Archivio Categoria: Calabria

Calabria: Solitudine degli imprenditori e complicità dello Stato-Mafia

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“L’imprenditore Antonino De Masi ha l’unica colpa di restare onesto in un territorio ostile come la piana di Gioia Tauro. E’ in guerra da anni con la mafia, le banche e lo Stato. La mafia è la mano militare che minaccia, vuol prendere la sua azienda a colpi di Kalashnikov. Le banche esercitano il ruolo di raffinati torturatori: tassi da usura, abusi, variazioni unilaterali dei contratti. Lo Stato assiste inattivo a tanto scempio. L’unica arma di De Masi è la legalità che ha funzionato, almeno sulla carta. La Cassazione ha condannato tre banche per il reato di usura nei suoi confronti (BNL, Antonveneta e Banca di Roma) e 14 sentenze di TAR e Consiglio di Stato gli hanno assegnato un mutuo anti usura. Ma è dal 2006 che Antonino e i suoi 100 operai attendono l’apertura del mutuo dallo Stato. Ciò costringerà De Masi alla chiusura della sua azienda il 20 luglio. Il MoVimento 5 Stelle chiede che venga istituita al più presto una commissione d’inchiesta parlamentare che lavori per accertare gli eventuali crimini bancari nel nostro Paese.”
M5S Camera

Dal Blog di Beppe Grillo
L’INTERVISTA
Eroi civili. L’imprenditore De Masi: «La mia vita contro le banche usuraie»
30 Aprile 2013
di Domenico Naso
Nell’Italia in crisi economica e politica, c’è chi muore di fame, chi ha perso tutto, chi reagisce alla disperazione sparando su due innocenti servitori dello Stato. Ma c’è chi sceglie un’altra strada, quella dell’eroismo civico, ostinato e silenzioso. Una battaglia quotidiana contro le ingiustizie che può durare anche dieci anni, contro lobby granitiche, poteri forti e consolidati sistemi economici. Una battaglia che, però, si può vincere. È il caso di Antonino De Masi, imprenditore di Rizziconi, nella piana di Gioia Tauro, che circa dieci anni fa si è accorto che qualcosa non andava nel suo conto in banca. Erano “spariti” circa sei milioni di euro, in un contesto di investimenti per la realizzazione di alcune attività imprenditoriali beneficiate anche da fondi pubblici, perché le banche avevano applicato un tasso superiore al 35%, erodendo di fatto tutti i soldi pubblici arrivati.
Da quel giorno non si è più fermato, fino a quando non ha ottenuto giustizia con sentenza passata in giudicato: le banche, ha stabilito il giudice, hanno praticato l’usura nei confronti delle aziende di Antonino De Masi e ora dovranno risarcirlo.
I danni subiti, dopo un’accurata perizia, sono stati calcolati nella misura di 215 milioni di euro. Un’enormità, soprattutto per un imprenditore. Calabrese. E in tempo di forte crisi economica.
Vittoria simbolica, di principio? Nemmeno per idea: De Masi quei soldi li vuole, giustamente, e si dichiara pronto a lottare per altri dieci anni, se necessario.

Come è cambiato il rapporto impresa-banca dopo le sentenze sul suo caso?
«Grazie alle mie battaglie, che ho iniziato dieci anni fa, è cambiato totalmente questo rapporto. Io ho iniziato questa battaglia molto prima degli scandali Parmalat, Cirio, ecc. Parlare di crimini bancari all’epoca era una bestemmia. Con le mie denunce, dal 2002 in poi, si è capito cosa c’è dietro il comportamento degli istituti di credito, cioè la politica del massimo profitto, la volontà di rubare i soldi dei risparmiatori. Le do un dato: in Italia ci sono 85 milioni di rapporti bancari e la banca addebita 10 euro a trimestre. Cioè 3,4 miliardi l’anno che vengono trasferiti dalle tasche dei risparmiatori a quelli delle banche. Poi bisogna considerare che tre banche detengono il 50% di quei rapporti bancari, e quindi solo questi tre istituti si mettono in tasca 1,7 miliardi di euro. Se poi ricordiamo che il conto corrente in Italia costa tra i 90 e i 140 euro in più rispetto al resto d’Europa, è evidente che siamo di fronte alla più grande truffa ai danni dei cittadini. Io questo ho fatto: ho dimostrato con atti, fatti e circostanze, cosa c’è dietro».

Nella politica e nello Stato ha trovato alleati o ostacoli?
«La politica non può litigare con le banche. Non se lo può permettere…»

Anche le imprese pare che preferiscano il silenzio. Hanno paura che le banche chiudano i cordoni della borsa del credito?«E’ vero, gli imprenditori sono terrorizzati. Se le attacchi, le banche ti chiudono le porte e ti estromettono dal sistema. Sei finito».

Una perizia ha stabilito che i danni alle sue aziende ammontano a 215 milioni di euro. Lei spera di ricevere il risarcimento dalle banche? O si accontenta della vittoria simbolica?
«Certo che ci spero. È il frutto di dieci anni di guerre. E sono pronto a farne altri dieci, se non mi risarciranno. Ci sono delle leggi, la cui violazione viene punita solo se commessa da cittadini, creando una disparità tra cittadini e banche. Allora non viviamo più in un paese democratico. E se è così qualcuno deve avere il coraggio di ammetterlo e spiegarmelo».

Lei ha vinto una battaglia contro il potere forte per eccellenza. Come ha fatto?
«Ho portato in tribunale questi criminali nel nome delle leggi e del diritto. Non ho vinto per capacità di lobby. Anzi, ho vinto contro il potere più forte che esiste in Italia e contro gli avvocati più importanti e potenti del paese».

A cosa ha dovuto rinunciare in tutti questi anni di battaglie contro l’usura bancaria?
«Tutte le vittorie le ho pagate carissime sulla mia pelle. Anche fisicamente. E anche se faccio l’imprenditore, e di impegni ne avrei già abbastanza, da dieci anni studio 10-12 ore al giorno e, mio malgrado, sono diventato uno dei massimi esperti italiani in materia».

