Cinque processi non hanno cancellato tutti i misteri.
Preso il mandante, mancano i killer e il vero movente
di Niccolò Zancan
TORINO. Ventisei anni dopo in via Sommacampagna, fra il Po e la collina torinese, resta una targa sotto la fronda di un glicine: «Il 26 giugno 1983 qui è caduto, stroncato da mano assassina, nel pieno della sua lotta contro il crimine, Bruno Caccia. Procuratore della Repubblica, medaglia d’oro al valor civile, strenuo difensore del diritto, luminoso esempio di coraggio e fedeltà al dovere». Era la sera delle elezioni politiche. Craxi stava per diventare presidente del Consiglio. Il magistrato più importante della città, quello che si occupava di lotta al terrorismo, poteri forti, tangenti, mafia e criminalità organizzata, uscì di casa senza scorta. Come un cittadino qualunque. Doveva portare fuori il cane. Erano le 23,15. Due killer lo stavano aspettando.
La prima relazione della polizia è precisa: «Il conducente della Fiat 128, con rapida manovra, si avvicinava al magistrato. Bloccata l’autovettura, gli esplodeva contro alcuni colpi di arma da fuoco che ne provocavano la caduta sul marciapiedi. Contemporaneamente, il passeggero scendeva dalla 128, e chinatosi sul corpo del dottor Caccia, gli esplodeva contro altri tre colpi». Diciassette proiettili in tutto. Di questo omicidio, che ha cambiato la storia di Torino, c’è una verità processuale. Il pentito «Ciccio» Miano, catanese, ha raccolto e registrato la rivendicazione di un boss calabrese orgoglioso del suo lavoro: «Per Caccia, dovete ringraziare solo me…». Cinque gradi di giudizio hanno stabilito che il mandante dell’assassinio è proprio Domenico Belfiore, tutt’ora in carcere. Mai pentito.
Ma c’è anche una verità storica, più difficile da mettere a fuoco, ancora sospesa. «Una zona grigia», l’hanno definita alcuni investigatori. Mancano gli esecutori materiali, nonostante l’identikit tracciato sulla base di due testimonianze. Mancano, forse, soprattutto, alcuni passaggi che hanno portato alla condanna a morte del procuratore Caccia. Dove «la sua colpa» sembra riassunta in una frase della sentenza della V sezione penale della Cassazione, datata 23 settembre ’92: «I calabresi lo consideravano uomo di particolare durezza e di particolare pericolo per loro, nella sua inavvicinabilità». Era rigoroso, ostinato. Estremamente riservato. Teneva sempre con sé la chiave della cassaforte della Procura. La notte dell’omicidio però non fu trovata.
Di tutto questo si occupa domani la puntata di «La Storia Siamo Noi» condotta da Giovanni Minoli (alle 8,05 su Rai Tre, alle 22 su Rai Storia). Il documentario firmato da Sergio Leszczynsky si intitola «Torino Criminale. Il caso Caccia». È una ricostruzione scrupolosa, punteggiata dalle voci dei protagonisti. La figlia Paola Caccia: «Io credo che non sia emersa tutta la verità su questo caso». Il magistrato Francesco Gianfrotta: «Il procuratore era un personaggio pericoloso per gli interessi criminali». Il magistrato Marcello Maddalena: «Sicuramente mancano dei tasselli. Anche sul piano dei moventi possibili». La figlia Cristina Caccia: «Mi è sembrato strano che fosse solo questione di dare noia a una banda di criminali… Che si potesse decidere di uccidere così un procuratore…».
Chi aveva benedetto quella decisione? Durante i processi sono emersi aspetti inquietanti. «Le bobine che contenevano le registrazioni del pentito Miano furono alterate e manipolate», spiega il procuratore Laudi. L’avvocato Badellino: «Si è detto che fossero soppressioni volontarie, per questo la Cassazione dichiarò inutilizzabili le conversazioni». Ma la Procura di Torino aveva fatto copia dei nastri originali. Riuscì a salvare l’attendibilità delle dichiarazioni del pentito. Rimasero molti dubbi. Alcuni conducono proprio a Palazzo di Giustizia. Ai legami fra clan malavitosi e certa magistratura. Rapporti che passavano per il bar «Monique», gestito dal pregiudicato Gianfranco Gonella, proprio di fronte alla vecchia Procura.
Nella sentenza si legge: «Le disposte intercettazioni avevano consentito di accertare l’esistenza di rapporti di familiarità ed amicizia fra il Gonella ed il dottor Moschella (Procuratore della Repubblica di Ivrea) e la dottoressa Carpinteri (giudice del Tribunale penale di Torino). Senza contare la perfetta conoscenza che il Moschella aveva delle attività del Gonella… Gonella aveva riposto particolare attenzione nel rendere favori e servigi, era persino riuscito ad imporre deferenza ai suoi amici magistrati… Il solito Gonella si era incessantemente interessato presso il procuratore Moschella delle vicende processuali di Belfiore…». C’è anche questo, nella zona grigia. Si sa che Bruno Caccia è stato ucciso perché il suo impegno disturbava l’attività della ‘ndrangheta a Torino. Mancano i killer della 128, mancano troppi pezzi di verità.
25 giugno 2009
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