Lea Garofalo, nonostante il suo struggente appello alla più alta carica della magistratura e dello Stato, che di seguito pubblichiamo integralmente, è stata rapita in pieno centro a Milano, capitale della ‘ndrangheta e del narcotraffico, torturata e uccisa con un colpo alla testa, per infine venire sciolta nell’acido.
Il caso che approderà avanti la Corte d’Assise a partire dal prossimo 9 luglio, secondo modalità da copione in altri delitti di mafia, è stato derubricato dai giudici di Milano: da omicidio a scopo mafioso a delitto passionale.
A rivelarlo è stato il legale della famiglia della vittima, Roberto D’Ippolito, che si è detto deluso da questa decisione e pronto a chiedere il riconoscimento della modalità mafiosa.
“Signor Presidente della Repubblica, chi le scrive è una giovane madre, disperata allo stremo delle sue forze, psichiche e mentali in quanto quotidianamente torturata da anni dall’assoluta mancanza di adeguata tutela da parte di taluni liberi professionisti, quali il mio attuale legale che si dice disponibile a tutelarmi e di fatto non risponde neanche alle mie telefonate Siamo da circa 7 anni in un programma di protezione provvisorio. In casi normali la provvisorietà dura all’incirca 1 anno, in questo caso si è oltrepassato ogni tempo e, permettetemi, ogni limite, in quanto quotidianamente vengono violati i nostri diritti fondamentali sanciti dalle leggi europee.
IL MIO AVVOCATO NON MI TUTELA
Il legale assegnatomi dopo avermi fatto figurare come collaboratrice, termine senza che mai e dico mai ho commesso alcun reato in vita mia. Sono una donna che si è sempre presa la responsabilità e che da tempo ha deciso di rompere ogni tipo di legame con la propria famiglia e con il convivente. Cercando di riniziare una vita all’insegna della legalità e della giustizia con mia figlia. Dopo numerose minacce psichiche, verbali e mentali di denunciare tutti. Vengo ascoltata da un magistrato dopo un mese delle mie dichiarazioni in presenza di un maresciallo e di un legale assegnatomi, mi dissero che bisognava aspettare di trovare un magistrato che non fosse corrotto dopo oltre un mese passato scappando di città in città per ovvie paure e con una figlia piccola, i carabinieri ci condussero alla procura della Repubblica di C. e lì fui sentita in presenza di un avvocato assegnatomi dalla stessa procura.
Questi mi comunicarono di figurare come collaboratore, premetto di non aver nessuna conoscenza giuridica, pertanto il termine di collaboratore per una persona ignorante, era corretto in quanto stavo collaborando al fine di arrestare dei criminali mafiosi. Dopo circa tre anni il mio caso passa ad un altro magistrato e da lui appresi di essere stata mal tutelata dal mio legale.
HO PERSO TUTTO E SIAMO ISOLATE
Oggi mi ritrovo, assieme a mia figlia isolata da tutto e da tutti, ho perso tutto, la mia famiglia, ho perso il mio lavoro (anche se precario) ho perso la casa, ho perso i miei innumerevoli amici, ho perso ogni aspettativa di futuro, ma questo lo avevo messo in conto, sapevo a cosa andavo incontro facendo una scelta simile.
Quello che non avevo messo in conto e che assolutamente immaginavo, e non solo perché sono una povera ignorante con a mala pena un attestato di licenza media inferiore, ma perché pensavo sinceramente che denunciare fosse l’unico modo per porre fine agli innumerevoli soprusi e probabilmente a far tornare sui propri passi qualche povero disgraziato sinceramente, non so neanche da dove mi viene questo spirito, o forse sì, visti i tristi precedenti di cause perse ingiustamente da parte dei miei familiari onestissimi! Gente che si è venduta pure la casa dove abitava, per pagare gli avvocati e soprattutto, per perseguire un’idea di giustizia che non c’è mai stata, anzi tutt’altro! Oggi e dopo tutti i precedenti, mi chiedo ancora come ho potuto, anche solo pensare che in Italia possa realmente esistere qualcosa di simile alla giustizia, soprattutto dopo precedenti disastrosi come quelli vissuti in prima persona dai miei familiari.