E alla fine ne è valsa davvero la pena?
«Questa è la domanda delle domande… Da cittadino che osserva le leggi e che vuole vivere in un paese democratico, dico di sì, ne valeva le pena.
Il problema è quando prevale l’essere razionale. Penso spesso a quanto mi è costato tutelare i miei diritti…»
www.intelligonews.it/eroi-civili-limprenditore-de-masi-la-mia-vita-contro-le-banche-usuraie/

'NDRANGHETA: OPERAZIONE CONTRO COSCA NEL REGGINO, 40 ARRESTI

 
(ANSA) – REGGIO CALABRIA, 3 MAG – Un’operazione della polizia é in corso nel reggino per l’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 40 presunti affiliati alla cosca Mazzaferro di Marina di Gioiosa Ionica. All’operazione partecipa personale della squadra mobile di Reggio Calabria, del Commissariato di Siderno e dello Sco di Roma. Associazione per delinquere di tipo mafioso è una delle accuse contestate agli indagati.
– Il sindaco e tre assessori della giunta di Marina di Gioiosa Ionica, nel Reggino, sono stati arrestati dalla polizia nell’ambito dell’operazione contro la cosca Mazzaferro. Il sindaco, Rocco Femia, che guida un’amministrazione espressione di una lista civica, e gli assessori sono accusati di associazione mafiosa.
– Secondo quanto emerso dall’inchiesta, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria, in occasione delle elezioni comunali che si sono svolte nell’aprile del 2009, la cosca Mazzaferro avrebbe sostenuto la candidatura di Femia che poi è stato eletto. Successivamente alla sua elezione, l’Amministrazione avrebbe fatto in modo di affidare una serie di appalti pubblici a soggetti riconducibili alla cosca. (ANSA).

RELITTO DI CETRARO: PIETRO GRASSO E IL MINISTRO PRESTIGIACOMO NON CI CONVINCONO!

Una nave e mille misteri

di Riccardo Bocca

Dopo i rilievi eseguiti, per il ministro e il procuratore Grasso il caso del relitto dei veleni è risolto. Eppure troppi sono ancora i dubbi. E si parla già di depistaggio

(04 novembre 2009)

I rilevamenti sul relitto al largo di Cetraro I rilevamenti sul relitto al largo di Cetraro
La sera di venerdì 30 ottobre, l’emittente calabrese Telespazio trasmette una puntata davvero speciale del talk show “Perfidia“.
In studio, c’è un gruppo di pescatori della costa tirrenica per parlare dei fondi a loro sostegno, dopo il crollo delle vendite dovuto al caso “navi dei veleni”. Uno dei pescatori, Franco, non è però d’accordo. Ha saputo che il giorno prima, nel corso di una conferenza stampa, il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo e il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, hanno tranquillizzato tutti: «Il caso è chiuso», ha detto Grasso. La nave di cui il mondo intero ha parlato, a 480 metri di profondità nelle acque davanti a Cetraro, non è la pericolosa Cunski affondata dal pentito Francesco Fonti. «Si tratta del piroscafo Catania», ha spiegato Prestigiacomo, «costruito a Palermo nel 1906 e silurato il 16 marzo 1917 da un sommergibile tedesco ».
Risultato: a bordo non ci sono fusti radioattivi, anzi la stiva è vuota e non c’è rischio per la popolazione.

I pescatori, Franco compreso, dovrebbero sentirsi sollevati: fine della paura, riprende la pesca. Invece no. Franco s’infuria e urla: «Negli anni Novanta c’erano sei o sette pescherecci a Cetraro, e due sono andati (quella notte con Fonti) a mettere la dinamite!». A questo punto, nello studio scende il gelo. Gli altri pescatori sono spiazzati ma lui continua, invitando la magistratura a indagare, «a mettere sotto torchio» chi andava per mare in quel periodo.

Il giorno dopo, la cassetta del programma viene acquisita dal procuratore capo di Paola Bruno Giordano. Intanto monta l’angoscia del pescatore Franco, isolato da colleghi e parenti. «La verità non interessa a nessuno», si lamenta con un cronista.

E non è l’unico, in Calabria, a pensarla così. Nei giorni scorsi, il deputato Franco Laratta (Pd) si è definito «sconcertato» dalla situazione. Di più: ha sollevato il dubbio che «qualcuno ci stia prendendo in giro, con depistaggi e mezze verità» tra «notizie parziali, fatti contraddittori ed eventi prima affermati e poi negati nelle e fra le istituzioni». Una sequenza di stranezze che parte il mattino del 27 ottobre, quando il procuratore Grasso si presenta alla commissione parlamentare Antimafia e dice: «Proprio stamane, mi è stato comunicato che gli ultimi riscontri non danno la certezza che si tratti proprio della Cunski, anche se il castello sembra essere compatibile con l’indicazione che viene da Fonti». L’altra ipotesi in campo, aggiunge, «è che si tratti del piroscafo Cagliari», affondato a inizio anni Quaranta.
Tutto chiaro? Al contrario. Passano poche ore, e alle 12,56 l’agenzia Adnkronos batte una nota del ministro Prestigiacomo: «Il relitto al largo di Cetraro non corrisponde alle caratteristiche della Cunski. Il Rov, il robot sottomarino, ha già svolto le misurazioni e i rilievi fotografici del relitto». Detto questo, le indagini continueranno «con il prelievo di sedimenti dai fondali, carotaggi in profondità e prelievi di campioni dai fusti». Informazioni nette, inequivocabili.
Che vengono smentite, però, alle 13,12: un quarto d’ora dopo. «Finora abbiamo fatto solo esplorazioni acustiche », affermano i proprietari della nave Mare Oceano (che sta svolgendo le analisi a Cetraro, e che risulta dell’armatore Diego Attanasio, coinvolto dall’avvocato David Mills nel processo in cui è stato condannato per aver mentito su Silvio Berlusconi in cambio di denaro). «Il Rov», aggiunge la Geolab, «farà altre esplorazioni acustiche e poi quelle visive. Non ci sentiamo di dire con certezza che quella possa o non possa essere la nave Cunski: per noi è ancora troppo presto».
Com’è possibile tanta confusione? Perché il procuratore Grasso si sbilancia a indicare all’Antimafia il nome di un relitto sbagliato? E perché il ministro Prestigiacomo parla di rilievi avvenuti, se chi li compie deve ancora iniziare?
Difficile capirlo. Come difficili da interpretare sono le altre sfasature di questa storia. A partire dalle caratteristiche della nave Catania, che stridono con i rilievi svolti sul relitto scoperto il 12 settembre al largo di Cetraro. In quell’occasione fu calcolata una lunghezza tra i 110 e i 120 metri, una larghezza di circa 20 e un’altezza di fiancata attorno ai 10.

