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CESARE TERRANOVA. UN OMICIDIO MATURATO TRA POLITICA, MAFIA E MASSONERIA

Ad onore dei miei genitori voglio ricordare che i principi che mi hanno guidato in tutta la vita sono frutto della educazione da loro ricevuta e che, se in qualche misura sono riuscito ad operare bene da uomo e da cittadino, ciò lo devo soprattutto agli insegnamenti e agli esempi costanti di mio padre e di mia madre, ai quali va la mia infinita gratitudine.” 

1 marzo 1978

Cesare Terranova

 A Palermo viene assassinato Cesare Terranova con la sua guardia del corpo. Per due legislature, eletto nelle liste del PCI e membro della commissione antimafia, stava indagando su casi scottanti: sulla droga, che negli ultimi tempi sull’isola ha un ruolo preponderante nel traffico internazionale degli stupefacenti, oltre il consumo in Italia che é già a dimensioni allarmanti.
Terranova era il magistrato che inchiodò nel ’74 Luciano Liggio a Milano, la “Primula Rossa” di Corleone. Il Boss lasciò la potente organizzazione in Sicilia in eredità ai suoi due luogotenenti Toto Riina e Calogero Bagarella ( legati a Buscetta, Bontade (imperatore delle Tv, morirà ammazzato il 24 aprile 1981), Badalamenti, Salvo, Turatello  – e altri nomi che si intrecciano con le BR, Moro, Della Chiesa, Pecorelli, Gelli, Sindona, Calvi, Borsellino, Falcone e….  omissis, omissis, omissis)

“E solo l’inizio (ed era vero! ma all’incontrario) -disse quel giorno il magistrato a Milano – vinceremo la lotta contro la mafia; è dal 1904 che lo Stato non registrava un successo così importante”.
Ma Liggio o qualcuno per lui, lo aveva già quel giorno condannato a morte. Ma chissà perchè l’assassinio fu rivendicato da Ordine Nuovo (gli stessi che rivendicarono la strage di Piazza Fontana a Milano,  Piazza della Loggia a Brescia, attentato a Rumor, e altri tanti drammatici eventi che hanno funestato l’Italia).

 Il passaggio dalla vecchia mafia alla mafia imprenditrice non fu incruento. Come sempre i regolamenti di conti e i processi di rinnovamento vennero raggiunti con il sangue. All’inizio degli anni Ottanta scoppiò infatti la grande guerra di mafia che porterà al potere il gruppo tutt’ora egemone: i Corleonesi di Totò Riina, in principio rappresentati in Commissione dal “Papa” della Mafia, Michele Greco, della famiglia di Ciaculli, località alle porte di Palermo.

La guerra fu condotta con una violenza inaudita. In seguito si disse che questa era una novità, che la vecchia mafia usava metodi meno violenti, e che la nuova mafia aveva perso il vecchio “senso dell’onore”. A smentire questa versione stanno però i resoconti storici che risalgono fino al secolo scorso, e che da sempre narrano l’estrema violenza nella soluzione dei rapporti di forza tra le cosche. Anzi, è tradizione immutata nella mafia che l’affermazione personale avvenga sempre attraverso la violenza direttamente esercitata.

L’idea che a volte si ha dei capi mafiosi come “menti” raffinate, che vivono ad un altro livello rispetto agli esecutori dei loro voleri è del tutto sbagliata (Falcone, Arlacchi). Anzi, caratteristica peculiare della mafia, rispetto ad altre forme di criminalità di alto livello, è proprio questa identità tra mandanti ed esecutori, così che si diventa capimafia solo passando attraverso i crimini più efferati, e spesso sono gli stessi capi che partecipano direttamente alle azioni più importanti.

Alla guerra di mafia si associò anche una serie di “delitti eccellenti” che non aveva pari con la precedente storia di Cosa Nostra. Cosa era successo? Fino alla fine degli anni Settanta lo Stato aveva convissuto con la mafia in maniera piuttosto pacifica. Vi erano dirette connessioni tra potere politico e mafia, come abbiamo visto, ma vi era anche una certa tolleranza da parte della magistratura, delle forze di polizia, e persino della classe imprenditoriale nei confronti di un’associazione che garantiva una certa pace sociale, il controllo delle altre forme di criminalità, ed alla quale venivano lasciati in cambio ampi spazi d’azione.

Per svariate ragioni difficili da riassumere in poche righe, la società siciliana, sul finire degli anni Settanta, cominciò a ribellarsi a questo stato di fatto, e nella magistratura, nella società civile, e persino nella politica cominciarono a esserci voci contrarie alla mafia.

La prima reazione delle cosche fu quella di eliminare chiunque si opponesse seriamente al loro strapotere, approfittando anche del fatto che spesso queste persone erano isolate e poco protette negli stessi ambienti in cui vivevano. Iniziò così la stagione dei delitti eccellenti. Si cominciò nel 1979 con il giudice Cesare Terranova, appena tornato alla magistratura attiva dopo essere stato deputato per il PCI e membro della Commissione antimafia. Seguirono, tra i magistrati, gli omicidi di Gaetano Costa (1980), appena nominato procuratore a Palermo, e Rocco Chinnici (1983), capo dell’Ufficio istruzione di Palermo e diretto superiore di Falcone, al quale per primo aveva dato lo spazio necessario per le indagini antimafia. Tra i politici, nel 1980, di particolare significato fu l’omicidio di Piersanti Mattarella, democristiano, da poco nominato presidente della Regione Sicilia confidando nel fatto che il padre, Bernardo, aveva avuto nel passato “pacifici” rapporti con la mafia. Il cambiamento culturale che stava avvenendo in Sicilia passava però anche all’interno delle famiglie, ed il giovane Piersanti si diede subito da fare per isolare i comitati d’affari politico mafiosi nella Regione, pagando con la vita questa scelta. Ancora tra i politici, fu ucciso Pio La Torre (1982), segretario regionale del PCI, da sempre attivo nella lotta antimafia.

Anche le forze dell’ordine pagarono caramente il nuovo clima di opposizione alla mafia. Furono uccisi il vicequestore di Palermo Boris Giuliano, gli ufficiali dei carabinieri Giuseppe Russo e Emanuele Basile, e i dirigenti di polizia Beppe Montana e Ninni Cassarà. Nel settembre 1982 fu ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa con la sua giovane moglie, da 100 giorni nominato prefetto di Palermo, ed ancora in attesa di quei poteri speciali che aveva richiesto per combattere più efficacemente la mafia, e che il governo aspettò troppo a lungo a concedergli.

