di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 206/2005, come modificato dal D.Lgs. 23 ottobre 20 07, n. 221, ai fini della qualificazione del soggetto – persona fisica – come professionista, deve intendersi solo l’attività consistente nella prestazione autonoma d’opera professionale intellettuale (oltre all’attività imprenditoriale, commerciale ed artigianale, espressamente previste dalla norma), con esclusione quindi dell’attività di lavoro dipendente, sia pubblico che privato.

11. Nella fattispecie, poiché si versa in ipotesi di un contratto d’opera professionale intellettuale tra l’avvocato opposto ed il consumatore opponente, trova applicazione il foro esclusivo di quest’ultimo, a norma dell’art. 33, c. 2, lett. u) del d.lgs. 6.9.2005, n. 206, e non il foro di cui all’art. 637, c. 3, c.p.c. Quindi va affermata la competenza territoriale del tribunale di Larino, come correttamente statuito dalla sentenza impugnata. Stante la novità della questione in questa sede di legittimità ed il contrasto nella giurisprudenza di merito, esistono giusti motivi per compensare le spese di questo regolamento.

P.Q.M.

Dichiara la competenza per territorio del tribunale di Larino. Compensa tra le parti le spese di questo regolamento.

(Altalex, 29 giugno 2011)

RASSEGNA FEDERPROPRIETA.IT

Corte di Cassazione Sezione 3 civile
Sentenza 08.03.2007, n. 5328

Massima

Locazione – Disciplina delle locazioni di immobili urbani (L.27.7.1978 N. 392) – Immobili adibiti ad uso non abitativo – Durata – Recesso del conduttore – Gravi motivi – Natura – Necessità relative all’andamento dell’attività aziendale – Rilevanza – Sussistenza – Condizioni – Fattispecie.
 
I gravi motivi, in presenza dei quali l’art. 27 ultimo comma, della legge n. 392 del 1978, indipendentemente dalle previsioni contrattuali, consente il recesso del conduttore dal contratto di locazione, non possono attenere alla soggettiva ed unilaterale valutazione effettuata dallo stesso conduttore in ordine all’opportunità o meno di continuare ad occupare l’immobile locato, poiché, in tal caso, si ipotizzerebbe la sussistenza di un recesso “ad nutum”, contrario all’interpretazione letterale, oltre che allo spirito della suddetta norma. Al contrario, i gravi motivi, che legittimano il recesso del conduttore da una locazione non abitativa, devono sostanziarsi in fatti involontari, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto ed, inoltre, devono essere tali da rendere oltremodo gravosa per lo stesso conduttore, sotto il profilo economico, la prosecuzione del rapporto locativo. (Nella specie, la S.C., alla stregua dell’enunciato principio, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata con la quale era stata dichiarata la legittimità del recesso, operato da una società conduttrice, malgrado la dedotta eccessiva onerosità nel proseguimento della locazione non attenesse a fattori oggettivamente imprevedibili e sopravvenuti alla relativa costituzione del rapporto, bensì ad una scelta, peraltro di mera convenienza della stessa locataria, di trasformare, e non di ampliare, l’attività contrattualmente prevista, venendo ad incidere, perciò, sui termini e sulle obbligazioni, anche future, consacrate nel modulo negoziale intercorso tra le parti).
Corte di Cassazione Sezione 3 civile
Sentenza 15.01.2007, n. 638

Massima

Locazione (contratto di) – Disciplina delle locazioni immobili urbani (L. 27.7.1978, N. 392) – Immobili adibiti ad uso abitativo – Equo canone – Determinazione – Superficie – Posto macchina – Rapporto pertinenziale con l’appartamento adibito ad uso abitativo – Presunzione “iuris tantum” – Condizioni – Disciplina.
 
Nella locazione di immobili urbani con destinazione abitativa ai sensi della legge 392 del 1978 dalla situazione fattuale contrassegnata dall’ubicazione dell’appartamento nel medesimo edificio dell’autorimessa o del posto macchina, dall’appartenenza di entrambi allo stesso proprietario e dalla loro locazione al medesimo conduttore con destinazione alle esigenze delle persone che alloggiano nell’appartamento, deriva una presunzione semplice di rapporto pertinenziale, valevole ad estendere all’autorimessa o al posto macchina le disposizioni della legge sull’equo canone ed a rendere applicabile il metodo di calcolo di cui all’art. 13 della legge 27 luglio 1978, n. 392, per cui non è idonea di per sé ad escludere il vincolo pertinenziale la circostanza che l’autorimessa venga locata quando l’appartamento è già dotato di altro posto macchina.
Corte di Cassazione Sezione 3 civile
Sentenza 09.11.2006, n. 23914

Massima

 
Locazione – Disciplina delle locazioni di immobili urbani (L.27.7.1978 n.392) – Immobili ad uso diverso da quello di abitazione – Diritti ed obblighi delle parti – Sublocazione – Responsabilità del cedente – Subordinazione all’inadempimento del cessionario – Conseguenza – Sua natura eventuale e sussidiaria – Solidarietà tra cedente e cessionario in ordine alle obbligazioni contrattualmente assunte dal primo nei riguardi del locatore – Configurabilità – Effetto – Efficacia dell’atto interruttivo posto in essere nei confronti del cessionario anche verso il cedente – Fondamento.
 
L’obbligazione del cedente del contratto di locazione di pagare il canone dovuto al locatore dal cessionario e da questi non corrisposto, quale prevista dall’ art. 36 della legge n. 392 del 1978 ancorché avente natura eventuale e sussidiaria perché subordinata all’inadempimento del cessionario, integra un’ipotesi di solidarietà, con la conseguenza che, trovando applicazione l’ art. 1310 cod. civ., gli atti con i quali il locatore abbia interrotto la prescrizione nei confronti del cessionario producono effetto anche verso il cedente.

Cass. civile, sez. III, 06-03-2006, n. 4800 – Pres. Giuliano A – Rel. Preden R – P.M. Scardaccione EV (Conf.) – Mbc Italy Spa c. Reale Coll. Maggiore Albornoziano ed altri
 
LOCAZIONE – DISCIPLINA DELLE LOCAZIONI DI IMMOBILI URBANI (LEGGE 27 LUGLIO 1978 N. 392, COSIDDETTA SULL’EQUO CANONE) – IMMOBILI ADIBITI AD USO DIVERSO DA QUELLO DI ABITAZIONE – DIRITTI ED OBBLIGHI DELLE PARTI – SUBLOCAZIONE E CESSIONE DELLA LOCAZIONE – IN GENERE – Art. 36 della legge n. 392 del 1978 – Disciplina – Estensione alle cessioni o locazioni di una sola parte dell’immobile comunque collegate alle cessione o locazione dell’azienda o di un suo ramo – Ammissibilità – Applicabilità al caso di cessione di un “punto vendita” di un’unica azienda – Esclusione – Valutazione relativa all’individuazione del tipo di cessione – Rimessione al giudice del merito – Incensurabilità in sede di legittimità – Limiti.
 
L’art. 36 della legge 27 luglio 1978, n. 392, che consente al conduttore di sublocare l’immobile o cedere il contratto di locazione anche senza il consenso del locatore se insieme venga locata o ceduta l’azienda, si riferisce anche alle cessioni o locazioni di una sola parte dell’immobile comunque collegate alla cessione o locazione dell’azienda o di un suo ramo e, perciò, capaci di attuare l’interesse alla conservazione dell’azienda; diversamente, mancando il perseguimento di quest’ultima funzione, la predetta norma non si applica nel caso di cessione di un “punto di vendita” di un’unica azienda, ove nell’immobile ceduto sia stata esercitata la vendita di articoli che il cedente continui ad effettuare in altro locale. La valutazione circa la sussistenza dell’autonomia organizzativa dell’attività svolta in un locale rispetto a quella esercitata in altro locale e delle altre conferenti circostanze idonee in funzione della configurabilità o meno della cessione di un “ramo di azienda” (anzichè di un “punto vendita” di un’unica azienda) involge apprezzamenti di fatto rimessi al giudice del merito che, ove adeguatamente motivati, rimangono incensurabili in sede di legittimità.
 
