Archivio Categoria: Molise

SCARCERAZIONE IZZO. MALAGIUSTIZIA ASSASSINA: CONDANNA EUROPEA

   
di Davide Giacalone   
Mercoledì 16 Dicembre 2009 12:52
Che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanni l’Italia non fa notizia, avviene spesso. Ma la condanna per la scarcerazione di Angelo Izzo, il massacratore del Circeo, costata la vita a due donne, è di quelle che strappano un grido di rabbia e vergogna. Se il dibattito sulla giustizia, sulla necessità di riforme profonde, volesse avere un andamento serio, se volesse occuparsi di quel che riguarda tutti, senza sconti per nessuno, dovrebbe ripartire proprio da qui, da questa condanna. Che ora, a noi cittadini, costa anche 45 mila euro di danni morali, che paghiamo, prelevandoli dalle casse statali, alla famiglia delle vittime. Troppi, se si calcola che la responsablità non è delle leggi, ma di chi le ha male amministrate. Troppo pochi, se si riferiscono a due vite, violentemente recise.

 

Siamo stati condannati, noi italiani, noi Italia, per avere violato il “diritto alla vita”, sancito dall’articolo due della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Come abbiamo fatto? Leggete appresso, ed indignatevi, per favore. Abbiamo violato il diritto alla vita di quelle due donne perché avevamo in custodia, presso le patrie galere, un condannato all’ergastolo, già dimostratosi uomo violento. Un torturatore. Le nostre leggi stabiliscono che anche il peggiore dei delinquenti può redimersi. E’ giusto. Lo riconosce anche la Corte, che non contesta affatto quella legge, non contesta l’ipotesi che un detenuto possa avere la semilibertà, anche se condannato per omicidio. Contesta il modo in cui è avvenuto: è stata non applicata, ma violata la legge.

Il detenuto Izzo godeva della semilibertà, anche se ne aveva già tradito le regole e, pertanto, doveva essergli revocata. Ma i giudici di Palermo lo misero in libertà nonostante le violazioni. Ed i giudici di Campobasso non informarono il tribunale di sorveglianza di ulteriori, gravi infrazioni. Quindi, un po’ perché i giudici agirono con leggerezza, un po’ perché omisero di fare il loro dovere, trasmettendo a chi di dovere informazioni vitali (in senso letterale), è andata a finire che il detenuto Izzo era in libertà pur non avendone diritto. In questo modo lo Stato ha violato l’articolo due, che non solo prevede l’obbligo di non procurare la morte, ma anche quello di prendere le misure necessarie per preservare la vita.

La malagiustizia è costata la vita a due donne, e, ora, costa la condanna a noi tutti. Poniamoci ancora una domanda, per darci una risposta raccapricciante: perché i familiari sono ricorsi a Strasburgo? Risposta: perché, come ha ricordato la Corte di Strasburgo, nei confronti dei magistrati di Palermo fu avviata un’azione disciplinare, ma non ci fu nessuna sanzione, neanche amministrativa, e nei confronti di quelli di Campobasso fu la famiglia delle vittime ad avviare un’azione penale, ma fu archiviata.

Chi uccise è tornato ad uccidere, ma secondo la nostra giustizia nessuno ne è responsabile. Fra irresponsabilità e caos burocratico, fra approssimazione e arroganza autoprotettiva, la giustizia muore. Ma di queste cose non si parla, quando si discute di riforme, forse perché riguardano tutti e non solo qualcuno. Di questo non si tiene conto, quando ci si lamenta per l’immagine dell’Italia nel mondo, forse perché si presta poco alle inutili polemiche.

Da qui, allora, si dovrebbe ripartire, azzerando speculazioni e corporativismi, cercando di restituire un senso alla giustizia.

http://www.nondiamocideltu.it/davide-giacalone/84-malagiustizia-assassina.html

Malasanità e malagiustizia. Chi le denuncia viene punito!