Ora, invece, basta iscriversi al sito sui disastri navali.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/una-nave-e-mille-misteri/2113913

Quei veleni top secret

di Riccardo Bocca
Il governo cerca di nascondere la verità sull’inchiesta. L’accusa della parlamentare Pdl dell’Antimafia. Colloquio con Angela Napoli
(11 novembre 2009)

La nave  Mare Oceano  al largo di Cetraro
La nave ‘Mare Oceano’ al largo di Cetraro
Angela Napoli, membro Pdl della commissione parlamentare Antimafia, lo dice apertamente:”Il governo sta cercando di nascondere la verità sulle navi dei veleni, e su quella di Cetraro in particolare. Si vogliono coprire segreti di Stato, e la strada scelta è quella del silenzio. O peggio ancora, di dichiarazioni che non stanno in piedi”. Parole che arrivano dopo giornate intense. La settimana scorsa Pippo Arena, il pilota del congegno sottomarino che il 12 settembre aveva filmato la nave sui fondali calabresi, ha dichiarato a “L’espresso” che “due stive erano completamente piene”. Poi è stato il turno del ministero dell’Ambiente, che ha pubblicato on line le immagini girate a fine ottobre su quello che ha presentato come il piroscafo Catania. Infine è spuntata, tra politici e ambientalisti, l’ipotesi che nel mare di Cetraro ci siano non uno, ma più relitti. “Il che potrebbe giustificare la fretta di voltare pagina del ministro dell’Ambiente”, dice l’onorevole Napoli.

Un’accusa pesante, la sua: su cosa si basa?
“Penso, per esempio, a cosa è successo il 27 ottobre quando è stato ascoltato dalla commissione Antimafia il procuratore nazionale Piero Grasso. Appena gli ho posto domande vere, scomode, il presidente della commissione Beppe Pisanu ha secretato la seduta…”.

Si può sapere, nei limiti del lecito, quali argomenti toccavano le sue domande?
“Chiedevo chiarezza sul ruolo dei servizi segreti in questa vicenda. Domandavo come potesse il pentito Francesco Fonti, che non è della zona, indicare il punto dove si autoaccusa di avere affondato una nave, e farlo effettivamente coincidere con il ritrovamento di un relitto. Volevo che superassimo le ipocrisie, insomma. Anche riguardo al memoriale del pentito, che è stato custodito per quattro anni, dal 2005, nei cassetti della Direzione nazionale antimafia senza che nessuno facesse verifiche”.

Il ministero dell’Ambiente ha pubblicato sul suo sito le riprese della nave affondata a Cetraro. Non basta?
«Può bastare un filmino in bassa risoluzione che, quando clicchi, si apre su YouTube? Non scherziamo. E aggiungo: poniamo anche che le stive risultino vuote. Dov’è finito il carico visto dal pilota il 12 settembre?».

Un dato è certo: alle 12,56 del 27 ottobre, il ministro Prestigiacomo ha detto che il robot aveva già svolto «le misurazioni e i rilievi fotografici del relitto». Ed è stata smentita due volte: alle 13,12 dello stesso giorno dalla società Geolab che svolgeva il lavoro («Abbiamo fatto solo rilievi acustici»); poi in diretta a Sky da Federico Crescenti, responsabile del Reparto ambientale marino delle capitanerie di porto, il quale ha spiegato che le operazioni in acqua del robot sono iniziate la sera del 27.
«Dico di più. Sempre il 27 ottobre, la direzione marittima di Reggio Calabria ha trasmesso alla commissione Antimafia una mappa con i punti di affondamento di 44 navi lungo le coste italiane. Guarda caso, in Calabria ci sono nove croci senza nome…».

Rilancerà questo elemento in commissione Antimafia?
«Certo. Ma è difficile che un governo smascheri ciò che un altro governo ha occultato. C’è l’interesse bipartisan ad andare oltre, a dimenticare che il pentito Fonti parla di legami con ex democristiani e socialisti ancora attivi. Ricordiamo che il sottosegretario agli Esteri, in questo governo, fa di nome Stefania e di cognome Craxi».

Quindi?
«Basta con i segreti. Il governo vuole chiudere il caso Cetraro? Renda pubbliche le immagini satellitari dei traffici avvenuti nei mari italiani tra gli anni Ottanta e Novanta. La verità c’è già: basta avere voglia di vederla».

LE ACCUSE DI UN PENTITO AI POLITICI E LA SOLITUDINE DEI MAGISTRATI ONESTI

Complotto sotto il mare

di Riccardo Bocca

Rifiuti tossici inabissati in mare. Con coperture eccellenti. In un giro di auto diplomatiche e soldi in Svizzera. Le nuove rivelazioni del pentito della ‘ndrangheta che ha fatto trovare il primo relitto.

Colloquio con Francesco Fonti

(17 settembre 2009)

L’ex boss della ‘ndrangheta Francesco Fonti è soddisfatto e amareggiato allo stesso tempo. “Per anni nessuno ha voluto ascoltare quello che dicevo ai magistrati. Ho sempre ammesso di essermi occupato dell’affondamento di navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi. Ho indicato dove cercare: al largo di Cetraro, nel punto in cui il 12 settembre la Regione Calabria e la Procura di Paola hanno trovato a 480 metri di profondità un mercantile con bidoni nella stiva. Eppure, anche oggi che tutti mi riconoscono attendibile, devo affrontare una situazione assurda: vivo nascosto, senza protezione, con il pericolo che mi cerchino sia la cosca a cui appartenevo, sia i pezzi di Stato che usavano me e altri ‘ndranghetisti come manovalanza”.
L’altra sera, aggiunge Fonti, “mi ha telefonato Vincenzo Macrì, il consigliere della Direzione nazionale antimafia. Ha detto: “Speriamo che ora non ci ammazzino tutti…”.
Ecco di cosa stiamo parlando. Di vicende che puntano dritte al cuore della malavita internazionale e delle istituzioni”. Nonostante questo, Fonti, trafficante di droga condannato a 50 anni di carcere, poi diventato collaboratore di giustizia, si sente sereno: “La mia è stata una scelta di vita: mi sono pentito perché ho avuto ribrezzo di quanto fatto da malavitoso, dopodiché succeda quel che deve succedere”. Ecco perché non intende restare in silenzio. “Sono tanti i retroscena da chiarire”, assicura. Tantopiù dopo sabato, quando è stato annunciato il ritrovamento lungo la costa cosentina della nave con i bidoni lunga circa 120 metri e larga una ventina: “In questo clima apparentemente più disposto alla ricerca della verità, voglio fornire un mio ulteriore contributo. In totale trasparenza. Senza chiedere niente in cambio, tranne il rispetto e la tutela della mia persona”. Con tale premessa, Fonti squaderna storie di gravità eccezionale e con particolari che, ovviamente, dovranno essere vagliati dagli investigatori.