Avvenimenti Italiani

Il Cervello omicida non è sempre la mafia

Nella corale lotta al fenomeno mafioso è mancata – non si sa se volutamente o per incapacità – una approfondita analisi sui delitti perpetrati dalla mafia le cui vittime sono state qualificate “cadaveri eccellenti”.
Dal 1972 ad oggi, da quando cioè la Commissione Antimafia ha concluso i suoi lavori in clima di manifesta omertà, nella città di Palermo, sede del potere politico, sono stati assassinati due Procuratori della Repubblica, il magistrato capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, un colonnello dei carabinieri, un Presidente della Regione, il Prefetto di Palermo e la sua consorte, il segretario provinciale della Democrazia Cristiana, due giornalisti, il presidente di uno dei maggiori ospedali dl Palermo, il sindaco di uno dei centri della provincia, il segretario della sezione di uno dei partiti laici, il direttore di un’agenzia di banca, tutti delitti atipici, e tutti rimasti impuniti.
Da questo terrificante elenco sono stati esclusi il vicequestore di Palermo Boris Giuliano, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il maresciallo Ievolella, il brigadiere Aparo ed i numerosi agenti di polizia e carabinieri caduti nella lotta alla criminalità perché non rientrano nella categoria “cadaveri eccellenti”, anche se i delitti sono stati atipici, e anch’essi rimasti impuniti. Ovviamente non sono state incluse numerose altre “vittime eccellenti” perché in evidente odore di mafia.
Tutte le indagini per tutti i delitti si sono adagiate sulla facile pista del traffico degli stupefacenti e del riciclaggio del denaro sporco investito negli appalti delle opere pubbliche, e si è corso dietro raccoglitori di olive, supertestimoni ed altri santipaoli fabbricati dalla mafia, e non si è tenuto conto – o si è voluto ignorare – che nella storia della mafia i pochi “cadaveri eccellenti” hanno avuto “mandanti eccellenti”: e per i pochi casi registrati si ricorda l’omicidio di Emanuele Notarbartolo, barone di S. Elia, direttore generale del Banco di Sicilia, perpetrato nel 1893, per il cui assassinio è stato additato quale mandante l’onorevole Raffaele Palizzolo, deputato del collegio della “Briaria”, quartiere di Palermo tristemente famoso per essere il covo della feroce mafia protetta dai politici del partito allora al potere.
Non si è tenuto conto che sia a Palermo che altrove, la mafia non aveva mai ammazzato o fatto ammazzare uomini politici e alti funzionari dello Stato; non aveva mai “punito” o “fatto punire” un giornalista “nordico” o siciliano che da Palermo ha dettato i suoi articoli a giornali di Roma o di Milano; non ha mai attentato alle attrezzature ed agli impianti delle troupes cinematografiche, anche se il soggetto è stato dichiaratamente contro la mafia; non ha mai infastidito nessun operatore televisivo, salvo ad intervenire in sede di potere per impedire la trasmissione; non ha mai aggredito, ricattato o sequestrato un turista il cui nome è stato seguito da nomi con una lunga serie di zeri ragguagliabili in dollari e sterline.
Nel corso delle indagini per i “cadaveri eccellenti” sono state scoperte “piste convergenti” legate agli stessi motivi ed alle stesse cause per le quali sono avvenute faide fra cosche; sono stati “fatti passi avanti” per avere accertato che la stessa arma è servita per più omicidi perpetrati in tempi e luoghi diversi, e non si è tenuto conto delle diverse origini e cause, della diversa qualità delle vittime e, soprattutto, del fatto che “quell’arma” può anche essere “attrezzo di lavoro” di proprietà di una “anonima delitti” che noleggia la manovalanza armata per la esecuzione di lavori su commissione da eseguire a Palermo o a Catania, in Toscana o nella Germania Occidentale, ove sono avvenuti fatti delittuosi atipici.
L’avere accomunato in un unico fascio tutti i delitti e tutte le vittime, attribuendole alla cosiddetta “mafia emergente”, cioè alle cosche del traffico degli stupefacenti che sono riuscite ad eliminare le “consorelle concorrenti”, è stato un grosso errore che ha favorito la “grande famiglia” della mafia palermitana della quale fanno parte uomini politici e alti burocrati, gli stessi che sono riusciti ad uscire indenni ed indisturbati dalle indagini e dalla inchiesta della Commissione Antimafia.
Ritenere, ad esempio, che Pio La Torre, segretario regionale del Partito Comunista, deputato al Parlamento, ex membro dell’Antimafia, e Cesare Terranova, ex deputato eletto nelle liste del P.C.I., ex membro della Commissione Antimafia e, come tale, come La Torre, depositario dei segreti della “santabarbara” della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, siano stati fatti assassinare da Luciano Liggio o dalla “mafia emergente” – palermitana o catanese poco importa – è stato un errore perché ha depistato le indagini, ha disorientato l’opinione pubblica che dal Partito Comunista in Sicilia si aspetta ben altro tipo di lotta alla mafia e soprattutto una più impegnata lotta ad alcuni gruppi di potere ed alla parte corrotta e corruttrice dell’alta burocrazia dello Stato e della Regione, ha fermato le ansie e le spinte di quanti vorrebbero collaborare con le forze di polizia, come è avvenuto negli anni della prima fase dei lavori dell’antimafia, quando molti siciliani uscirono dall’atavico silenzio ed additarono alle autorità di polizia ed all’opinione pubblica alcuni boss ritenuti intoccabili.
Di fronte a questi assurdi ed inspiegabili fatti che hanno il sapore dell’omertà politica si prova un vero senso di sgomento: si ha l’impressione che tutte le indagini che riguardano le “vittime eccellenti” cozzino contro il muro di solidarietà fra partiti e correnti e cadano sulla facile e generica strada della criminalità comune con l’inevitabile risultato che dopo poche settimane gli arrestati vengono rimessi in libertà per insufficienza di indizi, si rimane sgomenti perché si è testimoni della terribile verità triangolare che vede da un lato carabinieri e polizia procedere ad arresti di veri e presunti criminali, dall’altro alcuni magistrati “di grido”, ritenuti depositari della verità e della lotta alla mafia, portati in giro come fossero il braccio di San Francesco Saverio, rimanere impotenti (o indifferenti) di fronte a sentenze di proscioglimento o di assoluzione, e, dall’altro, infine la mafia che “giustizia” suoi accoliti e servitori dello Stato (terribile a dirsi: sono stati assassinati fino ad oggi 76 dei 114 mafiosi processati ed assolti a Catanzaro mentre altri 13 sono scomparsi).
Purtroppo, i morti ammazzati dalla mafia non parlano e i vivi, quelli che sanno, tacciono, o perché hanno paura, o per sfiducia nelle istituzioni dello Stato, o per solidarietà politica di corrente o di partito, o addirittura, per la partecipazione al potere. Illudersi di avere mafiosi pentiti è un’utopia perché l’esperienza ha dimostrato che i rari casi del genere sono finiti nei manicomi.
Se i molti ammazzati dalla mafia potessero parlare molti boss della politica, alcuni deputati e forse anche qualche uomo di governo potrebbero finire in galera o quantomeno sul banco degli imputati. Se il Parlamento decidesse di rendere di pubblico dominio “le schede” degli uomini di partito ed anche dei parlamentari i cui nomi ed i cui riferimenti sono stati estratti dai fascicoli personali di esponenti mafiosi e dal materiale probatorio raccolto dalla Commissione Antimafia, crollerebbero alcune maggioranze nei partiti, scomparirebbero dalla scena politica alcuni notabili, verrebbero emarginati alcuni capi corrente ed alcuni feudi elettorali cesserebbero di essere supporto per il potere di alcuni capi corrente nazionali.
Verrebbe fuori che Piersanti Mattarella, Presidente della Regione, uno dei pochi e rari uomini siciliani di governo non “parlato”, Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana e Cesare Manzella, presidente dell’ospedale traumatologico-ortopedico di Palermo (undici miliardi di bilancio l’anno) sono stati assassinati in un intreccio di inestricabili rivalità ed egemonie per il controllo e lo sfruttamento di settori della vita pubblica, controllo e sfruttamento che è stato possibile esercitare se e in quanto sono esistite compiacenze, legami, collusioni e complicità tra boss della mafia e politici boss, tra “famiglie” di mafia, “baronie” politiche e burocratiche nello Stato e nella Regione.
Verrebbe fuori anche che Terranova e La Torre sono stati assassinati proprio quando, mutati i tempi, e cambiato indirizzo, il Partito Comunista in Sicilia è ritornato sulle posizioni di intransigente lotta al sistema di potere “all’italiana” nel quale lo “spirito di mafiosità” è diventato elemento di aggregazione tra forze politiche eterogenee il cui obiettivo è la partecipazione al potere, cioè, verrebbe fuori che Terranova e La Torre sono stati assassinati proprio quando la “grande famiglia” della mafia palermitana si è resa conto che stavano per essere buttati in pasto all’opinione pubblica i nomi dei politici trascritti nelle “schede ” della Commissione Antimafia, le schede dichiarate segrete col voto unanime di tutti i membri dell’Antimafia il 31 marzo 1972.
E verrebbe fuori che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è caduto sulla strada delle “schede segrete”, alcune delle quali sono state compilate con le documentate denunzie contenute nel rapporto 23/461 che lo stesso Dalla Chiesa aveva inviato alla Commissione Antimafia il 31 dicembre 1971 quando era comandante della legione dei carabinieri di Palermo.
Anche il rapporto Dalla Chiesa è stato coperto da segreto dai deputati e senatori componenti l”‘Antimafia”, segreto da me violato quando sono riuscito a consegnarlo al Tribunale di Torino a cui la Commissione lo aveva negato.
«Anche quando si è avuta la certezza di avere colpito i gangli vitali della mafia – ha scritto e ripetuto più volte Dalla Chiesa – si è dovuta constatare una vanificazione degli sforzi, vanificazione dovuta, fra l’altro, al mancato accoglimento delle più volte invocate norme che consentono interventi fiscali e paralleli a quelli della polizia», interventi che Dalla Chiesa voleva venissero estesi anche alle sedi, negli ambienti e per le fonti con le quali sono state raggiunte rapide e facili carriere politiche associate a smisurati e rapidi arricchimenti.
E‘ ovvio che tornato in Sicilia con l’incarico di Alto Commissario per la lotta alla mafia, Dalla Chiesa ha chiesto “le norme più volte invocate”, e non avendole ottenute ha minacciato le dimissioni. Ma un generale non si dimette, semmai cerca nuove strategie, nuove alleanze per continuare la lotta intrapresa nella quale crede e per la quale ha dedicato il meglio di se stesso.
Dalla Chiesa è stato assassinato l’indomani che era riuscito a creare nuove strategie e nuove alleanze: è stato ucciso immediatamente dopo il suo incontro con il Ministro delle Finanze da cui aveva ottenuto la mobilitazione della Guardia di Finanza per «gli accertamenti fiscali e paralleli a quelli della polizia» a carico di molti politici boss. La raffica che ha stroncato l’Alto Commissario per la lotta alla mafia è stata, sì, una punizione per il funzionario dello Stato che aveva osato uscire dai vecchi schemi affrontando la mafia sul terreno politico-finanziario, ma è stato anche un avvertimento per i partiti che minacciano di scoprire i nomi dei politici collusi e complici con la mafia.
Ho incontrato due volte il generale Dalla Chiesa: una prima volta, nel gennaio 1977, all’hotel Liguria di Torino, pochi giorni dopo che avevo consegnato il rapporto 23/461 al Tribunale di Torino, chiamato a giudicarmi per diffamazione a mezzo stampa su querela dell’allora ministro Giovanni Gioia e di altri nove suoi amici e parenti.
Con molta cordialità, ma con insistenza, Dalla Chiesa chiese per quali vie ero entrato in possesso del rapporto da lui inviato al Presidente dell’Antimafia. «A me non dispiace – disse testualmente – che lei sia riuscito a fare qualificare amici dei mafiosi alcuni uomini politici di Palermo, nei cui confronti ho espresso un mio giudizio». «Mi preoccupa – e ripetè le parole come a sottolinearle – che un documento “riservato” sia finito nelle mani di un privato. Non le chiedo i nomi, mi dica almeno per quali vie ne è entrato in possesso». Debbo dire che non rimase convinto quando gli dissi di aver ricevuto il grosso plico per posta, senza il nome del mittente.
Una seconda volta ho incontrato Dalla Chiesa, all’aeroporto di Fiumicino, nell’ottobre del 1981. Non so se era nell’aria un suo trasferimento a Palermo, è certo però che il suo interesse nella conversazione (durata circa mezz’ora, presente un giovane alto, robusto, castano, sui 35 anni, che più volte chiamò «capitano») fu per i legami tra mafia e politica, per le collusioni tra politici e boss della mafia, per la mafia nell’apparato dello Stato e della Regione e soprattutto per le “schede segrete”dell’Antimafia, “schede” che potrebbero distruggere le carriere di numerosi notabili siciliani, con grave pregiudizio per alcune correnti della Democrazia Cristiana.
Dalla Chiesa era convinto che oltre alla “scheda Gioia” fossero in mio possesso altri documenti relativi alla mafia ed ai poteri pubblici, documenti fattimi avere da nemici ed avversari di partiti e di corrente. Si tratta delle “schede” che la Commissione Antimafia ha elaborato sulla scorta della documentazione raccolta nei 13 anni di sua attività, ricavate dalle deposizioni, dalle relazioni e dai rapporti di prefetti, procuratori generali, procuratori della Repubblica, questori, colonnelli dei carabinieri. Fra questi documenti vi è anche il rapporto del generale Dalla Chiesa.
«La Commissione avvertì – si legge nella “Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno mafioso alla fine della IV legislatura”: doc XXIII n. 2 septies, pagg. 140 e 141 – come il suo compito più significativo fosse appunto quello di sciogliere il nodo dei rapporti tra mafia e pubblici poteri in quanto ritenne che fosse questa la ragione essenziale della sua istituzione ed in quanto comprese che solo un organo politico come la commissione avrebbe potuto perseguire uno scopo del genere con la necessaria efficacia, imparzialità e credibilità».
«L’Antimafia si preoccupò – continua la relazione – di impostare uno specifico programma sui rapporti tra mafia e poteri pubblici, e successivamente di costituire un apposito Comitato di indagine che operasse in stretto collegamento con l’ufficio di presidenza, secondo i criteri indicati dalla Commissione plenaria. In adempimento di questo suo compito il Comitato ha provveduto anzitutto ad estrarre dal materiale probatorio raccolto dalla Commissione tutti i riferimenti ad uomini ed organizzazioni di partito; questi riferimenti – continua la relazione – sono stati estratti dai fascicoli personali di esponenti mafiosi, da segnalazioni e documenti inviati da privati o da uffici, dagli atti acquisiti dall’Antimafia nel corso della sua attività e in particolare dalle deposizioni di testimoni e dalle dichiarazioni rese alla Commissione ed a singoli comitati. Sono state quindi – conclude la relazione – redatte apposite schede nominative in ciascuna delle quali è stato riportato in sintesi il contenuto della documentazione».
Queste schede sono diventate segreto di Stato. Nella confusa fase politica di una non meglio qualificata maturazione di nuovi indirizzi politici e nel clima di un inspiegabile ed assurdo compromesso, tutti i partiti hanno consentito che i loro rappresentanti nell’Antimafia coprissero con atto di manifesta omertà «i riferimenti a uomini politici ed a partiti estratti dal materiale probatorio raccolto dalla Commissione».
Quante maggioranze crollerebbero all’interno dei partiti laici se le terribili schede venissero rese di pubblico dominio? Con quali partiti e con quali correnti dovrebbero trattare i partiti immuni dalla mafia – ammesso che ve ne siano – per costituire alleanze e maggioranze per partecipare e collaborare al governo?
La crisi dell’Antimafia non è stata provocata dalla vischiosità del fenomeno mafioso, dalla impossibilità di dare una connotazione alla mala pianta della mafia. La vera crisi è stata nei partiti, ed è stata provocata dalla paura di concludere, dal timore di portare alle estreme conseguenze i risultati di una indagine che non a caso aveva indotto i tre presidenti a proferire trionfalistiche ma fondate dichiarazioni di soddisfazione e di fiducia per il materiale raccolto.
I partiti non hanno compreso – o non hanno voluto comprendere – che il problema della mafia è un fatto politico nazionale. E’ un problema dei partiti all’interno dei quali va iniziata la prima vera lotta per sradicare lo “spirito di mafiosità”, inteso come solidarietà brutale e istintiva fra quanti vogliono conquistare il potere, “spirito di mafiosità” che soffoca la vita politica in Sicilia, ove il potere politico ha il carattere di tipica marca proconsolare.
Pubblicare le “schede” è un atto al quale i partiti ed il Parlamento non possono sottrarsi. Continuare a mantenerle segrete significa accollarsi la responsabilità e la colpa dei “cadaveri eccellenti” che inevitabilmente seguiranno.

A cura di Michele Pantaleone

MASSOMAFIA: "MI DICEVANO DI LASCIAR PERDERE". IN ONORE DI GIUSEPPE D'URSO

L’EROE SCONOSCIUTO CHE PER PRIMO RIVELO’ INASCOLTATO CHE «STATO E MASSOMAFIE» SONO UNA «COSA SOLA».

di Pietro Palau Giovannetti (sociologo)

Il termine sincretico «massomafie», quasi mai utilizzato dai media,  è stato coniato negli anni ’80 dal Prof. Giuseppe D’Urso, docente universitario e presidente per la Sicilia dell’Istituto Nazionale di Urbanistica che, per primo, grazie alle sue ricerche, svolte in ambito istituzionale, svelò il connubio fra mafie, massonerie e sistema giudiziario, quale collante del controllo politico-economico-mafioso del territorio, denunciando inascoltatamente i cavalieri catanesi, i magistrati corrotti al loro servizio, gli appalti e le connivenze politiche-affaristiche, indicandoci che le mafie, ieri come oggi, non sono una patologia tipica delle Regioni del Sud Italia, ma un vero e proprio «braccio armato» di un regime corrotto, un «male endemico» diffuso e istituzionalizzato, protetto e organizzato su basi ben precise, espressione di una parte consistente della classe dirigente locale e nazionale.  Quella che, negli ultimi decenni, sino alle più recenti vicende sulla P3,  è emerso essere, in maniera sempre più nitida, collegata a doppio filo, a consorterie occulte, dalla Massoneria (deviata) all’Opus Dei, dal Bilderberg ai Cavalieri di Malta, etc…

A partire dagli anni ’60, studiando gli investimenti di capitali in grandi operazioni immobiliari, soprattutto acquisti di terreni e costruzioni di opere pubbliche, il Prof. D’Urso denunciò instancabilmente, sino alla morte, anche nel corso di assemblee sindacali a livello nazionale, dibattiti e interviste, l’esistenza di poteri occulti in grado di condizionare la magistratura e la vita democratica.

Fu lui, scrive Riccardo Orioles, a postulare per primo, e a descrivere con precisione, il legame organico fra mafie e massonerie, ad analizzarne le strutture, a denunciarne la strategia. Tutti gli altri, vennero dopo. E quando, faticosamente, il concetto di “massomafia” – il termine da lui coniato nei primi anni Ottanta – divenne senso comune, allora e solo allora la lotta ai poteri mafiosi poté cominciare davvero. Andreotti, Licio Gelli, i cavalieri catanesi ebbero nel suo cervello il nemico piu’ pericoloso. [“La raison tonne en son cratère”, Riccardo Orioles, in “Allonsanfan”, libro elettronico].

Il Prof. D’Urso, fondatore della storica Associazione “I Siciliani“, è infatti ricordato come il principale punto di riferimento del movimento antimafia di Catania e di Palermo, poiché non si era limitato ad individuare la crucialità del rapporto tra massoneria e mafia, ma l’aveva tradotta in puntuali atti di denuncia all’Autorità giudiziaria, a cui per lunghi anni inascoltato aveva trasmesso l’enorme materiale probatorio silenziosamente raccolto sulle prove delle irregolarità amministrative, i misfatti edilizi, gli appalti pubblici pilotati e gli insabbiamenti da parte della magistratura catanese collusa con mafia, politica e massoneria.

«Per ogni abuso» – scrive di lui Claudio Fava – «il professor D’Urso aveva compilato un dossier completo di cifre, nomi, indicazioni di legge, estratti del Piano regolatore, copie di delibere comunali. Quegli esposti, con incrollabile perseveranza, forse perfino con un filo di dolente ironia, erano stati puntualmente spediti all’autorità giudiziaria. Che per molti anni aveva continuato ad inghiottirli in silenzio. L’ultimo fascicolo Giuseppe D’Urso aveva preferito invece farlo trovare sui banchi del Csm. Dentro, in bell’ordine, i promemoria del professore su tutte le inchieste insabbiate dalla Procura di Catania: le protezioni accordate, le illegalità compiute, le indagini depistate. Ma soprattutto c’era il testo del telegramma che D’Urso aveva spedito “per conoscenza” a ministri e presidenti di mezza Repubblica. La vertenza Catania di fatto era nata su quelle poche righe di denuncia civile, sull’intransigente ribellione di un “cittadino qualsiasi.”…». [“La mafia comanda a Catania”, C. Fava, Laterza, Roma-Bari 1991].

«Per primo» – aggiunge Peppe Sini, responsabile del “Centro di ricerca per la pace” di Viterbo – «il professor D’Urso aveva individuato la crucialità del rapporto tra massoneria e mafia. Rapporto, e decisività, successivamente emersi con grande evidenza: cfr. ad esempio la “tesi 8” nel libro di Luciano Violante, «Non è la piovra. Dodici tesi sulle mafie italiane» [Einaudi, Torino 1994, pp. 169-181]; e varrà la pena di trascrivere qui almeno l’enunciazione di questa tesi: “Logge massoniche “deviate” costituiscono il tramite più frequente e più sicuro nei rapporti tra mafia e istituzioni. Per mezzo di queste logge, in particolare, la mafia cerca di “aggiustare” i processi che la riguardano. Esponenti delle logge massoniche, a loro volta, hanno chiesto in diverse occasioni la partecipazione di Cosa Nostra a vicende criminali ed eversive. Il terreno d’incontro tra la mafia e queste logge è costituito dai comuni interessi antidemocratici». [“Esempi per una cultura antimafia: Giuseppe D’Urso”, http://lists.peacelink.it/mafia/msg00042.html ].

Ci piacerebbe sapere, se dopo la scomparsa del professor D’Urso, avvenuta il 16 giugno 1996, nel generale e servile silenzio di media e istituzioni, i suoi scritti ed il suo archivio siano stati ordinati, pubblicati e messi a disposizione degli studiosi, delle istituzioni e delle associazioni antimafia, oppure se “more solito” le massomafie che, oltre alla magistratura e alla politica, controllano anche la cultura dominante e l’informazione, siano riuscite ad occultare tutto.

Di seguito riportiamo un’intervista esclusiva dell’epoca, rilasciata dal Prof. D’Urso al settimanale “I Siciliani”, nonché subito dopo, in calce, un suo interessante intervento, seppure molto schematico, in occasione dell’assemblea nazionale delle Confederazioni Sindacali Cgil, Cisl, Uil, che si tenne a Palermo il 15 e 16 ottobre 1982, dopo il delitto Dalla Chiesa, dal titolo: “Per la democrazia, il lavoro, lo sviluppo: lotta alla criminalità mafiosa e al terrorismo”.