Cass. civile, sez. III, 21-02-2006, n. 3683 – Pres. Nicastro G – Rel. Trifone F – P.M. Marinelli V (Conf.) – Trenta Denari Srl c. Raspagliesi
 
LOCAZIONE – DISCIPLINA DELLE LOCAZIONI DI IMMOBILI URBANI (LEGGE 27 LUGLIO 1978 N. 392, COSIDDETTA SULL’EQUO CANONE) – USO DIVERSO DA QUELLO PATTUITO – Ambito di applicazione – Uso effettivo difforme da quello pattuito con il locatore – Conseguente azione di risoluzione – Termine perentorio per il suo esercizio – Decorrenza – Individuazione – Avvenuta conoscenza effettiva, da parte del locatore, del concreto mutamento di destinazione d’uso dell’immobile locato – Necessità – Fondamento.
 
La diversa destinazione dell’immobile – cui fa riferimento l’art. 80 della legge n. 392 del 1978, dalla quale discende il fenomeno della potenziale mobilità del rapporto nell’inerzia del locatore e dalla cui conoscenza decorre per il locatore il termine di tre mesi per far valere la risoluzione del contratto – è quella che si realizza in concreto con l’effettivo diverso uso della cosa locata, sicchè è solo da tale momento che inizia a decorrere il suddetto termine perentorio per chiedere la risoluzione del contratto, non potendo venire in rilievo, a tal fine, una situazione di semplice conoscenza della sola intenzione del conduttore. Tale interpretazione è conforme all’impianto complessivo della suddetta norma che, come è argomentabile anche sulla scorta della sentenza n. 228 del 1990 della Corte costituzionale, in difetto di strumenti di conoscenza legale dello stato di fatto integrante il mutamento, di questo esige l’effettiva conoscenza da parte del locatore, conoscenza che si configura necessariamente in rapporto ad una situazione concreta ed attuale di uso diverso, e non ad un progetto di mutamento di destinazione, che il conduttore potrebbe anche non attuare.
 
Cass. civile, sez. III, 21-02-2006, n. 3684 – Pres. Nicastro G – Rel. Trifone F – P.M. Marinelli V (Conf.) – Fintur Spa c. La Spisa
 
LOCAZIONE – DISCIPLINA DELLE LOCAZIONI DI IMMOBILI URBANI (LEGGE 27 LUGLIO 1978 N. 392, COSIDDETTA SULL’EQUO CANONE) – IMMOBILI ADIBITI AD USO DIVERSO DA QUELLO DI ABITAZIONE – DURATA – LOCAZIONI STAGIONALI – Natura – Scadenza stagionale – Rinnovo annuale della locazione, “ad nutum” del conduttore, per l’uguale successivo periodo stagionale – Limiti – Obbligo del conduttore di rilasciare il bene alla scadenza stagionale – Sussistenza.
 
La locazione stagionale non può configurarsi, alla stregua del dato letterale della disposizione dell’art. 27, sesto comma, della legge n. 392 del 1978, come un rapporto unitario (che, perfezionatosi al momento dell’originaria stipulazione, ha durata identica a quella degli altri tipi di contratto concernenti immobili non abitativi previsti dallo stesso art. 27, restando sottoposto alla condizione risolutiva della mancata richiesta del conduttore), ma, stante l’obbligo di locare posto a carico del locatore, realizza una serie di rapporti, distinti ancorchè collegati, avendo il legislatore assunto come presupposto la normale scadenza del contratto al termine della stagione e la sua annuale rinnovabilità, “ad nutum” del conduttore, per un arco di tempo prestabilito nella misura massima. Pertanto, costituisce regola di diritto conseguente che, alla scadenza stagionale, sorge l’obbligo per il conduttore di rilasciare il bene locato.
 
Cass. civile, sez. III, 31-01-2006, n. 2135 – Pres. Varrone M – Rel. Fico N – P.M. Golia A (Conf.) – Deledda c. Ferraris
 
LOCAZIONE – DISCIPLINA DELLE LOCAZIONI DI IMMOBILI URBANI (LEGGE 27 LUGLIO 1978 N. 392, COSIDDETTA SULL’EQUO CANONE) – IMMOBILI ADIBITI AD USO DI ABITAZIONE – EQUO CANONE – DETERMINAZIONE – AGGIORNAMENTO
– Inclusione della integrazione per riparazioni straordinarie – Determinazione del periodo di riferimento – Criteri – Fattispecie.
 
In tema di aggiornamento del canone di locazione di immobile condotto per uso di abitazione previsto dall’art.24 della legge 27 luglio 1978 n.392, il cosiddetto canone locativo base (o di partenza) da aggiornarsi è quello risultante anche dalla integrazione prevista dall’articolo 23 della stessa legge, pari cioè all’interesse legale sul capitale impiegato nelle opere e nei lavori effettuati sull’immobile locato per riparazioni straordinarie, indipendentemente sia dalla data di esecuzione delle dette opere che dalla data di decorrenza dell’aumento per la realizzazione delle medesime. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva calcolato l’aggiornamento ricomprendendovi l’integrazione di cui all’art. 23 cit. in ragione della esecuzione, nell’anno 1990, di opere di straordinaria manutenzione, respingendo la pretesa del conduttore secondo cui detta integrazione, in quanto relativa a lavori eseguiti nel 1990, doveva essere separatamente aggiornata a partire dal 1991, anno successivo alla realizzazione degli stessi).

Cass. civile, sez. III, 26-01-2006, n. 1695 – Pres. Fiduccia G – Rel. Talevi A – P.M. Fedeli M (Conf.) – Chiono c. Cascella
 
LOCAZIONE – DISCIPLINA DELLE LOCAZIONI DI IMMOBILI URBANI (LEGGE 27 LUGLIO 1978 N. 392, COSIDDETTA SULL’EQUO CANONE) – IMMOBILI ADIBITI AD USO DI ABITAZIONE – EQUO CANONE – DETERMINAZIONE – IN GENERE – Patti in deroga ai sensi della legge n. 359/1992 – Validità – Condizioni – Richiesta di certificazione di abitabilità – Necessità – Conseguenze.
 
In materia di locazioni abitative, la pattuizione del canone in deroga a quello stabilito dalla legge 27 luglio 1978 n. 392, prevista dall’art. 11 della legge 8 agosto 1992 n. 359, secondo il quale la deroga si applica ai contratti di locazione stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del d.l. n. 333 del 1992, aventi per oggetto immobili per i quali, alla predetta data, non sia stata presentata dichiarazione di ultimazione lavori e semprechè alla data del contratto sia stata richiesta la certificazione di abitabilità e presentata domanda per l’accatastamento, è valida a condizione che siano rispettate le condizioni tassativamente e rigorosamente fissate da detta norma. Ne consegue che la normativa in deroga non è applicabile qualora la domanda di certificazione di abitabilità sia stata richiesta circa un anno dopo la stipula del contratto, dovendosi escludere che detta previsione sia indirizzata ai soli fini fiscali.
Cass. civile, sez. III, 18-01-2006, n. 821 – Pres. Giuliano A – Rel. Sabatini F – P.M. Sgroi C (Conf.) – Giuliani c. Custodia Giudiziaria Immobili Pignorati
 
LOCAZIONE – OBBLIGAZIONI DEL CONDUTTORE – DANNI PER RITARDATA RESTITUZIONE – Quantificazione – Disciplina ex artt. 1 bis della legge n. 61 del 1989 e 6 della legge n. 431 del 1998 – Dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 6 della legge n. 431/98 – Conseguenze – Criteri attuali di quantificazione del danno.
 