ESCLUSIVO: Parla il boss della ‘ndrangheta
GUARDA IL VIDEO: Il relitto di Cetraro

Il suo racconto parte dal 1992, quando l’ex boss spiega di avere affondato le navi Cunski, Yvonne A e Voriais Sporadais dietro indicazione dell’armatore Ignazio Messina. “Nel dossier che ho depositato alla Direzione nazionale antimafia (pubblicato nel 2005 dal nostro settimanale), ho scritto che in quell’occasione abbiamo inviato uomini del clan Muto al largo di Cetraro per far calare a picco la Cunski, mentre ho precisato che la Yvonne A era stata affondata a Maratea”, dice Fonti: “Quanto alla Voriais Sporadais, indicai che a bordo aveva 75 bidoni di sostanze tossiche, ma non segnalai il punto esatto dell’affondamento. Oggi voglio precisare che la portammo al largo di Melito Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, sulla costa jonica, e che a occuparsi materialmente dell’operazione fu il boss della zona Natale Iamonte “. Di più: “Lo stesso Iamonte”, prosegue Fonti, “si è dedicato spesso allo smaltimento in mare di scorie tossiche. Specialmente quelle che provenivano da ditte chimiche della Lombardia”.

Nel caso della Voriais Sporadais, precisa, accadde tutto in una notte autunnale del 1992: “Io e il figlio di Natale Iamonte, di cui non ricordo il nome, salimmo sul motoscafo con un terzo ‘ndranghetista che guidava e aveva una cassetta di candelotti di dinamite. Arrivammo al limite delle acque territoriali, montammo sopra la nave, facemmo portare a riva il capitano e l’equipaggio, dopodiché piazzammo i candelotti a prua e sparimmo indisturbati”.

Fonti non ha problemi ad ammetterlo: “Era una procedura facile e abituale. Ho detto e ribadisco in totale tranquillità che sui fondali della Calabria ci sono circa 30 navi”. E non parla per sentito dire: “Io ne ho affondate tre, ma ogni anno al santuario di Polsi (provincia di Reggio Calabria) si svolgeva la riunione plenaria della ‘ndrangheta, dove i capi bastone riassumevano le attività svolte nei territori di loro competenza. Proprio in queste occasioni, ho sentito descrivere l’affondamento di almeno tre navi nell’area tra Scilla e Cariddi, di altre presso Tropea, di altre ancora vicino a Crotone. E non mi spingo oltre per non essere impreciso”. Ciò che invece Fonti riferisce con certezza, è il sistema che regolava la sparizione delle navi in fondo al Mediterraneo. “Il mio filtro con il mondo della politica è stato, fin dal 1978, un agente del Sismi che si presentava con il nome Pino. Un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta con i capelli castani ben pettinati all’indietro, presentatomi nella Capitale da Guido Giannettini, che alla fine degli anni Sessanta aveva cercato di blandirmi per strapparmi informazioni sulla gerarchia della ‘ndrangheta. Funzionava così: l’agente Pino contattava a Reggio Calabria la cosca De Stefano, la quale informava il mio capo Romeo, che a sua volta mi faceva andare all’hotel Palace di Roma, in via Nazionale. Da lì telefonavo alla segreteria del Sismi dicendo: “Sono Ciccio e devo parlare con Pino”. Poi venivo chiamato al numero dell’albergo, e avveniva l’incontro” Il contenuto degli appuntamenti, era sempre simile. “L’agente Pino mi indicava la quantità di scorie che dovevamo far sparire “, spiega Fonti, “e mi chiedeva se avessimo la possibilità immediata di agire”. La maggior parte delle volte, la risposta era positiva. Ed era un ottimo affare: “Si partiva da 4 miliardi di vecchie lire per un carico, e si arrivava fino a un massimo di 30”. Soldi che venivano puntualmente versati a Lugano, presso il conto Whisky all’agenzia Aeroporto della banca Ubs, o in alcune banche di Cipro, Malta, Vaduz e Singapore. Tutte operazioni che svolgevamo grazie alla consulenza segreta del banchiere Valentino Foti, con cui avevamo un cinico rapporto di reciproca convenienza “. Quanto ai politici che stavano alle spalle dell’agente Pino, secondo Fonti, sarebbero nomi noti della cronaca italiana. “Mi incontrai più volte per gestire il traffico e la sparizione delle scorie pericolose con Riccardo Misasi, l’uomo forte calabrese della Democrazia cristiana”, dice, “il quale ci indicava se i carichi dovessero essere affondati o seppelliti in territorio italiano o straniero. La ‘ndrangheta, infatti, ha fatto colare a picco carrette del mare davanti al Kenya, alla Somalia e allo Zaire (ex Congo belga), usando capitani di nazionalità italiana o comunque europea, ed equipaggi misti con tunisini, marocchini e albanesi”. Rimane l’incontrovertibile fatto, aggiunge Fonti, “che la maggior parte delle navi è stata fatta sparire sui fondali dei nostri mari “. Non soltanto attorno alla Calabria, “ma anche nel tratto davanti a La Spezia e al largo di Livorno, dove Natale Iamonte mi disse che aveva “sistemato” un carico di scorie tossiche di un’industria farmaceutica del Nord”.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/complotto-sotto-il-mare/2109748

RIFIUTI TOSSICI & MASSOMAFIE. INDAGINI INSABBIATE DALLA DDA.