CONOSCO GiA’ IL MIO DESTINO CHE MI ASPETTA
Eppure sarà che la storia si ripete che la genetica non cambia, ho ripetuto e sto ripentendo passo dopo passo quello che nella mia famiglia è già successo, e sa qual è la cosa peggiore? La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi spetta, dopo essere stata colpita negli interessi materiali e affettivi arriverà la morte! Inaspettata indegna e inesorabile e soprattutto senza la soddisfazione per qualche mio familiare è stato anche abbastanza naturale se così si può dire, di una persona che muore perché annega i propri dolori nell’alcol per dimenticare un figlio che è stato ucciso per essersi rifiutato di sottostare ai ricatti di qualche mai mafioso di turno. Per qualcun altro è stato certamente più atroce di quanto si possa immaginare lentamente, perché questo visti i risultati precedenti negativi si è fatto giustizia da solo e , si sa, quando si entra in certi vincoli viziosi difficilmente se ne esce indenni tutto questo perché le istituzioni hanno fatto orecchie da mercante!
CREDO ANCORA NELLA GIUSTIZIA
Ora con questa mia lettera vorrei presuntuosamente cambiare il corso della mia triste storia perché non voglio assolutamente che un giorno qualcuno possa sentirsi autorizzato a fare ciò che deve fare la legge e quindi sacrificare se pur per una giustissima causa la propria vita e quella dei propri cari per perseguire un’idea di giustizia che tale non è più nel momento in cui ce la si fa da soli e, con metodi spicci.
Vorrei Signor Presidente, che con questa mia richiesta di aiuto lei mi rispondesse alle decine, se non centinaia di persone che oggi si trovano nella mia stessa situazione. Ora non so, sinceramente, quanti di noi non abbiamo mai commesso alcun reato e, dopo aver denunciato diversi atti criminali, si sono ritrovati catalogati come collaboratori di giustizia e quindi di appartenenti a quella nota fascia di infami, così comunemente chiamati in Italia, piuttosto che testimoni di atti criminali, perché le posso assicurare, in quanto vissuto personalmente che esistono persone che nonostante essere in mezzo a situazioni del genere riescono a non farsi compromettere in nessun modo a ad avere saputo dare dignità e speranza oltre che giustizia alla loro esistenza.
Lei oggi, signor presidente, può cambiare il corso della storia, se vuole può aiutare chi, non si sa bene perché, o come, riesce ancora a credere che anche in questo paese vivere giustamente si può nonostante tutto!
La prego signor presidente ci dia un segnale di speranza, non attendiamo che quello, e a chi si intende di diritto civile e penale, anche voi aiutate chi è in difficoltà ingiustamente!
Personalmente non credo che esiste chissà chi o chissà cosa, però credo nella volontà delle persone, perché l’ho sperimentata personalmente e non solo per cui, se qualche avvocato legge questo articolo e volesse perseguire un’idea di giustizia accontentandosi della retribuzione del patrocinio gratuito e avendo in cambio tante soddisfazioni e una immensa gratitudine da parte di una giovane madre che crede ancora in qualcosa vagamente reale, oggi giorno in questo paese si faccia avanti, ho bisogno di aiuto, qualcuno ci aiuti. Please!”
Una giovane madre disperata
(Tratto dal “Quotidiano della Calabria” Giovedi 2 Dicembre 2010)
IL PROCESSO GIA’ SVUOTATO DELL’ACCUSA PRINCIPALE
La tremenda storia di Lea Garofalo e dei suoi feroci aguzzini protetti dallo Stato torna da qualche giorno a smuovere le coscienze degli italiani e dei palazzi del potere.
Il processo approderà avanti la Corte d’Assise a partire dal prossimo 9 luglio, ma secondo un copione che ricorda quello dell’Autoparco e di tanti altri delitti di mafia, è già stato svuotato dai giudici di Milano, che hanno derubricato il capo di accusa da omicidio a scopo mafioso a delitto passionale. A rivelarlo è stato lo stesso legale della famiglia della vittima, Roberto D’Ippolito, che si è detto deluso da questa decisione e pronto a chiedere il riconoscimento della modalità mafiosa.
I responsabili dell’omicidio della giovane madre coraggio barbaramente uccisa dalle cosche che controllano la lombarda insaguinata pianura padana hanno già messo a segno una prima vittoria, che toglie dignità e valore morale all’esemplare sacrificio di Lea Garofalo e Denise. E’ una storia vile e raccapricciante destinata a lasciare una macchia indelebile sulla coscienza del Paese e di tutti coloro che avrebbero dovuto proteggerla, DDA di Milano e Reggio Calabria in primis.
Il caso balza alle cronache giudiziarie nel 2009, quando la Procura di Campobasso apre un fascicolo per sequestro di persona, contro ignoti. In realtà secondo le procure Lea Garofalo, ex collaboratrice di giustizia, ha subito una sorte orribile: rapita a Milano e poi sciolta nell’acido in un capannone nel monzese; dietro questo gesto atroce risiede la mano della ‘ndrangheta e dell’ex marito della donna, Carlo Cosco.