Tutti gli atti dei lavori vennero in seguito pubblicati ma tra di essi non vi era però singolarmente traccia delle schede presentate dal Prof. D’Urso sulla necessità di approfondire l’analisi degli assetti e delle trasformazioni del territorio, quale strumento formidabile per comprendere, risalendo alle cause, interconnessioni occulte, intrecci speculativi e per conoscere i gestori segreti.

MASSOMAFIA. IL TEOREMA. MI DICEVANO DI LASCIAR PERDERE.

da “I Siciliani settimanale”, 19 marzo 1986

Per anni ha denunciato, quasi inascoltato, l’esistenza di un intreccio di interessi illegali tra massoneria nera e mafia, coniando persino un termine inedito, massomafia. Oggi la scoperta della loggia di via Roma conferma le intuizioni del professore Giuseppe D’Urso, docente universitario catanese ed ex dirigente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica. Lo abbiamo intervistato.
– Professore, quando e da cosa nascono le sue intuizioni?
«Nascono da analisi territoriali che a partire dagli anni sessanta vado facendo, per ragioni di studio, in tutta la Sicilia sui capitali investiti in grandi operazioni immobiliari, soprattutto acquisti di terreni e costruzioni di opere pubbliche. La cosa che dapprima mi meravigliò e su cui poi cominciai a riflettere fu la serie di coperture offerte a queste operazioni da personaggi di rilievo della vita politica ed istituzionale siciliana. Ogni volta che cercavo di vedere chiaro in certe speculazioni, ricevevo da parte di questi personaggi – politici, magistrati, professionisti – certi consigli: stare calmo, non interessarmi troppo di certe cose, farmi gli affari miei, insomma. Così, alla fine, mi resi conto che dietro quelle operazioni si muoveva un fronte occulto che collegava tra loro personaggi apparentemente del tutto slegati l’uno dall’altro. A comprendere la natura di questi legami mi aiutò una ricerca dell’università di Catania che si basava sul rinvenimento di una serie di documenti di logge massoniche di quell’epoca ritrovate a Messina. Ne venivano fuori interessantissime considerazioni sui rapporti, esistenti prima del fascismo, tra logge massoniche e mafia. Quello che mi colpì fu il fatto che molti dei nomi citati in quella ricerca si ritrovavano – e si ritrovano ancora oggi – perfettamente inseriti ai posti chiave del potere in Sicilia».
– Una sorta di discendenza di padre in figlio, insomma…
«Proprio così. Approfondii queste coincidenze e mi convinsi dell’esistenza di una serie di interconnessioni tra i vari poteri, le istituzioni, l’imprenditoria, la stampa, la cultura e così via. E il collante era proprio la massoneria, alla quale aderiscono molti dei personaggi eccellenti della società siciliana».
– Quando si parla di massoneria la verità viene a galla molto, troppo lentamente. Perché?
«Esiste una volontà politica di mettere tutto a tacere. Io per esempio mi sono molto meravigliato del fatto che la Commissione sulla P2 non abbia pubblicato gli elenchi di tutti i massoni italiani. Alcuni commissari hanno barattato la loro adesione alla relazione Anselmi in cambio della segretezza di questi elenchi; e tra coloro che si sono opposti alla pubblicazione dei nomi ci sono alcuni politici siciliani di spicco, come il socialista Salvo Andò e il senatore democristiano Calarco».
– A Palermo una parte di verità è venuta a galla dopo la scoperta della loggia di via Roma. E a Catania?
«Anche a Catania esistono delle logge che attraversano trasversalmente i partiti di governo, le istituzioni, la stampa cittadina, l’imprenditoria. Un comitato d’affari, insomma, che da venti anni governa di fatto la città. Se proviamo ad immaginare uno scenario non troppo fantastico, possiamo assegnare il ruolo di gran maestro all’onorevole democristiano Nino Drago, probabilmente la vera testa pensante di questo comitato. Ogni tanto c’è un ricambio di uomini, ma i metodi restano sempre gli stessi. E questi vengono applicati, da altri uomini, in tutta la Sicilia».

http://www.claudiofava.it/old/siciliani/memoria/masso/mas02.htm

L’eredità perduta.

Quello che consta rimanere dell’enorme mole di scritti, esposti al C.S.M. e denunce corredate da voluminosi dossier,  pare siano solo una serie di schede in cui traccia un’analisi degli assetti e delle trasformazioni del territorio che costituiscono, a suo avviso, «uno strumento formidabile per comprendere, risalendo alle cause, interconnessioni occulte, intrecci speculativi, per conoscere i gestori segreti delle più grosse operazioni di rapina mafiosa nel territorio siciliano», di cui afferma aver fornito agli organi inquirenti e alle massime cariche dello Stato ogni più dettagliata informazione.

Le schede rappresentano, secondo le stesse indicazioni dell’Autore «tracce sistematiche di lavoro di ulteriore ricerca collettiva da svolgere». Ne riproduciano di seguito integralmente il contenuto, tratto da Avvenimenti del giugno 96 [in ”Antimafia” n. 2/1990].

“PER RIPRENDERE E CONTINUARE”

di Giuseppe D’Urso 

La sezione siciliana dell’Istituto Nazionale di Urbanistica sottolinea la maturità dei contenuti e l’approfondimento delle tematiche di tutti gli interventi di questa coraggiosa e democratica assemblea.

Per noi, urbanisti democratici, l’analisi degli assetti e delle trasformazioni del territorio costituisce uno strumento formidabile per comprendere, risalendo alle cause, interconnessioni occulte, intrecci speculativi e per conoscere gestori segreti.

Abbiamo fornito e forniamo alla Magistratura elementi precisi e puntuali sulle più grosse operazioni di rapina mafiosa nel territorio siciliano.

Al Sindacato democratico, unitariamente riunito oggi a Palermo, vogliamo invece fornire delle riflessioni, sotto forma di schede sintetiche, per contribuire a fare chiarezza sulle questioni generali dibattute in questa assemblea e ciò alla luce dell’esperenza fatta nelle nostre specifiche ricerche.

Le schede rappresentano tracce sistematiche di lavoro di ulteriore ricerca collettiva da svolgere.

Esse sono le seguenti:

Scheda 1

Necessità di possedere una definizione complessiva, esaustiva e storicamente valida del fenomeno in generale etichettabile come: “alta criminalità organizzata”.

E’ necessaria l’unificazione sistematica di fenomeni sociali come:

a) criminalità economica organizzata

– mafia (Sicilia)

– ‘ndrangheta (Calabria)

– camorra (Campania)

– fibbia (Puglia)

– banditismo (Sardegna)

b) servizi segreti deviati

– dell’est (Patto di Varsavia)

– dell’ovest (Patto Atlantico)

– del Terzo Mondo (Paesi non allineati)

c) criminalità politica organizzata

– terrorismo rosso

– terrorismo nero

d) poteri occulti laici

– massoneria bianca ((Ovest-Est-Terzo Mondo)

– massoneria nera (nei Paesi dell’Ovest)

– massoneria rossa (nei Paesi dell’Est)

e) poteri occulti religiosi

– cattolici (internazionali)

               – Opus Dei

               – gesuiti laici

               – cavalieri di Malta

– altre religioni (terzo mondo)

Anche se si rischia di allargare troppo il campo dell’indagine, questo è uno sforzo che deve essere compiuto con l’aiuto degli intellettuali progressisti: il rischio inverso è quello di tenere l’obiettivo puntato sopra un elemento troppo limitato rispetto al quadro generale.

Bisogna individuare l’intera figura della “piovra” e non solamente uno dei suoi innumerevoli tentacoli (il quale anche se asportato, col tempo si riforma così come era).

Una definizione di “alta criminalità organizzata” può essere la seguente:

Gruppo sociale chiuso che, nell’ambito di un sistema economico, articolandosi in una complessità di sottogruppi, ha come fine l’accumulo e la gestione per i propri affiliati di ricchezze non lavorative: il “gruppo” si avvale di strumentazione per la violenza fisica e l’intimidazione morale, lega i suoi appartenenti con regole di subordinazione e di morte ed ha un processo di adeguamento continuo a quello del sistema economico a cui si riferisce“.

Scheda 2

Necessità di possedere una visione storica del problema, cercando di intravedere i nessi tra storia della Sicilia, storia del Meridione d’Italia e storia d’Italia dall’Unità alla fine della seconda guerra mondiale (conferenza di Yalta).

A questa scheda si allegano alcune fotocopie di testi ritenuti fondamentali per la comprensione di come alcuni fatti economico-sociali si sono tra loro intrecciati: tutto ciò per capire quali sono le interconnessioni del presente e quindi la limitazione delle analisi che focalizzano solo un aspetto della questione.

L’analisi storica deve mettere in luce quali sono stati i rapporti tra potere economico e potere istituzionale sia nelle campagne che nelle città, sia al centro (Roma) che in periferia (settentrionale e meridionale) facendo risaltare come il tutto si è evoluto fino ai nostri giorni (e ciò al di fuori di esasperati ideologismi).

Debbono individuarsi fatti, situazioni e nomi precisi in modo tale da comprendere in maniera puntuale i corsi e gli intecci degli avvenimenti economico-sociali.

Le tappe di questa analisi sono:

1) la situazione preunitaria

2) l’Unità, Cavour e Garibaldi

3) l’età giolittiana

4) la prima guerra mondiale ed il primo dopoguerra (arricchimenti di guerra e loro impieghi)

5) avvento del fascismo: lotta alla mafia ed alla massoneria: il concordato

6) secondo conflitto mondiale e sistema Yalta

7) il secondo dopoguerra, ricostituzione di “cosche” e di “logge” e loro scala internazionale.

Scheda 3

Necessità di possedere una chiara radiografia dello stato patrimoniale degli individui e dei gruppi che gestiscono oggi il sistema economico, il sistema istituzionale, il sistema dei mass-media, il sistema culturale. Solo una analisi puntuale in questo senso può porre in luce i sotterranei rapporti che, mettendo in cortocircuito il potere economico, il potere politico (legislativo, esecutivo, giudiziario), il potere dell’informazione ed il potere culturale, bloccano di fatto lo sviluppo economico e democratico del popolo italiano a vantaggio di determinati gruppi chiusi di sfruttamento economico e di conseguente reazione politica.

I lavoratori italiani debbono farsi carico politico di analisi che, focalizzando comuni, province, regioni, organizzazione statale, mettano a nudo, attraverso l’indagine finanziario-catastale, le posizioni di tutti gli attuali detentori di potere.

Debbono farsi altresì carico dell’introduzione di una strumentazione democratica che consenta per il futuro il controllo continuo su tutti i detentori di potere previsti dalla nostra carta costituzionale.

Riproporre oggi tali materiali e schede che conservano piena attualità e necessità di approfondimento ci appare oltre che un valido strumento di analisi metodologica del fenomeno massomafioso anche un modo per rendere omaggio a uno dei più coraggiosi siciliani  che ha combattuto come pochissimi altri per il bene comune e fare emergere la Verità e la Giustizia (n.d.r.).

L’insabbiamento del «Caso Catania»

Alla fine del 1982, dietro denuncia del Presidente della sezione siciliana dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, Prof. Giuseppe D’Urso, scoppiava il “Caso Catania”.

Il Consiglio Superiore della Magistratura (C.S.M.) aveva finalmente avviato una inchiesta sui denunciati ritardi, omissioni, falsità in atti pubblici e insabbiamenti di alcune scottanti inchieste della Guardia di Finanza e di altre Procure, segnalati dal noto urbanista e docente siciliano.

Mentre a Palazzo dei Marescialli la Commissione referente del C.S.M. interrogava il procuratore capo aggiunto Giulio Cesare Di Natale e il sostituto procuratore Aldo Grassi, i principali indiziati del cd. “Affaire Catania”, a Catania il sostituto Procuratore D’Agata spediva 56 comunicazioni giudiziarie per altrettanti imprenditori e presunti faccendieri siciliani coinvolti in un colossale giro di fatture false e di frodi fiscali.

il rapporto della Guardia di Finanza era stato lasciato in un cassetto, negli uffici della Procura, per molti mesi; e improvvisamente, mentre a Roma si sceglieva il capo della Procura catanese, questo fascicolo delle Fiamme Gialle tornava a galla e partivano 56 comunicazioni giudiziarie.” [Claudio Fava, “La Procura di Catania può saltare in aria”, I Siciliani, Febbraio 1983] (6).

Il 15 dicembre 1981, il Prof. D’Urso risulta avere infatti inviato un voluminoso carteggio sulle presunte irregolarità nell’appalto che il Comune di Catania concesse all’impresa del cavaliere del lavoro Francesco Finocchiaro per la costruzione dell’edificio che ancora oggi ospita gli Uffici giudiziari catanesi. Per finanziare i lavori e affidarne la realizzazione, l’Amministrazione Comunale aveva utilizzato – sosteneva nel suo esposto il prof. D’Urso – una legge creata per scopi totalmente diversi. Una legge, invero, chiarissima – osserva Claudio Fava – «che era difficile pensare ad un errore in fase di interpretazione».

Quell’esposto non aveva ricevuto alcuna risposta né dalla Procura di Catania, né dal C.S.M.

Poi, ad ottobre, dieci mesi dopo, con un breve telegramma di poche righe, indirizzato anche al Presidente, Sandro Pertini, il Prof. D’Urso denuncia il silenzio in cui erano caduti i precedenti esposti inviati al CSM, contenenti voluminosi dossier e vere e proprie circostanziate denunzie, con cifre, testimonianze, documenti, fotocopie di delibere comunali viziate, estratti del piano regolatore, citazioni di articoli di legge completamente disattesi. Tra i dossier scottanti c’era anche quello della Guardia di Finanza di Agrigento e l’impresa di costruzioni Rendo.

Dopo la barbara uccisione del Generale Dalla Chiesa e della moglie, l’opinione pubblica e la società civile premevano per conoscere tutte le verità e la situazione della Procura catanese, osserva Claudio Fava, «non poteva rimanere nel sospetto: bisognava acclararne la trasparente linearità dei comportamenti di legge, oppure le colpe. Quali esse fossero».