Il segreto di Ilaria

di Riccardo Bocca

Un gigantesco traffico di rifiuti tossici verso la Somalia. Servizi segreti deviati. Faccendieri. E il racconto di una teste somala: “La Alpi indagava su quella pista”

(20 gennaio 2005)

Ilaria Alpi Ilaria AlpiC’è un filo invisibile che lega Mogadiscio a Reggio Calabria. Un nesso che unisce le indagini sull’omicidio di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 uccisa il 20 marzo 1994 in Somalia con l’operatore Miran Hrovatin, e quelle sul misterioso ingegnere Giorgio Comerio, protagonista secondo gli investigatori calabresi di un gigantesco traffico di rifiuti radioattivi con altri faccendieri, malavitosi e trafficanti d’armi. Uno scandalo di livello internazionale nel quale sarebbero coinvolti decine di governi, europei e non, e intorno al quale si sarebbero per anni mossi agenti dei servizi segreti deviati e personaggi iscritti a varie massonerie.

Su questo stava indagando negli anni Novanta la Procura di Reggio Calabria, poi stoppata da un’archiviazione. L’obiettivo dei magistrati era dimostrare che un gran numero di navi venivano riempite di scorie radioattive e affondate nei punti più profondi. Non solo. Nel corso dell’inchiesta gli investigatori avevano trovato tracce del traffico di rifiuti speciali che dall’Europa venivano traghettati in Africa, oltre che del sistema O.d.m. (Oceanic disposal management) con cui il faccendiere Comerio voleva stipare la pattumiera radioattiva in siluri per spararla sotto i fondali marini. Tutti elementi che non hanno portato a un’incriminazione, a una condanna, ma che nelle informative riservate della Procura di Reggio Calabria rivelano uno stretto nesso coi fatti somali.

Non è un caso, dicono gli inquirenti, se dopo anni di silenzio la scorsa settimana è stato denunciato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Alpi un grave tentativo di depistaggio. Non è un caso se personaggi oscuri ora cercano di deviare l’attenzione, proponendo inesistenti foto satellitari dell’aggressione alla giornalista. E nemmeno, dice Domenico d’Amati, avvocato della famiglia Alpi, che venga diffusa la notizia secondo cui la Commissione parlamentare d’inchiesta avrebbe intravisto dietro l’agguato l’ombra di Al Qaeda. “Il meccanismo è evidente”, sostiene: “Fornire falsi indizi su soggetti sospetti per screditare l’indagine o inventarsi nuove piste per allungare i tempi. La riprova che gli interessi in ballo sono enormi, e ancora oggi c’è chi teme che vengano svelati”.

Parole che trovano facile conferma. Basta tornare al settembre del 1999 per scovare un altro incredibile episodio che lega il traffico di rifiuti radioattivi alla morte della giornalista del Tg3. Al centro della scena questa volta è Francesco Gangemi, sindaco di Reggio Calabria per tre sole settimane nel 1992 e cugino dell’omonimo Francesco, condannato a 10 anni per camorra. Ma soprattutto direttore del mensile calabrese “Il dibattito”, foglio a dir poco aggressivo con pirotecnici attacchi a politici e magistrati. A sua firma, sei anni fa, parte un’inchiesta dal titolo: “Chi ha ucciso Ilaria Alpi?”. Più puntate precedute da una singolare introduzione: “Fin dai primi passi di questa mia lunga strada, che immagino irta di ostacoli e contraccolpi”, scrive Gangemi, “voglio informare i nostri lettori e le autorità che eventuali rappresaglie che dovessi subire non sarebbero certo riconducibili alla ‘ndrangheta o ad altre organizzazioni criminali, ma ai servizi segreti deviati e assoggettati a taluni magistrati inadempienti ai loro doveri d’ufficio e al governo, che rimane il fulcro delle operazioni sporche che stanno inginocchiando l’umanità intera a fronte di vantaggi di varia natura”.

Di fatto oggi il mensile “Il dibattito” è stato sequestrato, e il suo direttore arrestato lo scorso novembre con l’accusa di aver esercitato pressioni su magistrati dell’Antimafia di Reggio Calabria per conto di una lobby di potere che voleva influenzare inchieste su politici e mafiosi locali. Ma allora, tra la fine del ’99 e il 2000, Gangemi ha avuto il tempo e il modo di pubblicare molti documenti segreti dell’inchiesta reggina. Pagine e pagine dalle quali emergono notizie esplosive. Rivelazioni che aiutano a capire il sistema occulto con cui per anni è stata illecitamente smaltita la pattumiera nucleare, ma anche indizi preziosi per meglio comprendere l’intera vicenda Alpi.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Il-Segreto-di-Ilaria/2129198

Scorie radioattive nei mari. Accordo tra mafie, massonerie e governi.

L’uomo che ha creato l’abisso nucleare

di Riccardo Bocca

Filmati con i test per lanciare scorie radioattive nel fondo dei mari. E documenti sulle coperture internazionali all’attività di Giorgio Comerio, il faccendiere al centro delle trame dell’omicidio Alpi.

(27 giugno 2008)

C’è qualcuno che si muove nell’ombra. Qualcuno che vuole cancellare i risultati delle indagini svolte su un capitolo gravissimo della recente storia italiana: l’affondamento clandestino di rifiuti tossici e radioattivi nei mari di mezzo mondo, Mediterraneo incluso. Una vicenda sulla quale ha scavato, a metà anni Novanta, l’attuale sostituto procuratore generale di Reggio Calabria Francesco Neri, e da cui è emerso un sistema criminale che per gli investigatori “attenta all’incolumità dell’intera popolazione mondiale”.

Al centro della scena, legati allo smaltimento illecito di scorie nucleari, l’omicidio in Somalia della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin. La vendita internazionale di armi strategiche. L’accordo tra massonerie, mafie e governi.

Nonché il sistema illegale con il quale l’Enea (l’Ente italiano per le nuove tecnologie, energia e ambiente) avrebbe eliminato avanzi radioattivi.