In tema di locazione di immobili urbani, a seguito della dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 6, comma sesto, della legge n. 431 del 1998 (che, in quanto destinata ad agevolare la transizione verso il regime pattizio delle locazioni, ha efficacia retroattiva ed è immediatamente applicabile ai giudizi in corso), per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 482 del 9 novembre 2000 che ha ritenuto illegittima la suddetta disposizione nella parte in cui esimeva il conduttore dall’obbligo di risarcire il maggior danno, ai sensi dell’art. 1591 cod. civ., anche nel periodo successivo alla scadenza del termine di sospensione dell’esecuzione stabilito “ope legis” o di quello giudizialmente fissato per il rilascio, sussiste l’obbligo del conduttore, durante i periodi di sospensione dell’esecuzione degli sfratti, di corrispondere la somma di cui all’art. 1 bis della legge n. 61 del 1989, e non altra diversa, per tutto il periodo effettivo di sospensione, e, dunque, fino all’effettivo rilascio, e non soltanto limitatamente al periodo di sospensione legalmente previsto, a prescindere dall’eventuale maggior danno sofferto dal locatore ai sensi dell’art. 1591 cod. civ., che è dovuto, per il periodo intercorrente tra la scadenza della sospensione “ope legis” e la data del reale rilascio, solo nel caso in cui il locatore ne abbia offerto prova.

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Cassazione n. 18648, – 5 dicembre 2003 Sez. III
LOCAZIONE – Immobili adibiti ad uso non abitativo – Prelazione e riscatto- Vendita di quota di proprietà – EsclusioneIn tema di locazione di immobili urbani ad uso non abitativo,. in caso di vendita a terzi della quota di proprietà comprendente l’immobile lo” cato non spetta al conduttore il diritto di prelazione e di riscatto di cui agli art. 38 e 39 l. n. 392 del 1978, mancando l’imprescindibile presupposto dell’identità dell’immobile locato con quello venduto.

Cassazione sez. III, 20 agosto 2003, n. 12220
Locazione – Obbligazioni del locatore – Garanzia per molestie – Intervento in causa – Infiltrazione d’acqua nell’immobile oggetto di locazione – Diritto al conduttore al risarcimento del danno nei confronti del terzo Sussistenza.

Si deve riconoscere in capo al conduttore il diritto alla tutela risarcitoria nei confronti del terzo che con il proprio comportamento gli arrechi danno nell’uso o nel godimento della res locata; in particolare, qualora a carico dell’appartamento locato si verifichi una infiltrazione d’acqua da un appartamento sovrastante, il conduttore, ex art. 1585, secondo comma, cod. civ., gode di una autonoma legittimazione per proporre l’azione di responsabilità nei confronti dell’autore del danno.

Cassazione sez. III, 20 agosto 2003, n. 12209
Locazione – Disciplina delle locazioni di immobili urbani (legge 27 luglio 1978, n. 392, cosiddetta sull’equo canone) – Immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione – Durata – Diniego di rinnovazione alla prima scadenza – Casi – Destinazione dell’immobile ad attività industriali, commerciali, artigianali, di interesse turistico, professionali – Locatore – Onere di provare la serietà della dedotta intenzione – Sussistenza – Onere di provare la effettiva realizzazione di detto intento – Esclusione. In tema di locazione di immobili per uso diverso da quello abitativo, il locatore che agisce per far valere la facoltà di diniego del rinnovo del contratto alla prima scadenza per il motivo indicato dall’art. 29, lett. b, legge 27 luglio 1978, n. 392, ha l’onere di provare la serietà della dedotta intenzione di adibire l’immobile all’esercizio, in proprio o da parte del coniuge o dei parenti entro il secondo grado in linea retta di una delle attività indicate dall’art. 27, e, quindi, la realizzabilità tecnica e giuridica, non anche la effettiva e concreta realizzazione, di quell’intento. (l. 27 luglio 1978 n. 392 art. 29)

Sentenza n. 185 Corte Costituzionale 23 maggio – 4 giugno 2003
Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale.Termini normativi della questione – Disposizioni cui va riferita la censura – Individuazione Beni culturali e ambientali – Studi di artista con riconosciuto valore storico artistico e vincolo di inamovibilit‡ – Contratti di locazione – Interdizione di provvedimento di rilascio – Illimitata continuazione del rapporto, con irragionevole compressione dei diritti del locatore – Illegittimit‡ costituzionale in parte qua. D.Leg. 29 ottobre 1999, n. 490, art. 52, comma 1.Costituzione artt. 2, 3 e 42.omissis

La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Roma in riferimento agli artt. 2, 3 e 42 della Costituzione ha ad oggetto líart. 52 del decreto legislativo 29 ottobre 1999 n. 490. (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali), a tenore del quale non sono soggetti ai provvedimenti di rilascio previsti dalla normativa vigente in materia di locazione di immobili urbani degli studi díartista il cui contenuto in opere, documenti, cimeli e simili Ë tutelato per il suo storico valore, da un provvedimento ministeriale che en prescrive líinamovibilit‡ da uno stabile del quale contestualmente si vieta la modificazione della destinazione díuso. omissis per questi motivi

La Corte Costituzionale Dichiara líillegittimità costituzionale dellíart. 52, comma 1, del decreto legislativo 29/10/1999 n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali) nella parte in cui prevede che non sono soggetti a provvedimenti di rilascio gli studi díartista ivi contemplati.CosÏ deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 maggio 2003.Il Presidente: CHIEPPA Il redattore: CONTRIIl Cancelliere DI PAOLA Depositata in cancelleria il 4 giugno 2003.

Cassazione n. 6433 del 23/4/2003 sez. III
Oneri accessori – Prescrizione del credito – termine biennale di cui allíart. 6 della legge n. 841 del 1973 – Applicabilità. (legge 22/12/1973 n. 841, art. 6; legge 27/7/1978 n. 392 art. 6) Anche nel vigore della legge sullíequo canone nei contratti di locazione di immobili urbani il diritto al pagamento degli oneri accessori della locazione si prescrive nel termine di due anni, indicato dallíultimo comma dellíart. 6 della legge 22/12/1973 n. 841 (M. Fin.)

Cassazione n. 6433 del 23/4/2003 sez. III
Oneri accessori – Prescrizione del credito – termine biennale – diverso termine per il pagamento dei canoni – questione di legittimità costituzionale – manifesta infondatezza. (Costituzione, art. 3; legge 22/12/1973 n. 841, art. 6 della legge 27/7/1978 n. 392) In riferimento allíart. 3 della Costituzione Ë manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dellíart. 6, legge 22/12/1973 n. 841, che prevede, quanto al pagamento degli oneri accessori della locazione di immobili urbani un termine biennale e, quindi, diverso da quello previsto per il pagamento dei canoni, atteso che nonostante la sostanziale analogia delle due voci la ratio della diversità di disciplina Ë costituita dallíesigenza della rapida definizione delle contestazioni relative a un rapporto accessorio, quali le spese condominiali, per cui la disparità di trattamento si giustifica per la diversa natura dei due esborsi. (M. Fin.)