Ed è così, che dopo l’interlocutoria designazione di Costa a procuratore Capo, seppure fosse ormai prossimo al pensionamento, il C.S.M. affida l’incarico di coordinare l’inchiesta della prima Commissione Referente al prof. Alfredo Galasso, docente universitario palermitano, membro “laico” del Consiglio Superiore della Magistratura. Tutte le denunzie pervenute al Consiglio sulla Procura di Catania vengono riunite nel procedimento N. 501/81 e proprio prendendo lo spunto da questi “capi d’accusa” la Commissione chiede formalmente ai vertici giudiziari catanesi (Presidente del Tribunale, Ufficio Istruzione e Procuratore Generale) dettagliate informazioni sullo stato delle più scottanti inchieste da anni giacenti presso la Procura catanese. Anzitutto il rapporto della Guardia di Finanza di Agrigento che aveva provocato le 56 comunicazioni giudiziarie di novembre. L’inchiesta della G.d.F. era nata nel 1979 dalle indagini su un imprenditore di Licata, Giuseppe Cremona, che due anni prima era stato arrestato con l’accusa di ricettazione di veicoli pesanti. Il Cremona, accertarono i finanzieri, successivamente aveva preso in subappalto alcuni lavori per la costruzione di una diga nella provincia di Enna. La ditta che aveva fornito il subappalto era l’Ira, una delle molte imprese del gruppo Graci. La Guardia di Finanza scoprì una grossa partita di fatture false rilasciate dal Cremona alla ditta di Graci per lavori in realtà mai eseguiti. Servendosi di queste fatture fasulle l’Ira avrebbe evitato (questa l’accusa della Finanza) di versare allo Stato un congruo numero di miliardi dovuti sull’Iva. Un’evasione fiscale in grande stile che incuriosì gli inquirenti; nel giro di pochi mesi le Fiamme Gialle di tutta la Sicilia accertarono che allo stesso sistema erano ricorsi molti altri imprenditori dell’isola: l’Iva frodata alle casse dello Stato ammontava, secondo i calcoli della G.d.F., ad oltre quattrocento miliardi di vecchie lire. Gli imprenditori – secondo l’accusa – si sarebbero serviti di alcuni comprimari compiacenti che rilasciavano fatture – per importi elevatissimi – relative a lavori mai eseguiti. Il rapporto della Finanza approdò alla Procura di Catania, dopo aver fatto scalo negli uffici giudiziari di Siracusa, parecchi mesi prima. Si ipotizzavano reati precisi: non solo l’evasione fiscale nei confronti di Iva, Irpeg e Ilor ma anche reati di ben diversa caratura penale quali la truffa e l’associazione per delinquere a scopi mafiosi, prevista dalla legge La Torre. E nel rapporto della Finanza c’era tutto il «Gotha» dell’imprenditoria siciliana, dai cavalieri del lavoro Gaetano Graci e Mario Rendo, all’altro cavaliere catanese Carmelo Costanzo (all’epoca latitante), ed ancora il costruttore Rosario Parasiliti, il banchiere Salvatore Iaconitano (direttore dell’agenzia catanese della Banca Agricola di Ragusa). In coda alla lista anche alcuni nomi di noti personaggi assurti alle cronache giudiziarie come il mafioso agrigentino Filippo Di Stefano (già assegnato ad un soggiorno obbligato) e il trapanese Giovanni Traina, titolare di un’impresa di calcestruzzi nel cui cantiere anni prima furono trucidate tre persone.

Nei vari esposti trasmessi al C.S.M., il Prof. D’Urso denunciava come il rapporto della Finanza fosse rimasto lettera morta negli uffici della Procura di Catania. Anzi, sempre secondo i termini degli esposti, accadde che il dossier, ove si indicavano reati precisi sulla scorta di elementi probatori altrettanto inequivocabili, venne infilato nel cosiddetto fascicolo degli «Atti relativi». Il che, per un procedimento penale, equivale alla morte civile.  

«Un insabbiamento in piena regola» denunciano gli esposti del Prof. D’Urso inviati al C.S.M.

La città “senza mafia”

Nonostante l’appalto della nuova sede, proprio per la Pretura di Catania, in via Crispi, fosse stato denunciato dal prof. D’Urso, Direttore del Dipartimento Urbanistica della locale Università e da un nutrito gruppo di architetti e giornalisti, nessuno si mosse per lungo tempo né presso il  Consiglio Comunale né in Procura né al C.S.M., che alla fine assunse dei provvedimenti minori, senza intaccare la struttura di potere della città siciliana che vantava il primato esclusivo di essere «senza mafia».

Nella storia della città e del movimento antimafia quella inerzia, secondo Giambattista Scidà, «segnò una svolta». Le forze dominanti e il costruttore della Pretura potevano dormire sonni tranquilli. Il Prefetto di Palermo Dalla Chiesa, autore della fatidica intervista sulla mafia a Catania e sulle collusioni con gli im­prenditori catanesi (La Repubblica del 10/08/’82), venne ucciso il 3 settembre, cioè 24 giorni dopo. Durante la solenne inaugurazione del nuovo edificio, in ottobre, il costruttore poté esaltare, tra gli applausi, i meriti dell’imprenditoria catanese. Dall’interno di quel nuovo «tempio della giustizia» il disin­volto costruttore mafioso trionfava sul servitore dello Stato Italiano, che rinunciava a fare prevalere la  legalità e lo stato di diritto. A Dalla Chiesa successe, con poteri di Alto Commissario Antimafia, ex Questore di Catania, il quale aveva sempre mantenuto buoni rap­porti con la mafia imprenditoriale locale e i grandi costruttori isolani. [“Per capire il caso Catania”, Giambattista Scidà, http://www.ucuntu.org/Per-capire-il-caso-Catania.html].

Il giornale “I Siciliani” fu chiuso quello stesso anno. Giuseppe Fava venne ucciso il 05.01.1984. Il quotidiano La Repubblica accettò di chiudere il proprio ufficio di corrisponden­za e di non occuparsi della provincia et­nea nella cronaca regionale. In tale clima, l’inchiesta del C.S.M.  venne facilmente es­orcizzata, senza mettere in luce le prassi devianti della locale Procura, riducendo il “caso Catania” alle respon­sabilità di soli due soggetti. Dei complessi intrecci della realtà catanese, tuttora persistenti, come nel resto dell’isola, tutto restava in ombra.

«I Siciliani»

Nell’autunno 1984, il Prof. D’Urso fondò l’Associazione «I Siciliani», di cui fu il Presidente. L’Associazione si radicò rapidamente ed acquistò peso ed influenza in tutta Italia. Insieme al Coordinamento Antimafia di Palermo e al Centro Peppino Impastato, fu il primo esempio in assoluto di politica militante, nell’Italia degli anni Ottanta, fuori dai partiti. L’Associazione godette della collaborazione di studiosi e magistrati, come il prof. Franco Cazzola e il giudice Scidà, ma anche di religiosi e persone comuni, come il sacerdote Giuseppe Resca e l’operaio Giampaolo Riatti. Era la nuova classe dirigente, quella che avrebbe potuto davvero cambiare tuttom che – come conclude Orioles – «finche’ essa fu unita, non passarono i gattopardi».

Nel 1990, il professore fu fra i ventiquattro fondatori della Rete. Ne organizzò i primi passi dal letto in cui già era inchiodato, contribuendo come pochi altri alle sue prime vittorie.

BIBLIOGRAFIA

1. “Massomafia. Il teorema. Mi dicevano di lasciar perdere”, I Siciliani settimanale, 19.3.86;

2.  Claudio Fava, “La mafia comanda a Catania”, Laterza, Roma-Bari 1991;

3.  Luciano Violante, «Non è la piovra. Dodici tesi sulle mafie italiane», Einaudi, Torino 1994;

4.  P. Sini, “Esempi per una cultura antimafia”: http://lists.peacelink.it/mafia/msg00042.html;

5.  Claudio Fava, “La Procura di Catania può saltare in aria”, I Siciliani, Febbraio 1983;

6.  “Per capire il caso Catania”, http://www.ucuntu.org/Per-capire-il-caso-Catania.html;

7.  “la raison tonne en son cratère”, Riccardo Orioles, in “Allonsanfan”, libro elettronico;

8.  G. D’Urso: “Per riprendere e continuare”: http://lists.peacelink.it/mafia/msg00042.html

LEONARDO VITALE. STATO E MAFIA: UNA "COSA SOLA".

L’importanza di Leonardo Vitale

di Giovanni Falcone  

Dalla sentenza del maxi ter, istruito dal pool di Giovanni Falcone riportiamo alcuni stralci riguardanti la posizione processuale del primo collaboratore di giustizia che denunciò le collusioni tra mafia, politica e appalti. L’allucinante odissea umana e giudiziaria di Leonardo Vitale, uomo d’onore della famiglia di “Altarello di Baida”, dapprima delegittimato dalla magistratura di regime e rinchiuso in un manicomio psichiatrico, nel tentativo di screditare le sue precise rivelazioni, eppoi condannato a morte dallo Stato massomafioso. 

All’epoca delle sue dichiarazioni  Leonardo Vitale, che tra gli altri aveva accusato l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino e il Principe Vanni Calvello di San Vincenzo, non venne creduto, nonostante i molteplici riscontri investigativi, e dietro pressioni politiche fu spedito nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto. All’uscita dal manicomio fu ucciso per mano della massomafia.
Fino a tempi non molto lontani le conoscenze dell’apparato strutturale – funzionale di “Cosa Nostra” sono state frammentarie e parziali e, correlativamente, episodica e discontinua è stata l’azione repressiva dello Stato, diretta prevalentemente a colpire, con risultati ovviamente deludenti, le singole manifestazioni criminose, viste in un’ottica parcellizzante e disancorata dalla considerazione unitaria del fenomeno mafioso. Solo in tempi più recenti, un rinnovato impegno investigativo, assistito da una professionalità più qualificata e da tecniche di indagine più sofisticate, ha prodotto un corretto approccio al fenomeno mafioso, ispirato dalla riconosciuta necessità di inquadrare gli specifici episodi criminosi nella logica e nelle dinamiche dell’organizzazione criminale di cui sono espressione. In questo contesto si è inserita la collaborazione di alcuni imputati di estrazione mafiosa che ha consentito di verificare la validità dei risultati già raggiunti, offrendo al contempo una chiave di lettura dall’interno del fenomeno mafioso ed imprimendo ulteriore impulso alle indagini. Il primo collaboratore della Giustizia era stato, nell’ormai lontano 1973, Vitale Leonardo, un modesto “uomo d’onore” che, travagliato da una crisi di coscienza, si era presentato in Questura ed aveva rivelato quanto a sua conoscenza sulla mafia e sui misfatti propri ed altrui. Oltre dieci anni dopo, Buscetta Tommaso, Contorno Salvatore ed altri avrebbero offerto una conferma pressoché integrale a quelle rivelazioni; ma nessuno, allora, seppe cogliere appieno l’importanza delle confessioni del Vitale Leonardo e la mafia continuò ad agire indisturbata, rafforzandosi all’interno e crescendo in violenza ed in ferocia. Il Vitale veniva tratto in arresto dalla Squadra Mobile di Palermo il 17.8.1972 perché ritenuto coinvolto nel sequestro di persona, a scopo di estorsione, dell’ing. Cassina Luciano, ma veniva scarcerato il successivo 30 settembre per mancanza di sufficienti indizi; senonché, il 30.3.1973, dopo di essere stato interrogato dal giudice istruttore di Palermo, si presentava spontaneamente alla Squadra Mobile di Palermo e svelava tutto ciò che sapeva su “Cosa Nostra”, di cui ammetteva di far parte, autoaccusandosi anche di gravi fatti delittuosi, tra cui alcuni omicidi, commessi in correità con numerosi personaggi. Le confessioni di Vitale Leonardo sortivano un esito sconfortante: gran parte delle persone da lui accusate venivano prosciolte, mentre lo stesso Vitale, dichiarato seminfermo di mente, era pressoché l’unico ad essere condannato. Tornato in libertà, veniva ferocemente assassinato dopo pochi mesi e precisamente il 2/12/1984.

Vediamo adesso che cosa aveva a suo tempo raccontato … il “pazzo” Vitale Leonardo (che è stato poi indicato da Buscetta Tommaso come “uomo d’onore” della “famiglia” di Altarello di Baida, secondo quanto aveva appreso da Scrima Francesco, appartenente alla sua stessa “famiglia” di Porta Nuova):– era divenuto “uomo d’onore” dopo di avere dimostrato il proprio “valore” uccidendo, su commissione di suo zio Vitale Giovanbattista, certo Mannino Vincenzo, reo di avere acquisito delle gabelle senza avere chiesto il “permesso”. Suo zio, “rappresentante” della “famiglia” di Altarello, lo aveva messo alla prova chiedendogli, prima, se si sentiva capace di uccidere un cavallo; indi, gli aveva dato incarico, unitamente ad Inzerillo Salvatore (nato nel 1922) ed a La Fiura Emanuele, di studiare le abitudini del Mannino Vincenzo per ucciderlo. Egli aveva eseguito gli ordini e, alla fine, a bordo di una autovettura guidata da Ficarra Giuseppe, aveva atteso il Mannino nei pressi della via Tasca Lanza e lo aveva ucciso con un fucile, caricato a lupara, fornitogli dallo zio. Superata la prova, aveva prestato giuramento di “uomo d’onore” in un casolare del fondo “Uscibene”, di proprietà di Guttadauro Domenico, alla presenza dello zio, dello Inzerillo Salvatore e di altri, secondo un preciso rito: gli avevano punto un dito con una spina di arancio amaro e avevano bruciato un’immagine sacra facendogli ripetere il “rito sacro dei Beati Paoli”; quindi, l’avevano invitato a baciare in bocca tutti i presenti. Era entrato così a far parte ufficialmente della “famiglia” di Altarello di Baida di “Cosa Nostra”. – Per effetto del suo ingresso nella “famiglia”, aveva cominciato a conoscere i componenti della propria e di altre famiglie ed aveva cominciato ad operare come membro di Cosa Nostra. Lo zio lo aveva adibito alla acquisizione di guardianie di cantieri edili siti nel viale della Regione Siciliana ed egli, per espletare il suo incarico, aveva cominciato a compiere diversi danneggiamenti a fini estorsivi ai danni di costruttori e proprietari terrieri. … Già da queste dichiarazioni balza in evidenza l’uso sistematizzato dell’intimidazione e della violenza a fini di lucro come attività tipica della mafia. Bisogna a questo punto ricordare che taluni degli imprenditori, indicati dal Vitale Leonardo come vittime di estorsioni  mafiose, si sono poi organicamente inseriti in “Cosa Nostra”. Ci si intende riferire ai costruttori Marchese Salvino e Pilo Giovanni, imputati, nel procedimento n.2289/82 R.G.U.I. (definito con sentenza-ordinanza 8.11.1985), di associazione mafiosa, a Costanzo Giuseppe, la cui posizione viene definita con questa sentenza-ordinanza, ed a Prestifilippo Domenico, titolare del ristorante “La ‘ngrasciata”, che risulta (vedasi il Vol.8 della citata sentenza-ordinanza) aver prestato attività di copertura a Spadaro Tommaso nel riciclaggio di danaro di provenienza illecita; tutti esempi della capacità espansiva e di infiltrazione della mafia nel tessuto sociale, che, forse, un più incisivo intervento repressivo statuale avrebbe potuto impedire.
– Accanto ad imprenditori sicuramente mafiosi, ne sono stati individuati tanti altri, contigui con ambienti mafiosi, che, interrogati, si sono mostrati estremamente reticenti, costretti in una situazione insostenibile per la paura, da un lato, delle ritorsioni mafiose e, dall’altro, della criminalizzazione del loro operato. … Del resto, il settore dell’edilizia, sia per gli elevati utili che consente, sia per l’inevitabile riferimento al territorio, è quello che forse ha risentito maggiormente della presenza mafiosa; ed anche in questo procedimento è stato accertato che tutti i maggiori esponenti di “Cosa Nostra” sono interessati alla realizzazione di attività edilizia sia in proprio che per il tramite di imprenditori vittime o collegati, a vario titolo, con “Cosa Nostra”. 
– Il racconto di Vitale Leonardo è proseguito con la descrizione di altri gravi delitti. Egli, in particolare, ha ammesso di avere ucciso Bologna Giuseppe su mandato di suo zio, Vitale Giovanbattista … Ha ammesso inoltre l’omicidio di Di Marco Pietro, avvenuto il 26.1.1972. Quest’ultimo, a detta del Vitale, era stato ucciso personalmente da Rotolo Antonino su mandato di Calò Giuseppe … Significativo è infine che già allora esisteva, fra Rotolo Antonino e Calò Giuseppe, uno stretto legame, che sarebbe stato in seguito confermato da altre indagini. Vitale Leonardo ha parlato, poi, dell’omicidio di Traina Vincenzo, consumato in Palermo il 17.10.1971. … Il racconto del Vitale trova un impressionante riscontro nelle indagini di Polizia … Da tale episodio emerge come già a quei tempi Scrima Francesco ed il suo capo, Calò Giuseppe, fossero coinvolti nei sequestri di persona, attività che il Calò non ha dismesso, tanto che, secondo quanto dichiarato da Buscetta Tommaso, egli regalò al figlio di quest’ultimo, Buscetta Antonio, la somma di lire 10 milioni proveniente dal sequestro Armellini, consumato in Roma nel 1980. Un’altra vicenda riferita dal Vitale Leonardo chiama nuovamente in causa il Calò ed il suo gruppo di “amici”. Si tratta della spedizione punitiva contro Adelfio Salvatore, proprietario del bar “Rosanero” nonché fratello del cognato di Spadaro Tommaso, ordinata da Calò Giuseppe a richiesta dello stesso Spadaro. Il Vitale aveva agito, a suo dire, con gli immancabili Scrima Francesco e Rotolo Antonino e con due sconosciuti.