Argomenti ai quali ‘L’espresso’ ha dedicato, negli ultimi anni, articoli e copertine, ponendo domande che non hanno ricevuto risposte. Allora come oggi, prevalgono omertà e paura. Non conta che l’indagine di Neri sia prima passata alla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, e poi sfumata in un’archiviazione. C’è ancora molto da scoprire, in quelle centinaia di migliaia di pagine conservate nell’archivio della Procura di Reggio. Ci sono indicazioni sulle spregiudicate manovre nucleari di Europa e Stati Uniti. Ci sono i nomi di trafficanti senza scrupoli, quelli delle loro società.

E proprio per questo c’è chi cerca di eliminare gli indizi. Di recente, ad esempio, il magistrato Neri ha segnalato la manomissione del plico con i documenti raccolti da Natale De Grazia: il capitano di corvetta, morto in circostanze dubbie, che aveva trovato copia del certificato di morte di Ilaria Alpi a casa di Giorgio Comerio, un faccendiere investigato per smaltimento illecito di scorie radioattive. Ora invece è l’avvocato di Neri, Lorenzo Gatto, a rendere pubblico un episodio avvenuto il 3 giugno: “Sono andato in Procura a Reggio per cercare ancora il certificato Alpi, e ho notato un’altra anomalia: lo scatolone numero nove, quello che contiene il primo e il secondo volume di informazioni del Sismi, era aperto sul lato destro. L’ho segnalato al pm di turno e al cancelliere capo, i quali hanno riconosciuto che era staccato l’adesivo. Il cancelliere capo, allora, mi ha invitato a verificare se riuscissi a sfilare documenti, e l’ho fatto senza difficoltà: ho estratto sei fogli, chiedendo che la questione venisse messa a verbale”.

A questo punto, la speranza è che la Procura di Reggio Calabria abbia aperto un’indagine sulla scomparsa dei documenti e la violazione dei plichi. Certo è che la politica, alla notizia della scomparsa del certificato di morte di Ilaria Alpi, ha taciuto. Tutto è continuato come niente fosse. Tutto tranne un particolare: il magistrato Neri, per potersi difendere da una querela dell’ex presidente somalo Ali Mahdi (ora archiviata), ha chiesto l’accesso alle carte della sua vecchia inchiesta.

E così è tornato in possesso delle informazioni segrete che aveva dovuto cedere in corsa all’Antimafia. Pagine esplosive, dove il protagonista è Giorgio Comerio: lo stesso personaggio che nella villa a San Bovio di Garlasco (Pavia) conservava il certificato di morte di Ilaria Alpi. Un italiano che per la nostra giustizia è attualmente irreperibile, e che in passato è sfuggito alle domande della Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti.

Il perché di tanta evanescenza emerge dai documenti di Reggio Calabria. “Giorgio Comerio”, si legge in un’informativa dei carabinieri, “è persona di intelligenza spiccata, sicuramente massone, appartenente ai servizi segreti argentini e legato ai più grossi finanzieri mondiali, e in particolare europei”. Nato a Busto Arsizio (Varese) il 3 febbraio 1945, scrivono gli investigatori che “sarebbe stato espulso dal Principato di Monaco il 24 marzo 1983, e avrebbe avuto problemi con la giustizia belga per truffa e altro”. Dopodiché è stato “arrestato il 12 luglio 1984 a Lugano per truffa e frode, nonché per violazione delle leggi federali sugli stranieri”.

Fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/l-uomo-che-ha-creato-l-abisso-nucleare/2030963

"Così lo Stato pagava la 'ndrangheta per smaltire i rifiuti tossici"

Parla un boss: “Così lo Stato pagava la ‘ndrangheta per smaltire i rifiuti tossici”

di Riccardo Bocca

Condannato per traffico di droga. Ha collaborato con l’Antimafia. Ritenuto attendibile, ora ha consegnato ai giudici un memoriale. Esplosivo

(09 giugno 2005)

A partire dal giugno 2004 “L’espresso” ha pubblicato una lunga serie di articoli riguardo al traffico internazionale di rifiuti tossici e radioattivi. Un lavoro che ha avuto come prima tappa la ricostruzione del caso Rosso, la motonave che nel 1990 si è arenata su una spiaggia calabrese e che tutt’oggi è al centro di un’indagine della Procura di Paola. In seguito, l’inchiesta del nostro giornale si è allargata all’intera vicenda delle cosiddette “carrette del mare”, le navi che tra gli anni Ottanta e Novanta sarebbero state affondate volontariamente con il loro carico di scorie tossiche e nucleari. Affari di dimensioni planetarie che sono stati investigati dalla Procura di Reggio Calabria, e che avrebbero coinvolto in decine di nazioni politici e faccendieri, servizi segreti e industriali, massoni e malavitosi. Uno scenario segnato dalla morte misteriosa del capitano Natale De Grazia, consulente chiave degli inquirenti, nonché dalle tracce di scambi occulti tra Italia e Somalia nella stagione della cooperazione, secondo alcuni causa dell’omicidio dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

Ora “L’espresso” è venuto a conoscenza di un nuovo documento. Un lungo e dettagliato memoriale scritto da un ex capo della ‘ndrangheta (vedi scheda), qui tenuto anonimo per ragioni di sicurezza, già in passato collaboratore di giustizia e oggi con un cumulo di pena pari a trent’anni per associazione a delinquere e traffico internazionale di stupefacenti. Alla Direzione nazionale antimafia ha consegnato pagine scritte in prima persona, con episodi vissuti direttamente, dove le rivelazioni sull’affondamento doloso delle navi radioattive si alternano a quelle sui traffici internazionali di armi e sulle convergenze con uomini dello Stato e dei servizi segreti.

Tutto materiale che, ovviamente, dovrà essere vagliato nei minimi particolari dai magistrati, i quali peraltro stanno già da tempo lavorando su fronti connessi, in modo da confermare o smentire tutte le responsabilità delle persone citate. E soprattutto dovranno essere verificati con la massima attenzione i siti, italiani e non, dove l’autore del memoriale indica la presenza dei fusti con scorie tossiche e radioattive. Un percorso che “L’espresso” seguirà passo passo, nella speranza di raccontare al più presto la verità su questi gravi fatti.