Cassazione n. 6433 del 23/4/2003 sez. III
Oneri accessori – Prescrizione del credito – Termine – decorrenza – dalla approvazione del consuntivo – in caso di edificio appartenente a un unico proprietario – esclusione. (legge 22/12/1973 n. 841 art. 6; legge 27/7/1978 n. 392, art.6) Il principio in forza del quale il termine di prescrizione del diritto a pretendere il pagamento degli oneri accessori connessi alla locazione decorre dalla approvazione del consuntivo è riferibile esclusivamente nell’ipotesi sussista una pluralità di condomini (che devono, in apposita assemblea, approvare il consuntivo stesso) e non anche nell’eventualità di edificio appartenete a un unico proprietario, perchè in tale evenienza il diritto al conguaglio Ë subordinato a uní approvazione cui debbano necessariamente concorrere terzi. In questa ultima eventualità, pertanto, il diritto a pretendere il conguaglio può essere esercitato alla fine dellíesercizio in cui il proprietario singolo ha la possibilità di elaborare il consuntivo e di accertare se le spese effettuate per gli immobili locati superino o meno gli acconti periodicamente accertati. (M. Fin.)

Cassazione n. 5576, Sez. III, del 9-4-2003
Locazione – Variazioni della misura del canone e modificazione del termine di scadenza – Indici di per sè di una novazione della locazione -Esclusione – Ragioni Le sole variazioni di misura del canone e la modificazione del termine di scadenza non sono di per sè indice di una novazione di un rapporto di locazione, trattandosi di modificazioni accessorie della correlativa obbligazione o di modalità non rilevanti ai fini della configurabilità di una novazione. La novazione oggettiva del rapporto obbligatorio postula, infatti, il mutamento dell’oggetto o del titolo della prestazione, ex art. 1230 cod. civ., mentre non Ë ricollegabile alle mere modificazioni accessorie, ai sensi dell’art. 1231 cod. civ. Essa, inoltre, deve essere connotata non solo dall’aliquid novi, ma anche dagli elementi dell’animus novandi (inteso come manifestazione inequivoca dell’intento novativo) e della causa novandi (intesa come interesse comune delle parti all’effetto novativo)

Cass. civ., Sez.III, 06/11/2002, n.15558
LOCAZIONE DI COSE – Godimento ed utilizzazione del bene locato: (obblighi del locatore)La mancanza del provvedimento amministrativo, necessario per la legale destinazione della cosa locata all’uso pattuito, rientra tra i vizi che, escludendo o diminuendo in modo apprezzabile l’idoneità della cosa stessa all’uso pattuito, possono giustificare la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1578 c.c., a meno che risulti che il conduttore, a conoscenza (al momento in cui al contratto viene data attuazione, sicchË non rileva una conoscenza successiva alla consegna della cosa) della inidoneit‡ dell’immobile a realizzare il suo interesse, ne abbia accettato il rischio economico della impossibilità di utilizzazione.

Cass. civ., Sez.III, 04/11/2002, n.15388
Contratto di Locazione – Clausole – Riparazioni straordinariee – Obbligo posto a carico del conduttore. Tenuto conto che in tema di locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo, non trova applicazione l’art. 23 legge n. 392 del 1978, che disciplina le riparazioni straordinarie per gli immobili ad uso di abitazione, nè è stabilita la predeterminazione legale del limite massimo del canone non incorre nella sanzione di nullità sancita dall’art. 79 legge n. 392 del 1978 la pattuizione che pone a carico del conduttore la manutenzione ordinaria e straordinaria, relativa agli impianti e alle attrezzature particolari dell’immobile locato, lasciando invece a carico del locatore soltanto le riparazioni delle strutture murarie.

Cass. civ., Sez.III, 15/10/2002, n.14655
LOCAZIONE DI COSE – Canone aggiornamento – Richiesta del locatore – Forma In materia di locazione di immobili urbani ad uso diverso da abitazione, la richiesta di aggiornamento del canone ex art. 32 l. n. 392 del 1978 puÚ essere formulata, in mancanza della previsione di una forma determinata, anche verbalmente nonché implicitamente o per fatti concludenti.

Sentenza n. 741 – Cass. civile, sez. III, 23/1/2002
Mora ed altri inadempimenti La sanatoria della morosità ex art. 55 l. 27 luglio 1978 n. 392 costituisce rimedio non applicabile nella disciplina dei contratti aventi ad oggetto immobili destinati ad uso diverso da quello abitativo.

Sentenza n. 12743 – Cass. civile, sez. III, 18/10/2001
Mora ed altri inadempimenti Per espressa esclusione dell’art. 26, lett. a) l. 27 luglio 1978 n. 392 le norme contenute nel Capo I della stessa non si applicano alle locazioni per esigenze abitative di natura transitoria. Ne consegue che non Ë sanabile la morosità nel pagamento del canone per queste locazioni in quanto l’art. 55, che disciplina la concessione del termine di grazia a tal fine, Ë espressamente collegato alla valutazione legale della gravità dell’inadempimento nel pagamento dei canoni e degli oneri accessori, stabilita dall’art. 5, che non Ë applicabile, essendo collocato nel Capo I della legge n. 392 del 1978.

Sentenza n. 13420 – Cass. civile, sez. III, 29/10/2001
Prelazione e riscatto Il diritto di prelazione o di riscatto previsto dagli art. 38 e 39 l. 27 luglio 1978 n. 392, a favore del conduttore di immobile non abitativo presuppone l’identità dell’immobile locato con quello venduto e perciÚ non trova applicazione non soltanto nell’ipotesi di vendita in blocco dell’intero edificio nel quale sia compresa l’unità immobiliare locata, ma anche nel caso di vendita di beni astrattamente suscettibili di alienazione separata e tuttavia considerati dalle parti del contratto di compravendita come un unico oggetto, dotato come tale di una propria identit‡ funzionale e strutturale. Detto accertamento Ë di competenza del giudice del merito ed Ë insindacabile in sede di legittimità se condotto con logica valutazione degli elementi emergenti dagli atti.

Sentenza 24 settembre ñ 5 ottobre 2001 n. 333 – Corte Costituzionale

IMPORTANTE SENTENZA SULL’ESECUZIONE DEGLI SFRATTI

1. Rilascio dell’immobile – Messo in esecuzione dei provvedimento – Condizioni – Dimostrazione degli adempimenti fiscali ex articolo 7 della legge 431/1998 ñ Illegittimit‡ costituzionale. (Costituzione, articolo 24 o legge 9 dicembre 1998 n. 431, articolo 7.

E’ in contrasto con l’articolo 24, primo comma, della Costituzione ed è, quindi costituzionalmente illegittimo, l’articolo 7 della legge 9 dicembre 1998 n. 431 che prevede quale condizioni per la messa in esecuzione dei provvedimento di rilascio dell’immobile locato a uso abitativo la dimostrazione che il contratto di locazione è stato registrato, che l’immobile è stato denunciato ai fini dell’applicazione dell’ICI e che il reddito derivante dall’immobile medesimo E’ stato dichiarato ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi.

Testo delle decisioni omissis punti 1), 2), 3).