La vicenda ha come fulcro la “casa dei calabresi” a Milano, in via Montello, palazzo in centro cittadino dove verso la fine degli anni Ottanta si stabilirono alcuni affiliati della cosca dei Garofalo, tra cui esponenti della famiglia Cosco.
In quello stesso palazzo, di proprietà dell’Ospedale Maggiore, è arrestato il fratello di Lea nel 1996 (morirà nel 2005 in un attentato a Pagliarelle, frazione di Petilia Policastro) e trova rifugio il cugino di Carlo Cosco, Vito Cosco, noto alla cronaca nera per la Strage di Rozzano, in cui persero la vita “accidentalmente”, oltre alla vittima designata, anche un pensionato e una bambina di tre anni. Lo stesso Vito Cosco, detto Sergio, sarà poi arrestato nel 2010 per il sequesto e l’omicidio di Lea Garofalo, assieme a Sabatini e all’ex convinvente della donna.
Lea Garofalo, 35 anni, proviene dunque da una famiglia malavitosa di Petilia Policastro, provincia di Crotone; nonostante ciò ha il coraggio di denunciare quanto sente e quanto sa anche di quella casa milanese, in Via Montello, da cui il marito gestisce gli affari illeciti dei Garofalo (soprattutto il traffico di stupefacenti, ma anche estorsioni e riciclaggio) e decide di parlare per la speranza di dare a sua figlia Denise una vita normale, una vita migliore.
Per questo ripone la sua vita e quella della figlia nelle mani dello Stato: diventa “collaboratrice di giustizia” (anche se giustamente come Lei stessa denuncia di reati non ne ha mai comemssi), con un programma provvisorio nel 2002 e inizia a fornire importanti informazioni in merito all’omicidio di Antonio Comberiati avvenuto nel 1995 e delle responsabilità del fratello Floriano Garofalo, di Carlo Cosco e di suo fratello Giuseppe Cosco; parla inoltre della faida scoppiata nel 1975 tra i Mirabelli e i Garofalo a Pagliarelle, che quando era molto piccola le portò via il padre, capocosca di Petilia Policastro.
Nel 2006 la Dda di Catanzaro chiede di rendere definitiva la protezione, ma la richiesta viene respinta dalla Commissione centrale, competente per l’assegnazione della protezione a testimoni di giustizia, perché le sue dichiarazioni non avrebbero avuto rilevanza sufficiente e nessun autonomo sbocco processuale nell’omicidio del fratello legato a fatti estranei alla sua collaborazione. Lea Garofalo fa ricorso al TAR del Lazio, che riconferma la decisione della Commissione centrale giustizia. Solo un successivo appello al Consiglio di Stato annullerà la decisione impugnata del Tar Lazio e della Commissione centrale.
Questo episodio tuttavia incrina profondamente la sua fiducia nello Stato e nelle istituzioni, tanto da spingere Lea ad uscire dal programma, avendo constatato che il suo sacrificio non era servito a nulla, tanto che nessun omicidio da lei denunciato era stato perseguito: durante il periodo in cui lo Stato revoca la protezione Lea e Denise vengono anche privte dell’abitazione, finendo entrambe a dormire in automobile. Spinta dalla disperazione di vedersi voltare le spalle dallo Stato Lea decide dunque di uscire dal programma protezione e di riallacciare i rapporti con il padre della figlia, dal quale crede ancor più ingenuamente di poter venire forse perdonata e/o di ottenere quella pietà che lo Stato non le ha voluto o saputo riconoscere.
Torna a Campobasso, in una casa reperitale dallo stesso Carlo Cosco che però cerca di farla barbaramente uccidere, riuscendo a scampare al primo tentativo di rapimento grazie alla coraggiosa reazione della figlia Denise.
Lea è stretta tra l’incudine e il martello. Da una parte uno Stato complice e/o inerte dall’altra l’uomo che ha doppiamente tradito ma da cui spera una maggiore umanità quantomeno per la giovane figlia Denise. E’ così che dopo essere ancora una volta fuggita con la figlia ritorna a Milano nella tana della ‘ndrangheta. L’idea è quella di trasferirsi definitivamente in Australia anche come lavapiatti e di ottenere un piccolo aiuto per il viaggio dal padre di Denise che si finge paterno e accondiscendente, quando nel febbraio 2009, Lea Garofalo scompare per sempre.