Il primo capo della ‘ndrangheta a capire l’importanza del business dei rifiuti tossici e radioattivi è stato Giuseppe Nirta. Nel 1982 era il responsabile del territorio di San Luca e Mammasantissima, ossia il vertice supremo dell’organizzazione. Per questo aveva contatti a Roma con personaggi dei servizi segreti, della massoneria e della politica… Inizia così il memoriale consegnato all’Antimafia da un ex boss della ‘ndrangheta. Il quale precisa: “Allora non avevo rapporti diretti con i massimi vertici della famiglia di San Luca, a cui ero affiliato, in quanto il mio livello era quello cosiddetto dello “sgarro”, e gestivo solo estorsioni. Nirta però era un lontano cugino di mia madre, e per questo avevo una corsia preferenziale con lui, il quale più volte mi assicurò che il business dei rifiuti pericolosi avrebbe portato tanti soldi nelle nostre casse”.

In soccorso del ministro
“In particolare”, si legge, “Nirta mi spiegò che gli era stato proposto dal ministro della Difesa Lelio Lagorio, col quale aveva rapporti tramite l’ex sottosegretario ai Trasporti Nello Vincelli e l’onorevole Vito Napoli, di stoccare bidoni di rifiuti tossici e occultarli in zone della Calabria da individuare. L’ipotesi ventilata a Roma era quella di sotterrarli in alcuni punti dell’Aspromonte e nelle fosse naturali marine che c’erano davanti alle coste ioniche della Calabria. Nirta però mi disse che non voleva prendersi da solo questa responsabilità, e avrebbe quindi convocato i principali capi della ‘ndrangheta nella provincia di Reggio Calabria per decidere cosa fare. Mi informò anche che sia la camorra napoletana che la mafia siciliana erano già state interpellate sullo smaltimento dei rifiuti, e che avevano dato il loro benestare. La cosa comunque”, scrive l’ex boss, “non si sviluppò subito. Ci furono una serie di riunioni nei mesi successivi che si svolsero all’aperto presso il santuario di Polsi, sui monti alle spalle di San Luca, dove si teneva anche l’incontro annuale di tutta la ‘ndrangheta. Agli incontri parteciparono le famiglie di Melito Porto Salvo nella persona di Natale Iamonte, di Africo nella persona di Giuseppe Morabito (‘u tiradrittu), di Platì nella persona di Giuseppino Barbaro, di Sinopoli nella persona di Domenico Alvaro, di Gioiosa Marina nella persona di Salvatore Aquino e naturalmente di San Luca nella persona di Giuseppe Nirta. Fu lo stesso Nirta a riferirmi i particolari, perché aveva deciso che avrei dovuto occuparmi dell’aspetto organizzativo della famiglia di San Luca, e dunque dovevo conoscerne la struttura e gli affari più importanti”.

Fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Parla-un-boss/2129200

CALABRIA AL VELENO

Calabria al veleno

di Riccardo Bocca

Un’area radioattiva a pochi chilometri dal luogo del naufragio della motonave Rosso. Il sospetto di altri traffici di sostanze tossiche via mare. Con una grave minaccia per la salute. Ecco le ultime scoperte degli investigatori

(20 agosto 2009)

La motonave  Jolly Rosso  incagliata sulla costa di Paola, in Calabria La motonave “Jolly Rosso” incagliata sulla costa di Paola, in CalabriaAlla fine è emerso il peggio del peggio. Si è trovata un’area collinare, a pochi chilometri dal litorale cosentino, contaminata dalla radioattività. Si è scoperto che in quella stessa zona è avvenuto lo smaltimento di rifiuti tossici provenienti dalle lavorazioni industriali. Sono spuntate testimonianze che collegano questi ritrovamenti a traffici, via mare, di scorie pericolose. E soprattutto, si è riscontrato nei comuni limitrofi l’aumento dei tumori maligni, con un pericolo a tutt’oggi incombente sulla popolazione.

VIDEO Gli intrecci dei veleni sulle coste calabresi

Una vicenda terribile che parte il 14 dicembre 1990 dalla spiaggia di Formiciche, Calabria, mezz’ora di macchina a nord di Lamezia Terme. Pochi ombrelloni sparsi, turismo familiare e l’azzurro tenue del mare costeggiato dalla ferrovia. Qui, 19 anni fa, si è arenata davanti agli occhi perplessi dei residenti la motonave Rosso. Secondo l’armatore Ignazio Messina, si trattò di un incidente provocato dal mare in burrasca. Ai magistrati, invece, venne il dubbio che a bordo ci fossero sostanze tossiche o radioattive: bidoni che avrebbero dovuto essere smaltiti sui fondali marini, e che causa maltempo sarebbero finiti sulla costa, per poi sparire nell’entroterra. A lungo, come riferito in numerosi articoli da “L’espresso”, gli investigatori hanno cercato di scoprire la verità. Sia sul carico della Rosso, sia sulle altre carrette del mare: imbarcazioni in condizioni pietose, mandate a picco nel Mediterraneo colme di scorie. Un lavoro segnato da mille ostacoli e costanti minacce. Il 13 dicembre 1995, dentro questo scenario, è morto in circostanze più che sospette il capitano di corvetta Natale De Grazia, consulente chiave della procura di Reggio Calabria. E intanto, dall’intreccio tra Italia e altre nazioni (europee e non, comunque disposte a tutto per smaltire pattume tossico) sono uscite le figure di agenti segreti, politici ai massimi livelli, faccendieri massoni e onorati membri della ‘ndrangheta. Ma nonostante le migliaia di verbali, di indizi, di indicazioni sui presunti luoghi di occultamento, non si è raggiunta per anni la certezza. Ancora il 13 maggio scorso, il gip Salvatore Carpino si è trovato ad archiviare il sospetto di affondamento doloso e truffa pendente sugli armatori Messina. E loro hanno festeggiato: dichiarando che quest’atto chiude una stagione di “accuse infondate, calunnie, subdole diffamazioni e campagne stampa fondate sul nulla”.