Il Vitale Leonardo ha ancora riferito di avere appreso da Scrima Francesco che “uno da Villabate che aveva partecipato all’uccisione di Cavataio Michele si era montata la testa ed era stato fatto sparire” … . Ebbene, il “pentito” Buscetta Tommaso ha affermato che Caruso Damiano, macellaio di Villabate appartenente alla famiglia di Di Cristina Giuseppe (Riesi), era uno degli autori dell’omicidio di Cavataio Michele, specificando che in seguito il Caruso stesso era stato fatto scomparire dai Corleonesi in odio al Di Cristina (Vol.124 f.108) – (Vol.124 f.110). Da fonti, quindi, assolutamente diverse ed a distanza di parecchi anni, lo stesso omicidio viene riferito in maniera identica, anche nei motivi. Anche stavolta, la fonte della notizia, per Vitale Leonardo, è Scrima Francesco, della “famiglia” di Calò Giuseppe. Se si tiene conto che l’omicidio era stato voluto soprattutto dai Corleonesi, la tesi dell’alleanza del Calò con i corleonesi ne esce confermata. Un altro episodio significativo riferito dal Vitale riguarda una riunione, presieduta da Riina Salvatore, in cui si era stabilito a quale famiglia (Altarello o Noce) sarebbe spettata la tangente imposta all’impresa Pilo, che stava iniziando lavori edilizi nel fondo Campofranco. Alla riunione, organizzata da Spina Raffaele (“rappresentante” della famiglia della Noce), avevano partecipato anche Calò Giuseppe, Cuccia Ciro, Anselmo Vincenzo, D’Alessandro Salvatore e lo stesso Vitale Leonardo. Era prevalsa la “famiglia” della Noce per ragioni “sentimentali” (il Riina Salvatore aveva detto “Io la Noce ce l’ho nel cuore”). Il Vitale, quindi, era andato ad informarne lo zio, al soggiorno obbligato a Linosa, e quest’ultimo, nell’accettare la decisione, aveva incaricato il nipote di far presente al Calò che bisognava, comunque, attribuire parte della tangente alla famiglia di Altarello. L’episodio sopra riferito ha notevole rilevanza, perché offre un puntuale riscontro a quanto avrebbe dichiarato, oltre dieci anni dopo, Buscetta Tommaso sulle vicende di “Cosa Nostra”. Invero, secondo Buscetta, per effetto della prima “guerra di mafia” (1962-1963), e della accresciuta pressione da parte degli organismi di Polizia, “Cosa Nostra” si era disciolta, nel senso che era venuto meno quel coordinamento fra le “famiglie” assicurato dalla “commissione”. Nei primi anni ’70, essendosi conclusi favorevolmente (per la mafia) i processi contro le organizzazioni mafiose palermitane, era stata decisa la ricostituzione di “Cosa Nostra” sotto la direzione protempore di un “triumvirato” composto da Bontade Stefano, Riina Salvatore e Badalamenti Gaetano. Ebbene, la presenza ed il ruolo di Riina Salvatore, riferiti da Vitale Leonardo, nella controversia fra le due “famiglie” della Noce e di Altarello, all’epoca del triumvirato, confermano in pieno le dichiarazioni di Buscetta. Infatti, la questione relativa alla spettanza di una tangente ad una famiglia anziché ad un’altra, è un “affare” di pertinenza della “commissione”; il fatto che la controversia sia stata decisa, invece, dal Riina Salvatore – membro del triumvirato, secondo le dichiarazioni del Buscetta – conferma appieno che ancora la “commissione” non era stata ricostituita e che il Riina aveva la potestà di emettere decisioni che dovevano essere rispettate dai capi famiglia. Ma l’episodio raccontato dal Vitale vale anche a confermare indirettamente il sistema delle alleanze facente capo ai Corleonesi e l’atteggiamento prevaricatore di questi ultimi. Invero, tenendo conto della zona in cui doveva essere realizzata la costruzione del Pilo, la tangente sarebbe dovuta spettare, secondo il rigido criterio di competenza territoriale adottato da “Cosa Nostra”, alla “famiglia” di Altarello; ma, ciononostante, il Riina Salvatore, ergendosi ad unico arbitro della controversia, l’aveva attribuita a quella della Noce solo perché “ce l’aveva nel cuore” ed il fido Calò Giuseppe, rappresentante della “famiglia” di Porta Nuova che aveva partecipato alla riunione, si era ben guardato, come d’abitudine, dal dissentire dalle opinioni del Riina (proprio tale atteggiamento di acquiescenza, secondo Buscetta, era stato rimproverato al Calò Giuseppe da Inzerillo Salvatore e da Bontate Stefano, nel corso di un incontro in cui si era cercato di evitare la frattura coi corleonesi). …
Quasi tutti i personaggi … indicati [da Vitale] come “uomini d’onore” sono stati in seguito accusati da Buscetta Tommaso e da Contorno Salvatore, che li hanno indicati perfino con gli stessi soprannomi … Nel marzo 1985 il Rotolo è stato arrestato, a Roma, proprio con Calò Giuseppe, più potente e pericoloso che mai, senza che, nel frattempo, gli organismi di Polizia si fossero granché interessati di loro. Numerosi sono i riferimenti del Vitale a personaggi insospettabili quali “uomini d’onore”; valga, per tutti, l’indicazione dell’assessore del Comune di Palermo, Trapani Giuseppe (ormai deceduto), come appartenente alla “famiglia” di Porta Nuova, e del principe Vanni Calvello Alessandro di San Vincenzo, imputato nel procedimento-stralcio definito con sentenza-ordinanza del 16.8.1986. Nei confronti del Trapani Giuseppe, del principe di San Vincenzo e degli altri insospettabili indicati dal Vitale allora non vennero compiuti accertamenti di sorta … [Ma Vanni Calvello] coinvolto in Inghilterra in una vicenda di traffico internazionale di eroina … ha riportato recentemente condanna alla pena di anni venticinque di reclusione. Non risulta nemmeno che sia stata in alcun modo vagliata, allora, la posizione di Ciancimino Vito, nei confronti del quale il Vitale Leonardo aveva riferito fatti veramente gravi ed inquietanti … Sia Vitale che Buscetta, poi, hanno riferito di avere appreso dei rapporti fra Riina e Ciancimino proprio dal Calò. Le rivelazioni di Vitale Leonardo sono state in buona parte sottovalutate e passate nel dimenticatoio, benché sorrette da numerosi riscontri, e lo stesso Vitale è stato etichettato come “pazzo” (seminfermo di mente) e comunque da non prendere sul serio. Ma l’asserita malattia mentale che lo affliggeva, non comportando, come accertato dal perito, né allucinazioni, né deliri di persecuzione né altre gravi alterazioni psichiche, non esludeva [sic.] la sua capacità di ricordare e di raccontare fatti a sua conoscenza. Si tratta quindi di valutarne l’attendibilità, che, alla luce dei riscontri già allora esistenti e di quelli emersi successivamente, soprattutto attraverso le dichiarazioni di Buscetta e di Contorno, appare indubbia. Il Vitale, come si evince da un memoriale scritto di suo pugno, trasmesso a questo Ufficio dalla Squadra Mobile …, si era indotto a collaborare con la Giustizia perché aveva subito una vera e propria crisi di coscienza per i delitti compiuti e si era rifugiato nella fede in Dio. Si segnalano i seguenti passi del memoriale perché ognuno possa valutare le motivazioni del suo pentimento: “Io sono stato preso in giro dalla vita, dal male che mi è piovuto addosso sin da bambino. Poi è venuta la mafia, con le sue false leggi, con i suoi falsi ideali: combattere i ladri, aiutare i deboli e, però, uccidere; pazzi! I Beati Paoli, Coriolano della Floresta, la massoneria, la Giovane Italia, la camorra napoletana e calabrese, Cosa Nostra mi hanno aperto gli occhi su un mondo fatto di delitti e di tutto quanto c’è di peggio perché si vive lontano da Dio e dalle leggi divine” …; “bisogna essere mafiosi per avere successo. Questo mi hanno insegnato ed io ho obbedito” …; “La mia colpa è di essere nato, di essere vissuto in una famiglia di tradizioni mafiose e di essere vissuto in una società dove tutti sono mafiosi e per questo rispettati, mentre quelli che non lo sono vengono disprezzati …; “(i mafiosi) sono solo dei delinquenti e della peggior specie” …; “coloro che li rispettano e li proteggono e che si lasciano corrompere o, peggio ancora, si servono di essi (hanno dimenticato Dio)” …; “Si diventa uomini d’onore (seguendo i Comandamenti di Dio) e non uccidendo e rubando e incutendo paura” …; “La mafia in sé stessa è il male; un male che non dà scampo per colui che viene preso in questa morsa” …; “il mafioso non ha via di scelta perché mafioso non si nasce, ma ci si diventa, glielo fanno diventare” …; “la mafia è delinquenza e i mafiosi non vanno rispettati o ossequiati perché sono mafiosi o perché sono uomini ricchi e potenti …”. Ed ancora: “Seminfermità mentale=male psichico; mafia=male sociale; mafia politica=male sociale; Autorità corrotte=male sociale; prostituzione=male sociale; sifilide, creste di gallo ecc.=male fisico che si ripercuote nella psiche ammalata sin da bambino; crisi religiose=male psichico derivato da questi mali. Questi sono i mali di cui sono rimasto vittima, io, Vitale Leonardo risorto nella fede nel vero Dio” …. Certamente è possibile che questa crisi mistica sia effetto delle sue alterate condizioni psichiche: ma ciò non sposta di una virgola il giudizio sulle sue dichiarazioni. Vitale Leonardo, escarcerato nel giugno 1984, è stato ucciso dopo pochi mesi (2 dicembre 1984), a Palermo a colpi di pistola, mentre tornava dalla Messa domenicale. Non dovrebbero esservi dubbi circa i mandanti di tale efferato assassinio, specie se si considera che il delitto è stato consumato in un contesto in cui Buscetta Tommaso, Contorno Salvatore ed altri “pentiti” avevano imboccato la strada della collaborazione con la Giustizia. Con Vitale Leonardo, e in un brevissimo arco di tempo, sono stati uccisi Coniglio Mario (fratello di Coniglio Salvatore, anch’egli collaboratore della Giustizia), Anselmo Salvatore (ucciso mentre si trovava agli arresti domiciliari dopo avere reso importanti dichiarazioni sul traffico di stupefacenti) e Busetta Pietro, inerme ed onesto cittadino reo soltanto di avere sposato una sorella di Buscetta Tommaso. Questo Ufficio, pertanto, ha emesso il 12.5.1986, per l’omicidio di Vitale Leonardo e degli altri, mandato di cattura contro Greco Michele, Greco Ferrara Salvatore, Greco Giuseppe n.1952, Riina Salvatore, Provenzano Bernardo, Brusca Bernardo, Riccobono Rosario, Scaglione Salvatore, Calò Giuseppe, Motisi Ignazio, Di Carlo Andrea, Madonia Francesco, Picone Giusto, Anselmo Vincenzo ed Anselmo Francesco Paolo (detto mandato di cattura ha positivamente superato l’esame di legittimità da parte della Corte di Cassazione: vedasi  – per tutte – la sentenza emessa dalla Sez. I, in camera di consiglio, in data 1.12.1986 sul ricorso proposto da Greco Michele avverso ordinanza 26.5.1986 del Tribunale di Palermo, ed acquisita in copia al presente processo ( (Vol.IV f.63) – (Vol.IV f.65) ).

A differenza della giustizia statuale massomafiosa, la Mafia ha percepito l’importanza delle propalazioni di Vitale Leonardo e, nel momento ritenuto più opportuno, lo ha inesorabilmente punito per avere violato la legge dell’omertà. È augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi anche tra i tanti Santi della Chiesa il credito che meritava e che merita.  

Articolo pubblicato sul numero di ANTIMAFIA duemila giugno 2003

MARSALA. ANTONELLA MORSELLO DENUNCIA LE MASSOMAFIE

Antonella Morsello denuncia da svariati anni l’esproprio dell’azienda familiare subito dal padre, il quale come ex consigliere comunale di Marsala avrebbe supportato Borsellino nello scioglimento del consiglio comunale della città del vino. 

La sua vicenda viene anche ricostruita dalla Casa della legalità, osservatorio antimafia locale, che avvalla la fondatezza della denuncia di Antonella Morsello.