L’ex compagno è il primo sospettato. Assieme a lui è arrestato Massimo Sabatino, che mesi prima aveva tentato di rapire la donna, mentre si trovava a casa con la figlia, fingendosi un idraulico intervenuto per un guasto alla lavatrice e mandato dallo stesso Carlo Cosco.
Era già pronta la vasca d’acido destinata alla donna, un orrore semplicemente rimandato ad un’altra data e ad un altro luogo: 24 novembre 2009, in Lombardia.
Lea Garofalo aveva portato la figlia Denise a Milano per potersi incontrare con il padre della ragazza. Lo scopo doveva essere parlare del suo futuro, ma Lea va incontro al suo orribile destino mentre Denise è con gli zii. La donna, portata in un capannone, viene torturata a lungo con lo scopo di estorcere le informazioni fornite dalla stessa agli inquirenti e vendicarsi per il gesto ritenuto inconcepibile: aver rotto il velo di omertà della famiglia e tradito il “marito”.
Per questo viene sciolta in 50 litri di acido, con lo scopo di non lasciare traccia alcuna e simulare un suo volontario allontanamento garantendo l’impunità dei suoi aguzzini.
Carlo Cosco è il primo a chiamare la polizia, resta con la figlia, che provvede poi a trasferire in Calabria sotto la vigilanza della zia Marisa e di un giovane uomo di sua fiducia con l’incarico di curarne le mosse.
Denise, quando scopre che l’uomo che le fa la corte e con cui si è fidanzata è coinvolto nella morte della madre, tenta la fuga, ma è costretta a tornare, sino al momento in cui decide di seguire le orme della madre per poterle rendere giustizia.
Denuncia il padre e rientra nel programma di protezione. Accanto a lei si costituiscono parte civile la zia, la nonna e il comune di Crotone.
Quando Lea Garofalo viene uccisa con un colpo di pistola alla nuca, dopo essere stata picchiata e torturata, non godeva di alcuna protezione da parte di quello Stato che aveva deciso di servire, a cui aveva affidato tutta se stessa e la vita della figlia.
Lo Stato è un attore ignobilmente alieno a questa vicenda, il cui vuoto pesa come un macigno. Non è e non ha ragion d’essere un alibi il fatto che Lea Garofalo abbia deciso per protesta di ritirarsi dal programma di protezione: lo sarebbe se la decisione non fosse scaturita dall’assenza di qualsiasi esercizio dell’azione penale in relazione ai vari omicidi denunciati e dal totale abbandono e illogica provvisorietà in cui Lea e la figlia sono state costrette a vivere per oltre 7 anni. Crediamo non ci sia modo peggiore per lo Stato di ripagare i propri figli migliori. Lea Garofalo non era una criminale, nonostante la vita difficile e le sue origini è andata controcorrente, ha lottato con grande coragggio per la legalità e un mondo migliore, per amore della figlia Denise e per la sua stessa dignità di donna onesta, per riscattare la sua terra. E, l’unica risposta ottenuta da quelle istituzioni in cui aveva riposto ogni speranza è stato un ignobile e assordante silenzio, anche da parte del Capo dello Stato che ha finto di non avere ricevuto nulla.
Sua figlia Denise ora attende che sia fatta giustizia per sua madre, che i carnefici paghino. Ma sin dalle prime battute la derubricazione del reato da omicidio a scopo mafioso a delitto passionale non promette un giusto processo.
Lo Stato che non ha aiutato Lea Garofalo saprà rispondere alle regole del diritto e al dolore della figlia? Saprà compiere finalmente un atto di vera giustizia o quella di Denise sarà un’altra vita spezzata da sacrificare sull’altare del narcotraffico che controlla sin dagli anni dell’Autoparco della mafia le procure delle industriose città del nord?
Interrogazione parlamentare:
http://www.camera.it/412?idSeduta=387&resoconto=stenografico&tit=00020&fase=00030
Testo della lettera di Lea Garofalo, riflessioni, spunti e ulteriori informazioni:
http://suddegenere.wordpress.com/2010/12/02/una-lettera-pubblicata-tardivamente/
http://www.19luglio1992.com/index.php?option=com_content&view=article&id=3648:lea-garofalo-lettera-al-capo-dello-stato-prima-di-morire&catid=1:lettere-aperte&Itemid=28
Il Post.it “Chi era Lea Garofalo?”
http://www.ilpost.it/2010/10/18/chi-era-lea-garofalo/
Il Fatto Quotidiano “Lea, mia madre coraggio contro le ‘ndrine”
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/07/05/%E2%80%9Clea-mia-madre-coraggio-contro-le-%E2%80%98ndrine%E2%80%9D/141406/
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