Un giornalista di Panorama vestito da medico si era infiltrato nei reparti dell’ospedale di Isernia per dimostrare il degrado che regnava in corsia. Ora a quasi due mesi di distanza qual è stato il provvedimento dei responsabili sanitari dopo la clamorosa inchiesta-denuncia? Il licenziamento di un primario. Meglio di niente, si dirà. Però il medico in questione, Cristiano Huscher, non è stato cacciato perché ritenuto responsabile del degrado, ma perché sospettato di aver aiutato il giornalista a documentare quel degrado. “La commissione di inchiesta interna ha ritenuto che sia stata raggiunta la prova, con ogni ragionevole certezza, che il giornalista di Panorama, qualificatosi come dottor Trimarchi, sia stato presentato da lei…”: così Huscher, primario di chirurgia dell’ospedale di Isernia, che respinge l’accusa e dice di essere stato raggirato dal cronista, è stato cacciato.

A quanto risulta nessun provvedimento è stato emesso nei confronti dei responsabili di altri reparti in cui il giornalista è entrato.
Ma, cosa ancor più incredibile, nessun provvedimento è stato indirizzato a medici e chirurghi che fumano all’interno dei blocchi operatori. Che non indossano guanti e mascherine durante gli interventi chirurgici. Che disattendono tutte le norme in materia di infezioni ospedaliere. Nulla di nulla.

Alla commissione di inchiesta dell’Asrem (Azienda Sanitaria Regionale del Molise) interessava scovare e colpire il presunto “traditore”. Per la salute dei malati c’è tempo.

http://blog.panorama.it/italia/2010/02/03/in-molise-licenziato-il-primario-aiuto-panorama-a-denunciare-il-degrado/