4. Passando all’esame dei profilo di merito deve affermarsi la fondatezza della questione sollevata dal Tribunale di Firenze

5. Il problema della compatibilit‡ tra il principio costituzionale che garantisce a tutti la tutela giurisdizionale, anche nella fase esecutiva, dei propri diritti e le norme che impongono determinati oneri a chi quella tutela richieda non Ë nuovo nella giurisprudenza di questa Corte ed Ë stato risolto pur se con qualche incertezza, nel senso di distinguere fra oneri imposti allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione ed alle sue esigenze ed oneri tendenti, invece, al soddisfacimento di interessi dei tutto estranei alle finalità processuali. Mentre i primi, si Ë detto, sono consentiti in quanto strumento di quella stessa tutela giurisdizionale che si tratta di garantire, i secondi si traducono in una preclusione o in un ostacolo all’e- sperimento della tutela giurisdizionale e comportano, perciÚ, la violazione dell’art. 24 Cost. (sentenza n. 113 dei 1963). Quel che si tratta allora di stabili- re, ai fini della soluzione dei presente dubbio di costituzionalità, Ë l’appartenenza dell’onere imposto al locatore, a pena di improcedibilità dell’azione esecutiva, all’una o all’altra delle categorie precedentemente individuate. Ed Ë indubbio che l’onere sud- detto, avendo ad oggetto la dimostrazione da parte dei locatore di aver assolto taluni obblighi fiscali (e precisamente la registrazione dei contratto di locazione dell’immobile, la denuncia dell’immobile locato ai fini dell’applicazione dell’ICI ed il pagamento della relativa imposta nell’anno precedente, la dichiarazione dei reddito dell’immobile locato ai fini dell’imposta sui redditi), sia imposto esclusivamente a fini di controllo fiscale e risulti, pertanto, privo di qualsivoglia connessione con il processo esecutivo e con gli interessi che lo stesso Ë diretto a realizzare. Sotto tale aspetto, occorre, infatti, rilevare che, mentre l’ICI È una imposta di carattere reale posta a carico di un soggetto – il proprietario o il titolare di altro diritto reale di godimento – non sempre coincidente con il locatore esecutante, il quale agisce a tutela di un diritto di natura obbligatoria derivante dal contratto di locazione, l’imposta sui redditi si riferisce ad un diritto – quello relativo alla percezione dei canoni – che, seppur derivante dal medesimo contratto di locazione, Ë tuttavia ben distinto dal diritto alla restituzione dell’immobile locato, azionato nella esecuzione per rilascio, ed infine, la stessa registrazione dei contratto di locazione rappresenta un adempimento di carattere fiscale dei tutto estraneo alle esigenze di un processo diretto a porre in esecuzione un titolo giudiziale.

6. E’ del resto significativo che la norma impugnata si ponga in singolare dissonanza con la tendenza, presente in tutta la legislazione vigente, diretta ad eliminare, come recita l’art. 7, numero 7, della legge 9 ottobre 1971, n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria), ” ogni impedimento fiscale al diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. Possono in proposito richiamarsi – come espressive di tale tendenza – dai commentatori ritenuta ispirata al principio di cui all’art. 24 Cost. – le disposizioni relative tanto alla normativa di bollo che a quella di registro che hanno abrogato tutte le precedenti norme preclusive alla produzione in giudizio di atti e documenti fiscalmente irregolari. E nello stesso indirizzo, si inserisce la disciplina dettata dal vigente testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni l‡ dove non estende a giudici ed arbitri il divieto di compiere atti relativi a trasferimenti per causa di morte, in difetto di prova dell’avvenuta dichiarazione della successione, ma pone soltanto l’obbligo di comunicare all’ufficio dei registro competente le notizie; relative a trasferimenti per causa di morte, apprese in base agli atti dei processo.

7. Conclusivamente, va affermato che l’impedimento di carattere fiscale alla tutela giurisdizionale dei diritti, introdotto dalla norma denunciata, si pone in contrasto con l’art. 24, primo comma, della Costituzione e comporta la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma stessa.

Per questi motivi La Corte Costituzionale riuniti i giudizi,

a. dichiara l’illegittimità dellíart. 7 della legge 9 dicembre 1998 n. 431(disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo);b. dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dellíart. 7 della legge 9 dicembre 1998, n. 431 (disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo), sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Nocera Inferiore con líordinanza in epigrafe.

Sentenza n. 4472 ñ Sez. III 28 marzo 2001
CORTE DI CASSAZIONE
Legge sull’equo canone – Ambito di applicazione – Esigenze abitative di natura transitoria – Simulazione – Deduzione da parte dei conduttore svolgente azione per la ripetizione delle norme eccedenti l’equo canone -Onere probatorio – Oggetto. Legge sull’equo canone – Ambito di applicazione – Esigenze abitative di natura transitoria -Rinnovazione tacita dei contratto – Compatibilità.

Qualora un contratto di locazione abitativo sia stato stipulato per uso transitorio, il conduttore che assuma la nullità ex art. 79 della legge 27 luglio 1978, n. 392, di tale clausola per inesistenza in concreto della dedotta natura transitoria delle esigenze abitative e chieda, pertanto, la ripetizione delle somme eccedenti l’equo canone, deve dimostrare che il locatore era a conoscenza delle sue reali esigenze abitative al momento della conclusione del contratto in base all’obiettiva situazione di fatto, non potendo rilevare contro il locatore nÈ le situazioni di fatto occultate dal conduttore, nÈ la sua riserva mentale di non accettare tale clausola. (L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 1; L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 26; L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 79) (1).

Il contratto di locazione di immobili adibiti ad uso abitativo per il soddisfacimento di esigenze transitorie non puÚ ritenersi incompatibile con l’istituto della rinnovazione tacita ex art. 1597 cc., se dalle circostanze di fatto non risulti, tra le parti, una volontà novativa rispetto all’originaria convenzione negoziale, con relativa modificazione della fattispecie legale tipica da locazione transitoria a locazione abitativa primaria. (L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 1 L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 26) (2).

(1) In senso conforme, v. Cass. 12 settembre 2000, n. 12019, in Arch. civ. 2001, 803; Cass. 13 gennaio 2000, n. 328, ivi 2000, 1282; Cass. 3 maggio 1999, n. .4377, ivi 2000, 376 e Cass. 29 aprile 1999, n. 4230, ivi 2000, 234.(2) Nello stesso senso, v. Cass. 7 luglio 1997, n. 6145, in questa Rivista 1997, 799.

Sentenza n. 4031 – Cass. civile, sez. III, 21/04/1998
Pres. Grossi M – Rel. Salluzzo V – P.M. Palmieri R (Con.) – De Vitis c. Leoni Locazione – obbligazioni del conduttore – corrispettivo (canone) – morosita’ – Termine di grazia (art. 55 legge 27 luglio 1978 n. 392) – Ambito di applicazione – Locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione – Inclusione. In tema di concessione di un termine per il pagamento dei canoni locatizi scaduti previsto dall’art. 55 della legge del 1978 n. 392, la mancanza di espresse limitazioni all’applicabilità di tale norma, nonchË di qualsivoglia incompatibilit‡ di ordine logico – concettuale tra la sanatoria della morosità, come da essa regolata, e le locazioni non abitative escludono una interpretazione riduttiva dell’isituto e comportano la sua applicabilità anche con riferimanto alla locazione d’immobile adibito ad uso diverso da quello di abitazione, stipulato successivamente all’entrata in vigore della richiamata legge.