Noi, vittime della massomafia di  Antonella Morsello

La vita impossibile dell’imprenditore Martino Morsello: consigliere comunale di Marsala, nel 1992 aiuta Borsellino a sciogliere il Comune infiltrato dalla mafia. Mafia e massoneria non gliel’hanno perdonata.
Quella che racconterò è la storia della mia Famiglia. Tutto nasce nel 1999: alcuni soci della Ittica Mediterranea acquistano dalla fallita Mirabile e.c. socio di quest’ultima il 12% delle quote possedute a prezzo nominale per l’importo di 600 milioni di Lire. Giudice delegato Caterina Greco. Un altro socio della Ittica Mediterranea acquista il 3% delle quote possedute dalla Trinacria Costruzione a prezzo nominale per l’importo di 150 milioni di Lire. Al fallimento di quest’ultima il Giudice delegato D’Osualdo revoca le quote vendute perchè il valore delle quote viene quantificato il doppio, circa 300 milioni di Lire. Come mai c’è stata questa disparità?
Nel Gennaio 2003: l’avvocato Francesco Trapani propone istanza di fallimento all’Ittica Mediterranea per conto della Hendrix. Il Giudice del pre-fallimentare Caterina Greco manda in riserva il fallimento e aspetta la desistenza da parte della Hendrix a firma dell’ avv. Francesco Trapani dopo che siamo stati costretti sotto minaccia di fallimento a consegnare 100 milioni di Lire alla Hendrix. L’avv. Francesco Trapani ha un incarico da parte della Hendrix congiuntamente e disgiuntamente con l’avv. Morgante agendo autonomamente nell’interesse della Hendrix.
Il 30 Maggio 2003: la Ittica Mediterranea presenta al Giudice Caterina Greco una relazione dove si evince che la società Ittica Mediterranea non può essere dichiarata fallita in quanto Azienda Agricola. Regolarmente iscritta alla camera di commercio di Trapani nella sezione speciale agricola ed iscritta all’ufficio Iva come attività di pescicoltura, itticoltura, agricoltura con il codice 5021. Il 6 Giugno 2003: il Tribunale dichiara fallita la Ittica Mediterranea. La sentenza è stata emessa dai Giudici: Benedetto Giaimo (Presidente), Caterina Greco (Giudice relatore), dott.ssa Planetario Anna Maria (Giudice), prendendo spunto da una sentenza del Tribunale di Capovetere che non ha nulla a che vedere con l’attività di acquacoltura come l’attività della Ittica Mediterranea. Nella sentenza di fallimento 17/2003 si evince chiaramente che i tre giudici sono a conoscenza del fatto che l’avvocato Francesco Trapani abbia chiesto il fallimento della Ittica Mediterranea così come riportato nella sentenza e omettono di applicare la legge Nazionale 102/92, la legge regionale Sicilia 14/98 art 7 che ha modificato la legge 92/81 e l’omissione del trattato di Roma dell’art 32 della Comunità Europea, e la sentenza della Cassazione Sez III 21/07/1993 N. 8123 ed altre. Viene nominato giudice delegato del fallimento Caterina Greco e curatore fallimentare avv. Francesco Trapani. C’è da chiedersi: i curatori fallimentari a Marsala vengono scelti per competenze… per amicizia… per affiliazioni a logge massoniche… perchè amici di infanzia… perchè hanno interessi nel fallimento?… e… perchè non tutte le aziende agricole vengono dichiarate fallite al tribunale di Marsala? Sta di fatto che il curatore fallimentare avv Francesco Trapani ha dimostrato sin dall’inizio del suo incarico interessi nello smantellamento della società. Non ha salvaguardato l’immenso patrimonio della società stessa, non l’ha fatta custodire; l’azienda è stata vandalizzata, ha subito 3 incendi dolosi. L’avvocato non ha lavorato nell’interesse della società, omettendo di perseguire le banche per usura, per anatocismo; non ha perseguito l’enel, che ci ha estorto denaro, per un procedimento civile già iniziato dalla Ittica Mediterranea prima del fallimento, è stato spesso assente nei processi contro la Ittica Mediterranea e risulta che la sua famiglia possiede più di 50 ettari di terreno attorno alla Ittica Mediterranea. È stata fatta opposizione al fallimento 17/2003, sono stati sentiti dei testi che hanno confermato l’attività di riproduzione del pesce, confermando di fatto che la Ittica Mediterranea è azienda agricola. Il tribunale di Marsala conferma la sentenza di fallimento. Tale sentenza viene appellata alla Corte di appello di Palermo per la revoca del fallimento in quanto azienda agricola. La corte di appello di Palermo dopo 3 anni con Sentenza n. 134 del 2009 R.G. 2348/06- cron. 4689/09, non ha deciso riguardo l’ attività agricola della Ittica Mediterranea e della Non Fallenza in virtù delle leggi: Legge Nazionale 102/92, la legge regionale Sicilia 14/98 art 7 che ha modificato la legge 92/81 e l’omissione del trattato di Roma dell’art 32 della Comunità Europea, e la sentenza della Cassazione Sez III 21/07/1993 N. 8123 ed altre.
Così come relazionato dalla memoria difensiva dal Prof. Avv Goffredo Garraffa, la Corte di Appello di Palermo si sofferma sulla inammissibilità del ricorso dicendo, falsamente, che il ricorso era fuori termine perchè presentato dopo 30 giorni, omettendo che l’istanza è stata presentata entro 30 giorni e che comunque il proponente nella qualità di socio opponentesi al fallimento aveva un anno di tempo per presentare ricorso. Fatto strano: la corte di appello non lo condanna a pagare le spese, fra le tante altre cose. L’azienda Ittica Mediterranea viene posta in vendita all’asta per 870 mila Euro in data 26 ottobre 2008 quando l’impianto costò 13 miliardi delle vecchie lire. Abbiamo denunciato che la gara dovesse essere sospesa per incongruità di prezzo e perchè viziata poiché mancante di alcune componenti strutturali… ma il giudice delegato Giacalone, ha continuato nell’espletamento della gara. Il 25 gennaio 2010 il nuovo giudice delegato Francesco Lupia dopo una nuova perizia fatta all’impianto (perizia stimata per 1.039 mila euro, ancora molto al di sotto di altra perizia presentata da noi) ha messo in vendita l’intero immobile. Si è dunque chiesto al giudice delegato di sospendere l’asta in quanto la società risulta usurata come da certificazione della procura della repubblica di Marsala, ma il Giudice delegato Francesco Lupia l’ha rigettata. L’ennesima vendita è il 12 Luglio c.a. Tutto quanto dicharato è dimostrabile, in quanto le carte sono depositate presso il tribunale di Marsala. Appare chiaro che il caso Ittica Mediterranea presenta delle anomalie dove si possono ravvisare azioni criminose che mio padre ha denunciato e per le quali ritiene di essere stato vittima di messaggi intimidatori quali i tre incendi dolosi che hanno distrutto le strutture della Ittica Mediterranea. Non si comprende ancora oggi quale sia la funzione del curatore fallimentare Francesco Trapani che non è stato super partes nella gestione del fallimento.
Questa relazione è indirizzata a tutti gli organismi di giustizia. Spero possano contribuire a fare l’interesse della Giustizia. Confido e ho stima in tutti i Giudici fino all’inverosimile perchè dai Giudici, applicando le leggi, si può avere giustizia. Il fallimento e la vendita all’asta delle aziende agricole rappresentano un mostro giuridico politico in quanto l’attività agricola è e rimane l’attività primaria per sfamare l’umanità con tutte le difficoltà di carattere ambientale , biologico, di storture economiche e giuridiche che l’azienda agricola è costretta a subire, eppoi, perché nel tanto bistrattato Sud d’Italia le uniche attività produttive sono limitate alla qualità e vocazione del territorio ed andrebbero così incentivate e rispettate, unitamente agli imprenditori che non senza sudore e sangue affrontano i rischi d’impresa e garantiscono il LAVORO alle piccole infelici comunità di questa magnifica terra ridotta ingiustamente a bacino depresso d’Italia e d’Europa!
Se mi chiedessero cosa ho imparato in questi pochi ma intensi anni direi che non si è liberi. Se per Libertà si intende il diritto di dire cose che non si vogliono sentire. L’errore di molti è quello di non far nulla quando viene colpita la libertà degli altri, non è certo bello lasciarsi impoverire senza capire cosa stia accadendo, è pericoloso lasciarsi impoverire senza rendersene conto. I nostri politici sono riusciti solo a creare un nuovo mezzo per sentirci ancora più derisi, a me non piace la frase sentita spesso nei nostri telegiornali : “da oggi i meno abbienti avranno la social card”, i meno abbienti? Perchè sono i meno? Quali ingiustizie hanno commesso? Anzi io direi che sono i più abbienti, perchè hanno la capacità e la forza di vivere nella nostra società con molto meno di quello che ci vorrebbe per viverla. Ciò che vale è sollevare gli umili di cuore e donarsi a chi sa donarsi e lo vuole, allora veramente la nostra opera sarà proficua. Esistono persone dimenticate, eppure non c’e’ nessuno che nel diritto dona loro i loro diritti, anzi loro sono quelli che sanno obbedire senza mai indicare lo Stato come colpevole della loro condizione. Ebbene è ardito e semplice scendere in piazza, gridare la fame sia di chi non può più mangiare che di chi non arriva neanche alla seconda settimana del mese mentre chi amministra la giustizia e quindi i diritti di noi tutti resta seduto in poltrona ad osservare e a non agire. Oggi i nostri politici sanno agire solo nei talk-show accusandosi a vicenda, ma realmente chi sta costruendo un florido futuro? E’ vero la crisi ha sfiancato un po’ tutti ma non si sono visti grandi miglioramenti, oggi stiamo assistendo alla strumentalizzazione del volere popolare, non strumentalizzata al riconoscimento dei nostri diritti ma mirata al riconoscimento dei diritti dei singoli potenti con annessi amici e compari. Oggi, quante sono le persone nella schiera degli indignati? Non eravamo quelli che trovavamo ingiustificabile tutto questo? Non eravamo di destra e di sinistra? Facile a dirsi, difficile a farsi quando siamo toccati di persona, quando dobbiamo dare l’esempio, quando dobbiamo prendere una chiara posizione di contrasto al male che vediamo e che “sappiamo riconoscere”. Siamo alla frutta! Siamo nella condizione inaccettabile che bisogna “necessariamente” dire ed accettare la menzogna che ci piace, piuttosto che vedere e combattere la brutta verità che ci potrebbe far soffrire, dovremmo essere più sinceri con noi stessi e con gli altri e agire piuttosto che pagare il biglietto per andare a vedere un film in cui gli attori un giorno potremmo essere noi. E’ la povertà materiale, ma anche e soprattutto la miseria spirituale che rende l’uomo indifferente alle sofferenze del prossimo e che riduce in poltiglia ogni anelito di evoluzione e progresso!
Antonella Morsello

Al Papa non piace il Vangelo? "La mia casa è casa di preghiera, ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri".

Papa Benedetto XVI in Sicilia per celebrare il 17° Anniversario dell’uccisione di Padre Puglisi, lasciato solo dalla dalla Chiesa e dallo Stato. Ma scatta la protesta per gli striscioni oscurati dalla Digos in maniera sommaria e illegittima.

Forse al Papa non piaceva quella frase del Vangelo di Matteo? 

In calce la storia dello scomodo <parrinu> che insegnava a ragionare con la propria testa.

La visita del pontefice, in occasione del diciassettesimo anniversario dell’uccisione di padre Pino Puglisi, durerà dieci ore. Già dall’alba i pullman di fedeli provenienti da tutta l’isola hanno cominciato ad affollare le aree di sosta: “Siciliani non rassegnatevi al male”

Una visita che costerà circa due milioni e mezzo di euro, 500.000 dei quali a carico del Comune di Palermo, che li attingerà dal fondo di riserva. Arriva Benedetto XVI e non accennano a placarsi le polemiche che da settimane infuriano nel capoluogo siciliano.

La visita del pontefice, in occasione del diciassettesimo anniversario dell’uccisione di padre Pino Puglisi, durerà in tutto dieci ore, ma già dall’alba i pullman di fedeli provenienti da tutta la Sicilia hanno cominciato ad affollare le aree di sosta. E arriva il primo allarme, quello dell’Amia, l’ex municipalizzata che si occupa di raccolta e smaltimento dei rifiuti: “C’è chi abbandona sacchetti di rifiuti indifferenziati per strada”, scrive in una nota la società che parla “di una vera e propria emergenza, con la formazione di enormi accumuli di rifiuti in una parte di Palermo che sarà interessata dalla visita del Santo padre”. In realtà, nulla di nuovo, visto che la raccolta differenziata dei rifiuti è stentatamente partita solo in una piccola parte della città, che continua a navigare tra cumuli di sacchetti e cassonetti trasbordanti.

Il papa è arrivato a Punta Raisi alle 9.15, ha raggiunto piazza Giovanni Paolo II, e, a bordo della papamobile si è diretto al Foro Italico dove ha celebrato l’Angelus: “Non rassegnatevi al male.  Oggi sono in mezzo a voi per testimoniare la mia vicinanza ed il mio ricordo nella preghiera” ha detto il pontefice. “Sono qui per darvi un forte incoraggiamento a non aver paura di testimoniare con chiarezza i valori umani e cristiani, così profondamente radicati nella fede e nella storia di questo territorio e della sua popolazione”. Ai centomila fedeli, il papa ha augurato un futuro di serenità e pace: “Sono venuto per condividere con voi gioie e speranze, fatiche e impegni, ideali e aspirazioni” consapevole tuttavia che a Palermo, e in tutta la Sicilia, “non mancano difficoltà, problemi e preoccupazioni: penso, in particolare, a quanti vivono concretamente la loro esistenza in condizioni di precarietà, a causa della mancanza del lavoro, dell’incertezza per il futuro, della sofferenza fisica e morale e, come ha ricordato l’Arcivescovo, a causa della criminalità organizzata”. L’anniversario dell’omicidio di padre Puglisi, il cui ricordo è vivissimo nel cuore dei palermitani, non poteva prescindere dalla condanna della mafia, come già fece, a suo tempo, Giovanni Paolo II, con parole durissime.

Alle 17.00 è previsto un incontro con il clero e i seminaristi, alle 18.00 un incontro con i giovani a piazza Politeama. Ripartirà alle 19.15 per Ciampino. I costi della visita papale che hanno suscitato indignazione e polemiche non riguardano le spese per la sicurezza del pontefice ma i costi vivi sostenuti dall’amministrazione comunale e da quella regionale. Passi per i 200.000 spesi per le transenne (il percorso di Benedetto XVI è di circa 22 km), passi per i 15.000 euro per il noleggio dei 10 maxischermi per il Foro Italico e piazza Politeama e i 50.000 euro per il noleggio dei 400 gabinetti chimici, possibile che il solo palco al Foro Italico costi 200.000 euro? Più altri 150.000 euro per “abbellire” il palco, più altri 300.000 euro per l’impianto di amplificazione e ancora altri 150.000 per l’impianto di luci. Strano, tra l’altro, il confronto con il costo del palco a piazza Politeama, dove il papa incontrerà i giovani: “solo” 50.000 euro e altri 50.000 di piante.