VERDINI, L'AQUEDOTTO, IL MOLISE

La Toscana e il Molise, la Banca di Credito Cooperativo Fiorentino di Campi Bisenzio e l’acquedotto milionario, le ipotesi di riciclaggio che pesano su Denis Verdini e l’associazione di imprese Btp. Nessun delirio di metà agosto. Solo una coincidenza.
 Il coordinatore del Pdl, Denis Verdini appunto, al centro di una bufera giudiziaria, avrebbe sostenuto fortemente il gruppo Btp dell’amico costruttore Riccardo Fusi.
Btp sta per Baldissini-Tognozzi-Pontello, il mega raggruppamento di imprese che ha partecipato alla gara d’appalto per la realizzazione dell’acquedotto molisano, quella gestita direttamente (con colpe gravi come hanno scritto i giudici del Consiglio di Stato) dalla Molise Acque e finita nel mirino prima della giustizia amministrativa e poi di quella penale. Anche se, sotto quest’ultimo profilo, non si muove foglia nonostante ci siano sei indagati (tutti i componenti della commissione che giudicò quegli appalti milionari, gli stessi che non avevano titoli e competenze come scrissero i giudici…) e nonostante l’allora procuratore della Repubblica, Mario Mercone, avesse fatto richiesta di incidente probatorio sugli atti dell’appalto. Fatto sta che il dottor Mercone è stato trasferito a Cassino e dell’intera questione non si è saputo più nulla. Silenzio.
Secondo i magistrati di Firenze, il Credito Cooperativo Fiorentino di Campi Bisenzio (la banca del coordinatore del Pdl, dicono gli inquirenti) avrebbe sostenuto la ‘spericolata attività imprenditoriale di Fusi’ – come scrive La Repubblica – in maniera poco prudente. Al punto che i dirigenti non avrebbero concesso alcun prestito alla Btp se non fosse intervenuto personalmente Verdini. Lo sostengono gli imprenditori di Bankitalia che hanno messo a soqquadro atti, documenti e quant’altro. I magistrati sospettano che fusi (patron della Btp) e Verdini siano soci occulti.
La Btp arrivò seconda nella gara per l’appalto milionario per l’affidamento dei lavori di costruzione dell’acquedotto molisano centrale. I progetti, come si ricorderà, furono esaminati da una commissione che non aveva i titoli per farlo e l’aggiudicazione fu firmata prima dell’udienza fissata dai giudici a seguito del ricorso avanzato proprio dalla Btp.
I giudici amministrativi hanno anche stabilito una sorta di ‘risarcimento’ per la Btp. Il 10% del valore della gara, sui 4 milioni di euro. Una somma importante a fronte delle stranezze che hanno caratterizzato la gestione dell’appalto milionario finita all’attenzione – per i profili di competenza – del Tar, del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti e della Procura della Repubblica. Nel frattempo alla guida dell’azienda speciale Molise Acque è stato nominato l’avvocato Stefano Sabatini.
Qualche mese fa, invece, il presidente del Cda dell’impresa di costruzioni Baldassini-Tognozzi-Pontello, Riccardo Fusi, indagato nell’inchiesta fiorentina sui grandi eventi, si è dimesso dalla carica. Fusi è accusato di corruzione e anche per associazione per delinquere aggravata dalla finalità mafiosa.
“In considerazione del particolare momento nel quale mi vengo a trovare – scrive Fusi in una lettera al cda della Btp – nell’interesse della società e di tutti i suoi addetti, ritengo doveroso rassegnare le mie dimissioni dalla carica di presidente del consiglio di amministrazione, cosicchè l’azienda possa continuare ad operare serenamente e senza ombre come sempre fatto. Contemporaneamente – aggiunge Fusi – avrò la possibilità di tutelare con maggiore serenità la mia persona, certo di poter dimostrare la mia totale estraneità a tutti i fatti che mi vengono contestati”.
 Nell’inchiesta Fusi è indagato per corruzione con riferimento anche all’appalto per la scuola dei marescialli dei carabinieri, a Firenze. Nelle numerose telefonate intercettate, uno degli interlocutori di Fusi risulta essere il coordinatore del Pdl Denis Verdini, anch’egli indagato per corruzione con riferimento alla nomina di Fabio De Santis a provveditore alle opere pubbliche della Toscana.
Ma la Bpt entra prepotentemente anche nella regione Abruzzo con il consorzio «Federico II» nato proprio allo scopo di prendere appalti all’Aquila nel dopo-sisma, sotto gli auspici del coordinatore nazionale del Pdl Verdini. Lo stesso esponente nazionale del partito del premier ha ammesso, nell’interrogatorio davanti ai pm fiorentini, «di aver raccomandato» il presidente dell’impresa Btp, Fusi, «perché avesse qualche appalto in Abruzzo. Anche perché era in un momento in cui lavorava poco». Verdini ha parlato «delle difficoltà economiche della Btp» e del fatto che «se può aiutare un’impresa con 3mila dipendenti lo fa». Lo stesso esponente Pdl chiamò al telefono, il 17 giugno 2009, l’imprenditore Fusi indagato per corruzione, e gli passò il presidente della Regione Gianni Chiodi.
22 Agosto 2010
http://www.primapaginamolise.it/detail.php?news_ID=34727

MALASANITA' VIDEOINCHIESTA

Ho indossato un camice bianco, un paio di zoccoli verdi e sono entrato negli ospedali. Mi sono attaccato al petto un cartellino con un nome fasullo: dottor Valerio Trimarchi, dell’inesistente associazione Orchidea bianca onlus. Ho assunto le vesti di un volontario, laureato in medicina in procinto di fare la specializzazione. È bastato per spalancarmi le porte di reparti, pronto soccorso, sale operatorie.

Trattato come un medico da pazienti, inservienti, infermieri, colleghi. Questi ultimi mi hanno accolto nei loro camerini, mi hanno assegnato l’armadietto e gli indumenti da lavoro. Sono entrato a contatto diretto con i malati, ho fatto il giro di visite del mattino e ho preso parte (ma non ho preso i ferri in mano, tranquilli) a interventi chirurgici.