Sentenza n. 2477 – Cass. civile, sez. III, 06/3/1998
Pres. Iannotta A – Rel. Varrone M – P.M. Golia A (Conf.) – Di Giovanni c. Celani Locazione – durata della locazione – in genere – spirare del termine – Immobili adibiti ad abitazione – Mancato accordo per la determinazione del canone dopo la prima scadenza successiva alla legge sui cosiddetti patti in deroga – Rifiuto di trattativa – Configurabilità – Proroga legale biennale – OperativitÚ – Fondamento. La ratio dell’art. 11, comma secondo bis, della legge 8 agosto 1992 n. 359, Ë ravvisabile nella finalità di assicurare un graduale passaggio, per gli immobili ad uso abitativo, dal regime dell’equo canone a quello dei patti in deroga, inducendo il locatore a proporre un canone accettabile, e il conduttore a valutare che, in caso di mancata adesione, il contratto, scaduto il biennio di proroga legale, Ë risolto. Ne consegue che la mancanza dell’accordo sulla determinazione del canone, alla prima scadenza successiva all’entrata in vigore della legge, per l’applicabilità, automatica e d’ufficio – salvo volontà contraria del conduttore – della proroga biennale del contratto, sussiste sia nel caso di mancato raggiungimento dell’accordo malgrado lo svolgimento di trattative con il locatore, sia nel caso di richiesta di questi di rilascio dell’immobile alla scadenza, con implicito rifiuto di qualsiasi trattativa.

Sentenza n. 2405 – Cass. civile, sez. III, 04/03/1998
Pres. Grossi M – Rel. Fancelli C – P.M. Carnevali A (Con.) – Siciliano c. Balduzzi Locazione (art. 36 l. 392/78) – opposizione del locatore – Cofigurabilità – “Beneficium excussionis” e corresponsabilità del cedente (art. 36 legge 392 del 1978) – Irrilevanza. E’ configurabile un grave motivo per l’opposizione del locatore alla cessione della locazione di un immobile, adibito ad uso diverso dall’abitazione, (art. 36 legge 27 luglio 1978 n. 392) nell’insolvibilità del cessionario, presunta per i protesti di titoli cambiari emessi da una società in nome collettivo – a ristretta base sociale, di natura familiare – di cui egli Ë socio, perchË l’autonomia patrimoniale e il “beneficium excussionis” (art. 2304 cod. civ.) costituiscono soltanto un sottile diaframma in sede recuperatoria, mentre, la corresponsabilit‡ del cedente, non liberato, non esclude l’inaffidabilità del cessionario.

Sentenza n. 1717 – Cass. civile, sez. III, 18/02/1998
Pres. Longo GE – Rel. De Aloysio U – P.M. Nardi D (Con.) – Taumac Srl c. Azionaria Casermaggi soc Locazione – disciplina delle locazioni di immobili urbani (legge 27 luglio 1978 n. 392, cosiddetta sull’equo canone) – disposizioni processuali – cotroversie relative alla determinazione, all’aggiornamento ed all’adeguamento del canone – morosita’ del conduttore – termine per il pagamento dei canoni scaduti (sanatoria) – Mancato integrale pagamento di canoni scaduti oltre interessi e spese nel termine concesso – Successiva udienza di rinvio – Emissione di ordinanza di convalida di sfratto – Legittimità – Nuova verifica della residua inadempienza – Necessit‡ – Esclusione. In tema di locazioni di immobili urbani, qualora il conduttore cui sia stato intimato lo sfratto per morosità nel pagamento del canone, ottenuta la concessione del termine di grazia previsto dagli artt. 5 e 55 legge 27 luglio 1978 n. 392, non provveda, nel ternime concesso, al pagamento integrale dei canoni scaduti con gli interessi e le spese processuali liquidate dal giudice in sede di concessione del termine, legittimamente viene emessa nella successiva udienza, alla quale la causa Ë stata rinviata, ordinanza di convalida di sfratto, senza necessità di una nuova verifica della residua inadempienza, trattandosi di termine perentorio, come risulta dall’ultimo comma dell’art. 55 citato.

Sentenza n. 269 – Cass. civile, sez. III, 14/01/1998
Pres. Iannotta A – Rel. De Aloysio U – P.M. Lugaro M (Con.) – Rolle ed altri c. Visca Locazione – disdetta – Successiva permanenza del conduttore e corresponsione del canone – Rinnovazione tacita del contratto – Esclusione – Occupazione di fatto – Sussistenza – Domanda di rilascio – Ammissibilità – Considerevolezza del lasso di tempo trascorso – Irrilevanza. Se il locatore ha comunicato al conduttore la disdetta (art. 1596 cod. civ.), anche se per un considerevole lasso di tempo – nella specie oltre quattro anni, in relazione ad un immobile adibito ad uso abitativo – non ha agito in giudizio per il rilascio, ed ha continuato a percepire i canoni di locazione, non perciÚ il contratto si Ë rinnovato (art. 1597, ultimo comma, cod. civ.), mancando una volontà contraria a quella manifestata, si che la permanenza del conduttore costituisce occupazione di fatto.

Cass. civ., Sez.III, 17/11/1997, n.11388
LOCAZIONE DI COSE – Oneri accessori In tema di locazione di immobili, qualora un servizio condominiale (nella specie, servizio di pulizia) venga prestato in maniera inadeguata, il conduttore dell’appartamento sito nello stabile al quale detto servizio si riferisce puÚ eccepire nei confronti del proprietario – locatore la sua inadempienza e chiedere giudizialmente di essere esonerato dal pagamento delle relative spese.

Sentenza n. 9543 – Cass. civile, sez. III, 04/11/1996
Pres. Longo GE – Rel. Giuliano A – P.M. Gambardella V (Con.) – Danti e altri Locazione – obbligazioni del conduttore – corrispettivo (canone) – in genere – Locazioni di immobili urbani – Canone convenzionale superiore a quello stabilito per legge – Deduzione da parte del conduttore – Autoriduzione – Inadempimento grave – Configurabilità – Condizioni. In tema di locazione di immobili urbani la cosiddetta autoriduzione del canone e cioË il suo pagamento in misura inferiore a quella convenzionalmente stabilita, in relazione alla dedotta esorbitanza di tale ultima misura rispetto all’importo inderogabilmente fissato dalla legge, costituisce un fatto arbitrario ed illegittimo del conduttore. Tale autoriduzione integra un inadempimento grave secondo la valutazione fattane dal legislatore con l’art. 2 D.L. 30 dicembre 1988 n. 551 convertito in legge 21 febbraio 1989 n. 61, quando l’importo complessivo non pagato superi, anche se riferito agli oneri accessori, quello di due mensilità di affitto.

Cass. civ., Sez.III, 02/07/1991, n.7257
LOCAZIONE DI COSE – Oneri accessori Ove il servizio di portierato non venga svolto dal relativo incaricato in maniera conforme alle prescrizioni e con la diligenza dovuta, il conduttore di un appartamento sito nell’edificio cui quel servizio si riferisce, può eccepire, nei confronti del proprietario locatore, la sua inadempienza in relazione a quel servizio e chiedere giudizialmente di essere esonerato dal pagamento delle relative spese.

Corte di Appello Civile di Milano sez. III 20/7/1999 n. 1974 Passo Carraio In tema di passo carraio, rientra tra gli oneri accessori gravanti sul conduttore il rimborso al proprietario, formale intestatario dellíaccesso, in quanto da questíultimo sborsato per la tassa di occupazione del suolo pubblico, strettamente collegata allíeffettivo pieno godimento della cosa locata.

http://www.federproprieta.it/index.php?section=sentenze&subsection=locazioni

LOCAZIONI

 

Nuovo stop da parte dei giudici tributari alle cartelle esattoriali

 

Nuovo stop da parte dei giudici tributari alle cartelle esattoriali spedite per posta e senza l’intermediazione di un agente notificatore.