Dalle prime luci dell’alba di ieri sono comparsi anche striscioni con la scritta: ”Con Ratzinger contro matrimoni gay e relativismo”. Gli striscioni che compaiono in particolare per le vie del centro, via Roma, via Libertà, via Notarbartolo, via Autonomia Siciliana, via Duca della Verdura, sono stati affissi dagli aderenti a Giovane Italia, il movimento giovanile del Popolo della Libertà, “da sempre in prima linea nella difesa di quei valori non negoziabili, quali vita e famiglia, indicati dal Papa”. Gli stessi striscioni che lo stesso movimento aveva tirato fuori in occasione del primo Gay Pride siciliano, a giugno di quest’anno, che aveva portato in piazza 10.000 persone.

Su uno terrazzo, proprio di fronte al palco al Foro Italico, avrebbe dovuto esserci uno striscione, con una frase tratta dal Vangelo di Matteo, che invece non c’è. Un gruppo di palermitani lo aveva esposto ieri notte, dopo averci lavorato per giorni. Sullo striscione si leggeva: La mia casa è casa di preghiera, ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri”. Le forze dell’ordine sono intervenute immediatamente, hanno prima tentato di farsi ammettere in casa, ma erano sprovvisti di un qualsivoglia ordine di un magistrato e sono stati lasciati sulla porta. Sono quindi intervenuti i vigili del fuoco, su richiesta delle forze dell’ordine, e sono saliti con le scale mobili a strappare lo striscione. Ci sono riusciti solo per metà, l’altra metà (ma praticamente inservibile) è stata ritirata dalle persone in casa.

E’ un regime, neppure in casa nostra possiamo esprimere liberamente il nostro pensiero” afferma Franca Gennuso, una delle persone presente nella casa “incriminata”, tenuta sveglia tutta la notte da continue telefonate delle forze dell’ordine che tentavano, con le buone e con le cattive, di persuaderli a ritirare lo striscione.

La verità è che non vogliono sbavature. Vogliono dare l’immagine di una visita perfetta, tra un consenso perfetto”.

E’ chiaro che è tutt’altro che così.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/10/03/papa-benedetto-xvi-in-sicilia-ma-le-polemiche-sui-costi-non-si-fermano/67359/

PADRE PINO PUGLISI (3P): UN UOMO, LASCIATO SOLO DALLA CHIESA E DALLO STATO, CHE INSEGNAVA A RAGIONARE CON LA PROPRIA TESTA.

15 settembre 1993. A Palermo, nel quartiere di Brancaccio, con un solo colpo alla nuca, Padre Pino Puglisi viene ucciso dalla mafia.

Quando i suoi quattro sicari arrivano è a pochi passi da casa sua, nel giorno del suo 56° compleanno. Non si stupisce, non sembra sconvolto. Sorride.

Fino a quel giorno molti non hanno mai sentito parlare di lui. Non è uno dei cosiddetti “preti antimafia”, non ha mai cercato visibilità, clamore; non è mai stato in prima fila nei cortei agitando striscioni carichi di verità miste a luoghi comuni sulla mafia, sui cittadini collusi, sulla bella faccia nascosta di una Sicilia che non trova la forza di rinascere.

“3P” – come lo chiamavano in molti per via di quella divertente allitterazione in Padre Pino Puglisi – è un insegnante di religione, un parroco come tanti, il figlio di un calzolaio, cresciuto nello stesso quartiere covo della mafia che gli darà la morte.

In molti non sospettavano l’importanza straordinaria della sua opera.

Dal giorno del suo assassinio comincia a svelarsi quella “piccola rivoluzione” ignorata da tanti ma non dalla mafia.

Padre Pino aveva capito di non poter minimamente ledere quel tessuto intriso di cultura dell’illegalità con i grandi proclami, le teorie, le belle parole. La sua innata passione per i giovani gli aveva permesso di intuire che l’unico modo di scalfire l’onnipotenza della mafia in quel territorio era quello di volgere lo sguardo ai più piccoli, ai figli incolpevoli dei criminali, che non conoscono altra realtà se non la legge di ”Cosa nostra”, le sue barbariche norme, il suo potere.

Sono bambini addestrati da sempre, con gli stessi rituali, a divenire nuova linfa, nuovi potenti o semplice manovalanza.

La sfida alla mafia comincia così, sottraendole un bene prezioso: i bambini.

Sui ragazzi di strada si posa lo sguardo di “3P”, il suo sorriso. Padre Pino è un uomo esile, piccolo, è un “parrinu”, lontano anni luce da quegli uomini che hanno imparato a guardare con ammirazione e rispetto. Eppure qualcosa comincia a legare le loro vite. Quel prete li ascolta, li chiama per nome, li accoglie, impara a conoscerne la storia, le paure, i sogni. Il suo è un vero e proprio metodo pedagogico che si rivela efficace. I bambini cominciano ad apprendere che esistono regole, princìpi, valori, cominciano a sentirsi amati. Con un lavoro faticoso e paziente Padre Pino oppone la gratuità dei suoi gesti alla logica del potere e del denaro, offre una presenza che diventa “segno”, testimonianza, che apre a nuove prospettive di vita, che fa scorgere altre strade oltre a quella del furto, dello spaccio, del servile rispetto per i potenti e gli uomini d’onore. Chiede con insistenza al Comune che i luoghi simbolo del degrado, gli scantinati dove si svolge il mercato dello spaccio e della prostituzione, vengano trasformati in una scuola per i suoi ragazzi.

Ad aiutarlo non ci sono istituzioni, partiti, gerarchie ecclesiastiche.

Nel suo lavoro quotidiano lo affiancano i volontari del Centro Padre nostro, il Comitato intercondominiale di Via Hazon, il vice parroco, poche suore, talvolta i suoi allievi di liceo, figli della Palermo perbene, che ha trascinato, con la sua passione, in quel posto malfamato a scoprire un altro volto della loro città.

Sono anni terribili per Palermo, anni in cui la mafia sente sul collo il fiato corto di uomini come Falcone e Borsellino che, con la loro integrità e tenacia, corrodono inesorabilmente la sua invulnerabilità. Sono gli anni delle bombe, delle stragi, di una società che scopre di potersi ribellare.

La mafia non può tollerare che Padre Puglisi agisca all’interno del suo ventre, che le strappi i bambini, che predichi contro il crimine e l’illegalità sull’altare. E’ una Chiesa diversa quella che lui propone. Una Chiesa che non protegge i latitanti, che non ama i fuochi pirotecnici al termine delle processioni religiose.
E’ una Chiesa che non piace alla mafia.
L’irritazione cresce e con essa l’isolamento attorno a Padre Pino. Occorre fermarlo. Nel quartiere si diffondono le voci sulla presenza di poliziotti infiltrati all’interno del Centro Padre nostro. Arrivano le intimidazioni ma “3P” prosegue con fermezza nel suo lavoro. La solitudine, le sconfitte, la stanchezza non lo fermano. Prova a fermarlo, con un colpo alla nuca, Salvatore Grigoli, mentre lui sta sorridendo.
Difficile dire se la mafia sia riuscita nel suo intento. La vicenda di Padre Puglisi procede oltre la soglia di quel giorno. Dopo la sua morte molte persone lo hanno “incontrato” e questo incontro ha cambiato le loro vite. La Chiesa ha avviato il processo per la beatificazione, la giustizia ha accertato la responsabilità dei fratelli Graviano come mandanti del delitto; Salvatore Grigoli è divenuto collaboratore di giustizia ed ha iniziato un cammino di conversione. Si è assistito ad un proliferare di iniziative, Brancaccio ha avuto la sua scuola ma molto altro è rimasto incompiuto.

Bianca Stancanelli, giornalista e autrice di un’appassionata biografia di Don Puglisi, indica forse il rischio più grande “Gli eroi solitari ci piacciono perché ci assolvono: la nostra normalità si compiace del loro eroismo, vede nella loro sconfitta il migliore dei motivi per astenersi non dal coraggio soltanto, ma da ogni gesto di umana resistenza”.

Qual è oggi il ruolo che siamo disposti a dare a questa insolita figura di prete e di uomo? Un “martire”, un “santino”? Il suo abito sacerdotale aiuta in quest’opera di emarginazione. Il tempo, scorrendo, se ne rende complice.

Aldilà di tutto questo resta lo sguardo profondo di “3P” che, silenziosamente, senza clamore, continua a offrire nuove prospettive, nuovi scenari.

di MariaConcetta Montagna

http://www.lavocedirobinhood.it/Articolo.asp?id=70

 

 

27.9.2010. IL CORAGGIO DI DENUNCIARE. PROTESTA A MONTECITORIO DELLE VITTIME DEL SISTEMA POLITICO-GIUDIZIARIO MASSOMAFIOSO

 
In adesione alla richiesta del promotore del Comitato Francesco Carbone pubblichiamo il testo del comunicato stampa, dando il ns. pieno sostegno alla manifestazione e alle vittime di questo sistema politico-giudiziario massomafioso asservito agli interessi di poteri corrotti e criminali che, da parte nostra, abbiamo  continuamente denunciato, quale Associazione antimafia, in oltre 25 anni di continuo impegno sociale, in difesa dei soggetti più deboli.
Quale contributo alla migliore riuscita dell’iniziativa segnaliamo la possibilità per tutti gli aderenti vittime di abusi giudiziari di farci pervenire i loro casi che provvederemo alla tempestiva pubblicazione nella mappa della malagiustizia, onde rendere più visibili le singole vicende e meno vulnerabili e isolati i vari protagonisti.
Per segnalare il tuo caso: movimentogiustizia@yahoo.it
(Il sito di Avvocati senza Frontiere è uno dei primi siti giuridici in Italia con una media di 45.000 contatti al mese e 3000 utenti).
     
Comunicato Ufficiale della Protesta del 27.9.2010 indetta dal Comitato SpontaneoIl coraggio di denunciare“.
LA PROTESTA E’ APARTITICA E NON PERMETTEREMO A NESSUN MOVIMENTO O PARTITO POLITICO DI STRUMENTALIZZARE LE SOFFERENZE DI CHI HA SUBITO MALA GIUSTIZIA.

Si comunica che il giorno 27 Settembre 2010, a Roma in Piazza Montecitorio e’ stato programmato un Sit-In permanente per pretendere pacificamente e civilmente un dialogo con chi di dovere e istituzionalmente gia’ preposto, per esigere i nostri sacrosanti Diritti sanciti dalla Costituzione Italiana.

Tutti noi Pretendiamo un confronto ragionevole con il Ministro dell’Interno, con il Ministro della Giustizia, il Presidente della Camera e con la Commissione Giustizia per far si che si prendano i piu’ immediati provvedimenti per combattere la Malagiustizia in Italia, inquisendo e sospendendo immediatamente Giudici e Magistrati per le palesi e documentate scorrettezze Penali per favorire elementi con cui sono eventualmente collusi e facenti parte della stessa Casta Massonica Politico-Giudiziaria Mafiosa.

Bisogna mettere con le spalle al muro (in senso metaforico) i titolari dei suddeddi organi Istituzionali obbligandoli a far si che chiunque non faccia il proprio dovere, venga immediatamente allontanato, togliendogli quel potere che immeritatamente usa per favorire la crescita dell’attivita’ Criminosa Massonica Politica Forense e Giudiziaria a discapito di singoli cittadini onesti e denuncianti, all’erario dello Stato e all’Onorabilita’ dello Stato. Vogliamo che questo Sistema Tumorale venga estirpato da una vera Magistratura e noi siamo in grado attraverso le nostre denunce di localizzare tutti i Tumori presenti all’interno di Tribunali e Procure.

Pretendiamo che chi di competenza estirpi immediatamente questi Tumori prima di arrivare al Collasso Totale del Sistema.

Sistema colonizzato criminosamente dalla Casta Massonica Politico-Giudiziaria e Forense.

Voglio ricordare a tal proposito qualche articolo della Costituzione palesemente non attuato e palesemente scavalcato e raggirato criminosamente con la commissione di reati Penali da parte di Giudici, Magistrati, Avvocati e Forze Politiche.

ART. 1   La Sovranita’ appartiene al Popolo

ART. 2   La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo

ART. 3   Tutti i cittadini hanno pari dignita’ sociale e sono eguali davanti alla legge

ART. 21  Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione

ART. 24  Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi

ART. 25  Nessuno puo’ essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge

ART. 28  I Funzionari e i dipendenti dello Stato sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti

ART. 54  Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il Dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

ART. 111  La giurisdizione si attua mediante il Giusto Processo regolato dalla legge

ART. 112  Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale.

Tali articoli sono inosservati quasi totalmente in quanto il Popolo, specialmente quello onesto e che ha il coraggio di denunciare, viene posto nelle piu’ misere delle condizioni e tartassato di vessazioni, minacce e denunce (spesso false), senza che il Popolo Italiano ne venisse a conoscenza a causa della quasi totalita’ di servilismo da parte di editori e giornalisti alla Mafiosa Casta Massonico Politico-Giudiziaria.

Tutto cio’ e’ dimostrato nelle nostre denunce e il nostro normale coraggio di renderle pubbliche e’ anche per far riflettere gli Italiani se la nostra Repubblica e’ una Repubblica la cui Sovranita’ e’ del Popolo o se e’ una mascherata Dittatura in cui il potere se l’e’ preso la Mafiosa Casta Politico-Giudiziaria Forense, truffando l’ingenuita’ e l’ignoranza del Popolo Italiano violando quasi tutte le norme democratiche sancite dalla Costituzione Italiana.

Premesso tutto cio’

Invito tutti gli uomini e donne di buona volonta’ che vogliono fare qualcosa per avere un paese realmente normale, rispettoso delle leggi e della Costituzione nel quale i diritti non si debbano supplicare ma pretendere, di far veicolare il piu’ possibile la diffusione di questo comunicato e invito tutti coloro che vorranno contribuire personalmente, con i loro preziosi suggerimenti e proposte o partecipazione personale alla protesta (giusta pretesa) del 27 settembre 2010 a contattarmi.

 Linee guida da adottare alla manifestazione concordate con la Digos e Questura di Roma da leggere…

http://www.facebook.com/notes/francesco-carbone-due/linee-guida-da-adottare-concordate-con-la-digos-protesta-del-27-settembre-contro/129887117059451

Francesco Carbone Via Giovanni Falcone 12 – 90030 Villafrati (PA) – 3470752136

francescocarbone996@alice.it

Pagina ufficiale Facebook

Francesco Carbone (il coraggio di denunciare)

http://www.facebook.com/pages/Francesco-Carbone-il-coraggio-di-denunciare/107453602609163

Profilo Facebook Francesco Carbone

http://www.facebook.com/profile.php?id=100001254702771

Francesco Carbone Due

http://www.facebook.com/profile.php?id=100001188001617

Evento tramite Facebook

http://www.facebook.com/event.php?eid=137534042950601&ref=mf

Chi e’ Francesco Carbone?