Tutto a posto dunque? Nessuno ha trafficato via mare in rifiuti nucleari? Nessuno, soprattutto, è più autorizzato a ipotizzare retroscena inconfessabili per il caso “Rosso”? La risposta è no, purtroppo: niente è ancora tranquillo in Calabria. Poco è stato definitivamente chiarito, in questa storia, e il primo a riconoscerlo è il procuratore capo di Paola, Bruno Giordano: il quale non soltanto sta continuando a indagare, ma ha trovato quello che si sospettava da anni: appunto la presenza, a pochi chilometri dalla spiaggia di Formiciche, sulla strada provinciale 53 che sale in collina, di un’area radioattiva. “Prudenza e determinazione”, sono comunque le parole d’ordine. “Anzi: ancora più prudenza che determinazione”, si corregge Giordano. Teme si scateni il panico, in quest’angolo di campagna che prende i nomi di Petrone- Valle del Signore e Foresta, e che è incastrato tra i comuni di Aiello Calabro e Serra d’Aiello, lungo il greto del fiume Oliva. Già nel 2004, l’Arpacal (Agenzia regionale protezione ambiente calabrese) aveva qui scoperto metalli pesanti e granulato di marmo, utilizzato dalla malavita per schermare la radioattività.

Allora, il perito Ornelio Morselli certificò la presenza eccedente di rame e zinco, ma anche di policlorobenzeni (Pcb) con “caratteristiche tossicologiche analoghe alle diossine”. Se a questo si somma che un funzionario dell’ex genio civile, ha ammesso di avere visto un fusto nella briglia del fiume Oliva, si capisce perché l’ex pm di Paola, Francesco Greco, abbia ipotizzato un nesso tra il ritrovamento dei rifiuti e la motonave Rosso; e più in generale, un legame tra le sostanze tossiche e i traffici marittimi. Una tesi che qualcuno ha cercato di catalogare come azzardata, ma che oggi, con il ritrovamento di un documento inedito, assume tutt’altro spessore. Nel 2005, infatti, un investigatore della procura di Paola ha accompagnato al fiume Oliva Amerigo Spinelli, poliziotto municipale di Amantea (paesino accanto alla spiaggia di Formiciche). E nella sua relazione finale, ha scritto: “Spinelli indicò un’area che (…) corrisponde al greto della località Valle del Signore ed aree adiacenti “. Di più: Spinelli ha riferito “che un’ampia zona compresa tra la predetta zona e almeno 200 metri a ovest (…) era stata interessata dal deposito di rifiuti/materiali derivanti dallo smantellamento della motonave Rosso”.

Fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio//2107244/

RIFIUTI TOSSICI & MASSOMAFIE: I MAGISTRATI HANNO LE MANI LEGATE?

‘Ndrangheta, ex boss al Tg1: “Rifiuti tossici sono grande affare”
 13 ottobre 2008 – Ansa

In un’intervista esclusiva al TG1 un ex boss della ‘ndrangheta parlando del business dello smaltimento illegale dei rifiuti tossici e della Jolly Rosso, affermava che: ”Dietro allo smaltimento illegale dei rifiuti tossici c’e’ un flusso di denaro inimmaginabile”, aggiungendo poi con notevole senso critico e aderenza alla realtà che: “Quando un magistrato ha per le mani un’inchiesta del genere riesce a fare quello che gli è permesso di fare”.

Si riferiva alla capacità delle «massomafie», scoperchiate dall’ex Procuratore di Palmi Agostino Cordova nella prima metà degli anni ’90, di condizionare l’attività della magistratura, tramite la massoneria e la politica.    

 A dirlo, in un’intervista esclusiva al Tg1 e’ un ex boss della ‘ndrangheta. ”Non basta una finanziaria – spiega il collaboratore il giustizia intervistato di spalle – per spiegare i soldi che ci sono dietro questi traffici. un traffico che e’ piu’ remunerativo anche della droga”. ”Siamo stati interpellati – racconta – dal dirigente di un’industria per smaltire una marea di rifiuti radioattivi che usciva dai loro capannoni e che non potevano essere smaltiti come rifiuti legali”.

L’ex boss parla anche delle navi cariche di veleni fatte affondare in mare.

”Diverse navi, diciamo qualche decina sono state affondate – dice – con il loro carico di rifiuti tossici e radioattivi.

La Jolly Rosso e’ una di queste”. ”Tutto questo – afferma – e’ avvenuto con l’appoggio della politica.

Quando un magistrato ha per le mani un’inchiesta del genere riesce a fare quello che gli e’ permesso di fare”. (ANSA). 

Link correlati: http://www.strill.it/index.php?option=com_content&view=…g1-qr

www.lavocedirobinhood.it/Articolo.asp?id=205&titolo=LEGA NORD–MAFIA LOMBARDA. CIO’ CHE SAVIANO NON DICE O NON SA? «STATO E MASSOMAFIE COME UNICO SISTEMA»

"Presa Diretta" dimentica l'altra metà degli 'ndranghetisti.

Oltre i clan, le faide ed il controllo dei territori in cui si insedia, la ‘ndrangheta è molto di più:

è controllo e direzione dei Palazzi del Potere.

L’intreccio tra criminalità e politica non è più uno scoop, tuttavia Presa diretta, trasmissione di approfondimento generalmente serio e attento, inspiegabilmente ci rappresenta ancora un sistema mafioso vecchio stampo, un sistema che è ancora contro lo Stato e non dentro lo Stato.

Per l’intera durata della trasmissione, si sta in attesa che sia denunciato il grado allarmante di infiltrazione della ‘ndrangheta nelle Istituzioni tutte. Invece, la morale del servizio trasmesso è che la forza della criminalità risiede unicamente nel vincolo parentale.

Non è solo una questione di tradizione di famiglie/clan, è una questione di intreccio inestricabile tra Potere mafioso e Potere istituzionale. Ed in questo risiede la vera forza di una associazione mafiosa, il carattere distintivo tra una banda di delinquenti senza remore ed un gruppo criminale capace di controllare l’intero territorio nazionale.

Il servizio non può che apparire riduttivo del fenomeno mafioso, a chi ha trascorso notti insonni per il terrore di pagare al più alto prezzo la ferma e incorruttibile opposizione alla concessione di appalti da parte di Enti statali ai clan della zona.

Sottacere l’altra metà della realtà mafiosa è poco rispettoso degli onesti cittadini, calabresi e non, che ogni giorno resistono, senza eroismi e senza far clamore, e non accettano di intraprendere il facile e promettente cammino suggerito dalla criminalità politicizzata o dalla politica corrotta.

Francesca Maria Angela Borgese