Ciò è quanto emerge da alcune recenti sentenze della Commissione Tributaria Provinciale di Lecce e della Commissione Tributaria Regionale di Milano (Sent. CTP di Lecce n. 436/02/10 e Sent. CTR di Milano n. 61/22/10), secondo le quali risulta addirittura “inesistente” la notifica della cartella inviata a mezzo posta direttamente dai dipendenti di Equitalia e senza l’ausilio dei soggetti puntualmente individuati dalla legge (art. 26, comma 1, DPR n. 602/73), ossia:

  1. gli Ufficiali della riscossione;
  2. gli Agenti della Polizia Municipale;
  3. i Messi Comunali, previa convenzione tra Comune e Concessionario;
  4. altri soggetti abilitati dal Concessionario nelle forme previste dalla legge.

D’altronde, secondo i giudici della Commissione Tributaria Regionale di Milano “Lo scopo della notifica dell’atto ha natura sostanziale e non processuale e viene raggiunto solo con la materiale e regolare notifica dell’atto nel domicilio fiscale o reale del contribuente…

Viene ritenuta, dunque, sempre fondamentale la compilazione della relata di notifica da parte dell’agente notificatore, anche in caso di notifica a mezzo posta.

Proprio in merito a ciò, i Giudici di Milano chiariscono che “La relata di notifica è prevista come momento fondamentale nell’ambito del procedimento di notificazione … e non è integralmente surrogabile dall’attività dell’ufficiale postale, sicchè la sua mancanza … non può essere ritenuta una mera irregolarità”.

Infatti, continuano i Giudici “La mancata compilazione della relata determina … non la semplice nullità della notifica, bensì la giuridica inesistenza della stessa, patologia non sanabile in senso assoluto”.

La Commissione, infine, conclude rifiutando l’ipotesi del Concessionario di sanatoria dell’atto per raggiungimento dello scopo (un po’ come dire, anche se la cartella è stata inviata illegittimamente alla fine tutto si è sanato), in quanto si chiarisce che ciò non vale per gli atti giuridicamente inesistenti – come in questo caso – ma al massimo per quelli nulli.

Alla luce di quanto illustrato, dunque, appare irrinunciabile per Equitalia il rispetto della seguente procedura per poter effettuare la notifica delle cartelle a mezzo posta:

A) l’Ufficiale della riscossione (o gli altri soggetti previsti dall’art. 26, comma 1, del DPR n. 602/73) riceve la cartella da Equitalia e compila la relata di notifica, indicando l’ufficio postale da cui parte l’atto e apponendo la propria firma;

B) l’Agente postale consegna la cartella ai legittimi destinatari (ossia ai soggetti indicati dall’art. 26, comma 2, DPR n. 602/73).

A sostegno di tale procedura è intervenuta recentemente anche la sezione V° della Commissione Tributaria Regionale di Milano (sent. n. 141 del 17/12/2009), la quale ha sostenuto che “laddove la legge (riferendosi esplicitamente all’art. 26 del DPR n. 602/73) parla di NOTIFICAZIONE di un atto, anche a mezzo posta, la legge stessa intende riferirsi ad una trasmissione dell’atto effettuata non direttamente, MA TRAMITE L’INTERMEDIAZIONE DI UN SOGGETTO ALL’UOPO SPECIFICAMENTE ABILITATO, che assume valore essenziale ai fini del riscontro o meno della fattispecie notificatoria, comportante l’essenzialità della relata di notificazione … Per contro, quando la legge abbia consentito che la trasmissione per posta avvenga senza il tramite di un soggetto abilitato, ha specificamente parlato di invio per posta dell’atto, direttamente fatto dall’autore dello stesso al suo destinatario, nel qual caso non vi è luogo a relata di notifica, come espressamente previsto dall’art. 16, comma 3 del D.lgs. n. 546/92 e dall’art. 14, parte prima, della legge n. 890/1982”.

Non resta dunque che attendere le prossime pronunce della Suprema Corte al riguardo.

 

da altalex.it

Commissione Tributaria Regionale

Lombardia – Milano

Sezione XXII

Sentenza 15 aprile 2010

 

 

ha emesso la seguente

 

 

SENTENZA

 

 

La società xxx srl in data 05.04.2007 veniva a conoscenza, a seguito di verifica presso gli uffici di Esatri Spa, dell’esistenza della cartella di pagamento n.xxx per un importo pari a E. 9.153,63 relativa ad iva anno 2003 comprensiva di sanzioni , non notificata alla stessa da parte dell’agente preposto alla riscossione per conto dell’Agenzia delle Entrate di Milano 4.

In data 16.04.07 la società contribuente depositava, presso la segreteria della Commissione Tributaria Provinciale di Milano ricorso contro la cartella esattoriale non notificata ed iscrizione a ruolo motivando che “….la cartella di pagamento essendo un atto di natura recettizia, al fine del perfezionamento della fattispecie costitutiva richiede l’essenzialità della sua notificazione…Come specificato dall’art. 148 c.p.c., applicabile anche in materia tributaria ex art. 26 ,comma 1, D.P.R. 602/1973, l’agente della notificazione certifica l’eseguita notificazione – mediante relazione da lui datata e sottoscritta, apposta in calce all’originale e alle copie dell’atto – Per le notificazioni a mezzo del servizio postale è applicabile l’art. 3 della legge 890 del1982 il quale dispone che “ L’ufficiale giudiziario ( o altro agente abilitato ex art. 26 D.P.R. 602/1973 ) scriva la relazione di notificazione sull’originale e sulla copia dell’atto, facendo menzione dell’ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in piego raccomandata con avviso di ricevimento…il vizio di notificazione ridonda in vizio dell’atto e non è suscettibile di sanatoria alcuna, non potendo in ogni caso trovare applicazione gli art. 156 e seguenti c.p.c. che, secondo l’attuale insegnamento della S.C. di Cassazione, valgono solo per gli atti processuali e non riguardano quelli sostanziali, come la cartella di pagamento…”concludeva chiedendo di dichiarare illegittimi ed annullare sia l’iscrizione a ruolo che la cartella di pagamento impugnata .

In data 14/06/07 si costituiva, presso la segreteria della Commissione Tributaria Provinciale di Milano, L’Agente delle Entrate Ufficio di Milano 4 depositando atto di costituzione in giudizio ai sensi ex art. 23 D.Lgs. 546/92 con il quale contrastava l’eccezioni proposte dalla società contribuente e concludeva chiedendo in via preliminare dichiarare improponibile il ricorso per carenza di legittimazione passiva dell’Ufficio di Milano 4, e per l’effetto estromettere lo stesso dal giudizio. In via subordinata rigettare il ricorso perché infondato.

In data 27/02/08 si costituiva, presso la segreteria della Commissione Tributari Provinciale di Milano, Equitalia Esatri Spa depositando controdeduzioni ex art. 23 D.Lgs. 546/92 con il quale contrastava l’eccezioni proposte dalla società contribuente e concludeva chiedendo previo declaratoria di difetto di legittimazione passiva di Equitalia Esatri Spa in relazione alle attività riservate all’Ente impositore, rigettare il ricorso nei confronti di Equitalia Esatri Spa in quanto infondato.

In data 19/03/08 la Commissione Tributaria Provinciale di Milano sezione 26 con sezione 62 depositata in segreteria il 09/04/08 respingeva il ricorso e confermava le iscrizione a ruolo.

In data 26/05/09 la società contribuente depositava appello presso la segreteria della Commissione Tributaria Regionale di Milano con varie motivazioni, concludeva chiedendo l’annullamento e/o comunque riformare in toto la sentenza impugnata con ogni conseguente pronuncia e statuizione.