Tutta la vicenda su Poste Italiane denunciata da Francesco Carbone (il coraggio di denundiare)

http://www.facebook.com/note.php?note_id=117409504973879&id=100001188001617&ref=mf

Video su you tube su l’intervista Rilasciata a Tv Alfa Licata (Tv Locale Antimafia) leggete la descrizione

http://www.youtube.com/watch?v=U4wweaTf-yo

Intervista di Pino Maniaci (telejato) a Francesco Carbone

http://www.facebook.com/video/video.php?v=121360907915732&ref=mf%EF%BB%BF

 

 

 

Palermo. Mobbizzata da banca, famiglia e magistrati.

Chi scrive è una cittadina palermitana che, dopo aver fatto ricorso al Tribunale del Lavoro a causa di un mobbing ventennale subito e conclusosi con il licenziamento, oltre al danno esistenziale, ha subito la beffa di non vedere presa in considerazione dai Magistrati giudicanti, in nessuno dei 3 gradi di giudizio, la propria storia di mobbing, corredata da n. 102 documenti allegati a supporto della veridicità degli episodi denunciati.

Nessun giudice è mai entrato nel merito della mia storia di vittima di mobbing per far emergere la verità dei fatti accaduti. Infatti, sia nel giudizio di 1° grado, sia in sede di Corte d’Appello, non è stata presa assolutamente in considerazione la relazione dettagliata che ho allegato al mio ricorso, non mi è stata data l’opportunità di dire una sola parola, non è stato fatto alcun cenno alla “abbondante” documentazione di prova esibita e, addirittura, neanche l’avvocato della parte avversa si è preso la briga, nella sua memoria difensiva, di contestare gli episodi denunciati. Il racconto di 20 anni di vita lavorativa distrutta dal mobbing, corredato da n. 102 documenti a supporto di ogni singolo episodio denunciato, è stato ignorato e considerato come un frutto della fantasia!!! E anche la Corte di Cassazione, che avrebbe potuto fare Giustizia, rinviando ad altro Giudice per esaminare finalmente tali allegati, disattesi dai precedenti Giudici, ha preferito, in data 11/5/2010, con una semplice ordinanza, porre la parola fine alla mia vicenda umana.

Ciò premesso

Invito chi opera nel settore Giustizia a leggere la mia storia di mobbing, appurandone la veridicità, consultando il dossier intestato al mio nome e depositato in Corte di Cassazione: basta leggere i n. 102 documenti allegati, esibiti e ordinati in ordine cronologico!!!

Qui di seguito riporto i riferimenti occorrenti per rintracciare la mia pratica:

RICORSO ex art. 413 e segg. c.p.c. (previa reintegrazione urgente del posto di lavoro) e per violazione degli artt. 1175, 1375,2087, e 2119 c.c.(“Mobbing”) tra Silvana Catalano e IRFIS Mediocredito della Sicilia spa

Tribunale civile di Palermo Sezione lavoro – Giudice: Dr. Dante Martino Fascicolo inserito nella causa civile iscritta al n. 638/2005 R.G.

Corte d’Appello di Palermo : – Presidente: Dr. Antonio Ardito

Consigliere relatore – Dr.Fabio Civiletti.

Fascicolo inserito nella causa civile iscritta al n. 782 R.G.A. 2008,

Corte di Cassazione di Roma – Presidente: Dr. Bruno Battimiello

Consigliere relatore: Dr. Saverio Toffoli.

Fascicolo inserito inscritto al R.G. 11181/09.

In particolare, chiedo che “chi può” legga i n. 102 allegati, poiché dalla semplice lettura di questi documenti emerge inequivocabilmente la verità dei fatti per i quali avevo reclamato Giustizia, documenti che certificano in modo specifico e conducente quanto raccontato e che, invece, non sono stati presi assolutamente in considerazione dai Giudici, pur avendoli agli atti.

Sembra che da più parti esista una ritrosia a identificare il mobbing, (i cui effetti, oltre ad esplicarsi nell’ambito lavorativo, distruggono ogni aspetto dell’esistenza delle vittime), come un crimine pianificato dalla “mafia dei colletti bianchi”, mirante a liberarsi di un dipendente scomodo. Chi denuncia la violenza psichica subita, si ritrova “solo” a combattere una dura battaglia, abbandonato a se stesso da chi si proclamava paladino della giustizia, isolato, talvolta, dai suoi stessi familiari, con la consapevolezza che, per proteggere il silenzio omertoso su certe vicende, esiste chi sarebbe pronto ad usare qualsiasi arma!!!

E’ da 6 anni, da quando ho deciso di denunciare la mia esperienza di vittima di mobbing, che vivo disoccupata, separata in casa dal marito, con 2 figlie che mi considerano morta, senza mai avermi affrontato per dirmi ciò di cui mi accusano. E nessuno, (parenti, amici, conoscenti ecc.) è mai intervenuto per tentare di abbattere questo muro di silenzio, le cui cause “sembra” che siano a tutti sconosciute. Ma non è possibile che nessuno sappia i motivi di tale silenzio; non è “normale” che non si siano confidate con nessuno e tutto mi porta a pensare che esse, a loro insaputa, siano state “manipolate” ad hoc per indurmi, con il loro silenzio, a desistere dalla mia lotta contro il mobbing, divenuta causa, altresì, del clima omertoso che mi circonda.

E’ inquietante il silenzio assordante che aleggia sulla storia di una vita distrutta, ampiamente denunciata da una donna che chiede da anni Giustizia!!!

Auspico di trovare, tra i tanti a cui inoltro questa lettera, qualche persona interessata a dare un “autorevole” contributo al trionfo della Giustizia, portando la mia vicenda dinanzi alla Corte Europea e utilizzando tutti gli strumenti democratici, di cui non dispone un semplice cittadino. I Tribunali italiani mi hanno dimostrato come viene affondata facilmente la semplice “barchetta” con cui una persona comune reclama Giustizia; pertanto per invocare la Giustizia Europea cerco una “corazzata” con persone che abbiano iscritto nell’anima l’ideale di Giustizia!!!

La mia vicenda è un tipico caso di doppio mobbing (è stata distrutta anche la mia famiglia) ed è solo facendo emergere la verità dei fatti accaduti che potrò ricomporre il mio progetto di vita e riabbracciare le mie figlie!!!

Se credete veramente nella Giustizia,  aiutatemi…

Silvana Catalano

VITTIMA DELL'USURA E DELLO STATO MAFIOSO

Ecco un incoraggiamento a non denunciare il racket…

Quando l’antimafia non paga, la storia di Bernardo Raimondi

Legalità è una parola che ha un suo peso, assume le forme di giudici coraggiosi, associazioni che tutelano i cittadini ed i commercianti, può avere la forma dello Stato, ma scegliere la via della legalità non è sempre facile.  Ne sa qualcosa un artigiano molto ricercato per i suoi lavori, Bernardo Raimondi, vittima per anni del racket che decise di ribellarsi a quella morsa così soffocante per affidarsi ad una associazione che lo tutelasse. Anni di peripezie, richieste più o meno palesi di “sponsorizzazioni importanti” per entrare nel circuito di protezione nelle vittime del racket, alla fine Raimondi era riuscito a trovare una soluzione, portando in giro i suoi prodotti e recentemente aveva riaperto il suo laboratorio artigianale a Borgo Molara, una frazione tra Palermo e Monreale. Proprio mentre gli affari ricominciavano a girare, con alcune commesse chieste da turisti in visita, il locale è stato dichiarato inagibile. Mancavano un paio di mensilità arretrate ma il lavoro andava bene, Raimondi sarebbe riuscito a mettersi in pari, poi l’ultima tegola. Nonostante la sua storia sia più volte finita sui media nazionali, Raimondi non riesce ad ottenere lo status di vittima dell’usura, in un silenzio che dopo ben due anni si fa assordante.

Pubblicato da Francesco Quartararo il 22 luglio 2010

http://www.blogpalermo.it/2010/07/22/quando-lantimafia-non-paga-la-storia-di-bernardo-raimondi/

 

Palermo, tenta di darsi fuoco davanti al Tribunale

Palermo, tenta di darsi fuoco davanti al Tribunale

“Al Tribunale” PalermoSi è cosparso di benzina, pronto a darsi fuoco. Poco più di 250 euro al mese per vivere, una causa di divorzio in corso che non gli rende giustizia, una leucemia che complica gravemente le cose. Lo racconta il cartello che ha tenuto in mano finché non ha preso la tanica da 5 litri per svuotarsela addosso. I vestiti zuppi di benzina, in mano un accendino.

È al centro della strada, davanti all’ingresso del vecchio Palazzo di Giustizia di Palermo.

Più giù, in strada, gli automobilisti ignari procedono a rilento, la chiazza di combustibile si allarga al centro della strada. V.C., 65 anni, è pronto ad azionare l’accendino. Un carabiniere gli piomba addosso, bloccandolo e riuscendo a togliergli l’accendino. Nel frattempo arrivano i rinforzi: in pochi istanti la zona è presidiata dalle forze dell’ordine.

Per strada il traffico rallenta, qualcuno pensa al morto ammazzato, all’attentato di mafia. Per fortuna non è morto nessuno.

Arriva l’ambulanza, ma V.C. non vuol essere trasportato in ospedale. Cercano di sedarlo, di tranquillizzarlo, ma lui non può. Ha tanto da raccontare, tanto da chiedere. Vuole tornare in strada, i vestiti che ancora puzzano di benzina: gli infermieri gli fanno togliere almeno la giacca, che viene appesa allo sportello dell’ambulanza ferma accanto all’ingresso del tribunale. I passanti rallentano per capire cos’è successo. Al carabiniere che tenta di farlo ragionare risponde con toni esagitati, continuando a inveire. Il carabiniere gli dice che possono costringerlo a restare dov’è e allora V.C. si accende di nuovo, si toglie di scatto l’apparecchietto che gli monitora le pulsazioni cardiache e scende dall’ambulanza. “Mi arresti, mi metta le manette! Se è un uomo, mi metta le manette” dice esagitato, puntandogli il dito contro.

06-11-2008 | Autore. siciliainformazioni.com

 http://castelvetranoselinunte.it/al-tribunale-palermo-tenta-di-darsi-fuoco/1950/

Otto anni per scrivere una sentenza, i boss liberi

 

di Francesco Viviano
(Giornalista)

Due mafiosi condannati otto anni fa a 24 anni di reclusione ciascuno, la moglie del boss Piddu Madonia condannata a 8 anni di reclusione e altri quattro favoreggiatori di Cosa nostra condannati a pene minori, sono liberi da 6 anni perché il giudice che emise la sentenza, Edi Pinatto non ne ha ancora scritto le motivazioni.

È un record, s’intende negativo, della giustizia italiana che ancora oggi rimane tale e che fa gridare allo scandalo il sindaco di Gela, Rosario Crocetta, che si è rivolto al ministero della Giustizia: «Non si può – dice – consentire che in uno Stato democratico basato sul diritto, lo Stato condanni ed un magistrato, a distanza di quasi otto anni non depositi una sentenza per cui un intero clan mafioso è in libertà e gira tranquillo per la mia città».

Edi Pinatto, 42 anni, da sette, da quando ha lasciato Gela, è pubblico ministero alla procura di Milano. La sua stanza è al quinto piano, la numero 512 e lui è quasi sempre presente, non si è mai assentato eppure, nonostante siano trascorsi esattamente 7 anni, 8 mesi e 18 giorni, non è riuscito a scrivere le motivazioni di quella condanna.

«Perché vuole sapere di questa sentenza? Io non posso parlare di cose di lavoro con i giornalisti», è la sua prima reazione.

E quando obiettiamo che non si tratta di rivelare segreti relativi ad inchieste in corso e che chiediamo di sapere perché tanto ritardo, Pinatto abbassa il volume della radio che trasmette brani di musica jazz e risponde serafico: «Guardi, io non posso proprio dire nulla, se vuole ne parliamo dopo, quando finirò di scrivere la sentenza».

Ma intanto sa che quei due mafiosi condannati, così come la moglie del boss Piddu Madonia, sono liberi?

«Sì lo so, ma non è la prima volta, non sono il solo a metterci tanto tempo. Le scriverò fra alcuni mesi, appena smaltirò questi fascicoli che lei vede sul mio tavolo, e solo allora potremmo parlarne. Adesso mi lasci lavorare».

La storia di questo processo, uno dei più lunghi della storia giudiziaria italiana, comincia nel dicembre del 1998, quando i carabinieri del Ros arrestano una cinquantina di mafiosi in tutta la Sicilia, tutti favoreggiatori e uomini di Bernardo Provenzano.

Tra questi Giuseppe Lombardo, Carmelo Barbieri, Maria Stella Madonia e Giovanna Santoro, rispettivamente sorella e moglie del boss della Cupola, Piddu Madonia da anni in carcere dove sta scontando una serie di ergastoli.

Il troncone nisseno, per competenza, passa al tribunale di Gela ed Edi Pinatto presiede la sezione che processerà i quattro imputati eccellenti, considerati esponenti di primo piano di Cosa nostra.

Il 22 maggio del 2000, in tempi brevissimi, arriva la sentenza di primo grado. Edi Pinatto condanna Lombardo e Barbieri a 24 anni di reclusione ciascuno, Maria Stella Madonia a 10, Giovanna Santoro ad 8 ed altri a pene minori.

Il magistrato avrebbe dovuto pubblicare i motivi della sentenza tre mesi dopo il pronunciamento.
Non lo ha ancora fatto.

Così nel 2002 tutti i condannati sono stati scarcerati per scadenza dei termini di custodia cautelare.

Pinatto nel frattempo aveva ottenuto il trasferimento dal Tribunale di Gela alla procura di Milano dove attualmente lavora.

Ma anche a Milano Edi Pinatto si è fatto la fama di «giudice lento» tanto da essere stato sollecitato dal capo del suo ufficio che gli ha contestato, per iscritto, il suo «basso rendimento» nelle inchieste milanesi di cui è titolare.

Il presidente del Tribunale di Gela, Raimondo Genco ha segnalato da tempo la vicenda della sentenza fantasma al Csm ed al ministero della Giustizia.

Convocato dal Csm nel giugno del 2004, Pinatto tentò di giustificarsi in qualche modo: «È certamente un caso scandaloso – ammise – ma non è il solo, ve ne sono altri».

In quell’occasione Pinatto venne “condannato” dal Csm a due anni di perdita di anzianità.

Ma delle motivazioni, anche in seguito, nessuna traccia.

Due anni dopo venne nuovamente convocato per lo stesso motivo. «La pervicacia dell´omissione dell´incolpato – disse il rappresentante dell’accusa al Csm – è anche denegata giustizia» e una «stasi incredibile».

L´accusa chiese alla sezione disciplinare del Csm di erogare la massima sanzione prima della rimozione, ma Pinatto se la cavò con altri due mesi di perdita di anzianità.

Tutti i suoi colleghi pensavano che avrebbe provveduto, invece tutto è fermo, come otto anni fa.

E i mafiosi? «Stanno qua, girano tranquilli per la città e – dice un investigatore di Gela – continuano a fare i mafiosi».

da La Repubblica