In data 27/07/09 L’ufficio depositava presso la segreteria della Commissione Tributaria Regionale di Milano controdeduzioni all’appello del contribuente chiedendo la conferma della sentenza impugnata.

In data 17/03/10 l’Equitalia Esatri Spa depositava presso la segreteria della Commissione Tributaria Regionale di Milano controdeduzioni all’appello del contribuente chiedendo la conferma della sentenza impugnata.

In data 02/04/10 la società contribuente depositava memorie illustrative presso la segreteria della Commissione Tributaria Regionale di Milano.

Il ricorso è stato trattato all’udienza pubblica del 15/04/10, sentito il relatore e il contribuente in persona del Dott. xxx il quale si riporta a quanto esposto negli atti e deposita giurisprudenza, il difensore dell’ufficio in persona della sua delegata a stare in giudizio Dott. xxx , la quale chiede il rigetto dell’appello e si oppone alla produzione di giurisprudenza da parte del contribuente.

Esaminati gli atti del giudizio, la controversia è stata trattenuta in decisione.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

Con i motivi d’appello il contribuente ha censurato l’oggetto della motivazione della sentenza impugnata chiedendo la riforma con l’accoglimento dell’appello proposto.

Nel merito, questo collegio, rileva che dalla comunicazione in atti depositata dalla Equitalia Esatri Spa, e precisamente dall’avviso di ricevimento postale risulta che in data 12.12.07 la raccomandata n. xxx 31-4 è stata consegnata al portiere il quale ha sottoscritto la ricevuta stessa con firma illeggibile. È evidente che essendo la cartella di pagamento un atto amministrativo unilaterale recettizio, per la sua efficacia deve essere portato a conoscenza del contribuente mediante notifica a termini del combinato disposto degli art.26, comma ultimo, D.P.R. 29 settembre 1973 n.602 e art. 60 D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600.

Lo scopo proprio della notifica della cartella di pagamento, non preceduta dalla notifica dell’avviso di accertamento, è quello di portare a conoscenza del contribuente che l’ufficio finanziario ha accertato nei suoi confronti un maggior credito di imposta di cui chiede il pagamento, e non quello di porre il contribuente nelle condizioni di ricorrere avverso tale accertamento, anche se ne costituisca un antecedente.

Lo scopo della notifica dell’atto ha natura sostanziale e non processuale e viene raggiunto solo con la materiale e regolare notifica dell’atto nel domicilio fiscale o reale del contribuente, in questo ultimo caso direttamente a mani del contribuente.

Ne consegue che l’atto amministrativo non notificato al domicilio risultante dalla dichiarazione annuale relativa all’anno di imposta di pertinenza, va ritenuto giuridicamente inesistente con conseguente prescrizione del credito d’imposta e decadenza dal diritto di chiederne il pagamento al contribuente da parte dell’amministrazione finanziaria, in caso di scadenza dei termini di legge.

La proposizione del ricorso avverso tale atto non sana il vizio per raggiungimento dello scopo in quanto la sanatoria prevista dagli art. 156 ss, c.p.c. vale solo per gli atti processuali e non per quelli sostanziali come gli atti impugnabili nel processo tributario, tra i quali rientra la cartella di pagamento.

Nello specifico, la disciplina della riscossione delle imposte vigenti in epoca antecedente alla riforma introdotta dal D.Lgs 26/02/1999 n.46, la cartella di pagamento svolge la funzione di portare a conoscenza dell’interessato la pretesa tributaria iscritta nei ruoli, entro un termine stabilito a pena di decadenza della pretesa tributaria, ed ha un contenuto necessariamente più ampio dell’avviso di mora, la cui notifica è prevista soltanto per il caso in cui il contribuente, reso edotto dell’imposta dovuta, non ne abbia eseguito spontaneamente il pagamento nei termini indicati dalla legge (Cass. Civ. 27/07/2007 n. 16412).

La legge non consente all’Amministrazione finanziaria di scegliere se utilizzare indifferentemente la cartella di pagamento e l’avviso di mora, che operano su piani nettamente distinti, ma detta una precisa sequenza procedimentale, nella quale l’esercizio della pretesa tributaria si dipana dall’atto impositivo alla cartella di pagamento (che in alcuni casi, come quelli previsti dagli articoli 36bis e 36ter del DPR 600/73, è essa stessa un atto impositivo) ed all’eventuale avviso di mora, e nel cui ambito il mancato rispetto della sequenza determina sicuramente un vizio della procedura di riscossione che incidendo sulla progressione di atti stabilita dalla legge a garanzia del contribuente, determina l’illegittimità dell’intero processo di formazione della pretesa tributaria (Cass. Civ. SS UU n. 16412/2007).

Questo collegio ritiene che la relata di notifica è prevista come momento fondamentale nell’ambito del procedimento di notificazione sia dai codici di rito che dalla normativa speciale e non è integralmente surrogabile dall’attività del’ufficiale postale, sicchè la sua mancanza, anche nella notificazione a mezzo del servizio postale, non può essere ritenuta una mera irregolarità, nella specie deve escludersi che la nullità della notificazione possa esser stata sanata dal tempestivo ricorso proposta dalla contribuente.

La mancata compilazione della relata in violazione dell’articolo 148 cpc, determina non la semplice nullità della notifica, bensì “la giuridica inesistenza” della stessa patologia, non sanabile in senso assoluto. La notifica oltre ad essere disciplinata dagli articoli 148 e 149 del cpc e dal principio base della notifica degli atti impositivi contenuto dalla lettera e) dell’art. 60del DPR 600/73 e anche disciplinata dalla legge n.890/82 per le “notificazioni di atti a mezzo posta” secondo la quale – art. 1 – l’Ufficiale giudiziario – agente notificatore – può avvalersi del servizio postale per la notificazione nel rispetto delle seguenti fasi:

– compilazione della relata di notifica dell’atto impositivo indicando l’ufficio postale da cui parte l’atto

– art.149 del c.p.c. e art. 3 della legge n. 890/1982, apposizione della propria sottoscrizione sulla relata di notifica

– art. 148 del c.p.c. inserimento dell’atto da notificare nella busta al cui esterno deve essere riportata anche la sua sottoscrizione

– art. 3 legge n. 890/1982 compilazione dell’avviso di ricevimento

– art. 2 della legge n. 890/1982 consegna della busta all’ufficio postale

L’obbligo di indicare, nella relata di notifica, gli elementi sopra indicati oltre ad essere sancito dall’art. 160 del c.p.c. è stato ribadito anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 5305/1999, si è così espressa:

Qualora nell’originale dell’atto da notificare la relazione sia priva delle sottoscrizioni dell’ufficiale giudiziario, la notificazione deve ritenersi inesistente e non semplicemente nulla, non essendo configurabile una notifica in senso giuridico ove manca il requisito indefettibile per l’attestazione dell’attività compiuta”.

Tale situazione, come confermato dalla richiamata giurisprudenza della Cassazione, integra, a parere di questo Collegio, una condizione di inesistenza della notifica a fronte della quale non è richiamabile l’applicazione della sanatoria del raggiungimento dello scopo previsto dall’art. 156 del c.p.c. solo per i casi di nullità con conseguente annullamento, in accoglimento dell’appello, della cartella impugnata.

In conclusione, il Collegio ritiene, meritevole di accoglimento l’appello della società contribuente

 

 

P.Q.M.

 

 

1) La Commissione Tributaria Regionale della Lombardia – Milano in riforma dell’impugnata sentenza, accoglie l’appello del contribuente, ammettendo la produzione documentale dello stesso.

2) Spese compensate.

 

Così deciso in Milano in data 15/04/2010

Il Relatore

Il Presidente

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