Gli ospedali al centro di questa inchiesta sono quattro: a Catanzaro, Napoli, Isernia e Venafro, in provincia di Isernia. Nel corso dell’indagine (tutta documentata da una telecamera nascosta) ho visto barboni che mangiano e dormono a pochi metri dai malati, zingare che passano fra i letti a chiedere l’elemosina, cinesi che entrano nei reparti per vendere ai bambini giocattoli privi di ogni standard di sicurezza.

Poi medici e infermieri che fumano, alcuni perfino dentro i blocchi operatori. Ho seriamente rischiato di togliere dei punti di sutura dalla testa di una donna. Soprattutto, ho visto da vicino come il personale sanitario si comporta a volte nei nostri ospedali. Come vengono ignorate le più basilari regole di comportamento e di igiene, la cui inosservanza provoca ogni anno circa 500 mila infezioni e più di 5 mila morti. Pazienti che erano andati a curarsi per altre cause.

Catanzaro
Sono le 7 di martedì 29 settembre, Ospedale Pugliese di Catanzaro. Per un’ora faccio su e giù con gli ascensori. Le norme prescrivono che la biancheria pulita segua un percorso diverso da quella sporca. I rifiuti ospedalieri, organici, non devono transitare negli stessi ascensori utilizzati da medici, pazienti o per il cibo. A Catanzaro non funziona così. Passa tutto per lo stesso montacarichi. Ci sono dentro quando si apre la porta. Un operaio: “Dottò, sta scendendo?”. Rispondo di sì e lui spinge all’interno il carrello con un bel po’ di bidoni gialli messi uno sopra l’altro fino al soffitto. Ci stringiamo nel poco spazio disponibile. Li abbiamo addosso. Nell’etichetta esterna c’è scritto: “Rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo“.

Dentro possono esserci garze imbevute di sangue, siringhe, residui di interventi chirurgici, anche materiale radioattivo utilizzato nella medicina nucleare. La porta dell’ascensore si apre, pochi minuti dopo sono sempre lì con il carrello del cibo.
Alle 8 e mezzo eccomi in pediatria. Entro nella saletta dei medici. Ce ne sono tre, più due infermiere. Mi presento: sono il dottor Trimarchi dell’associazione Orchidea bianca onlus. Dico tutto velocemente, come fosse la più famosa organizzazione sanitaria italiana, nella speranza di far scattare il tipico meccanismo per cui non chiedi ulteriori informazioni per paura di passare per deficiente davanti agli altri. È andata. Spiego che mi sono appena laureato e che la nostra struttura ci manda a fare degli stage in giro per gli ospedali. Vorrei stare un giorno con loro per vedere come lavorano. Non c’è problema, nessuno chiede una lettera di incarico, un documento, una preventiva richiesta alla direzione generale. Nulla. Mi accettano sulla parola.

Da questo momento parte quel processo che poi si ripeterà in alcuni dei centri successivi: basta farsi vedere in giro con un infermiere o un medico perché tutti gli altri ti considerino uno di loro, un nuovo arrivato. Ogni minuto che passa, ogni gesto è un tassello che va ad arricchire la tua tracciabilità. Fino a non riuscire più a risalire al momento originario. Ovvero, come sei entrato lì. Chi ti ha mandato. Chi ti ha aperto le porte per primo.

Sono a tutti gli effetti il dottor Trimarchi. Il primo a darmene atto è l’imbianchino che dipinge i muri del corridoio. Mi saluta con una certa deferenza. La puzza della vernice si sente, eccome. Le infermiere mi accolgono nella loro saletta. Una mi prepara il caffè. Poi mi offre una sigaretta. Lei accende e apre la finestra. Mi infilo nella camera dei medici. Anche qui si fuma.

Dopo mezz’ora il battaglione muove alla volta delle camere dei bambini per il consueto giro mattutino delle visite. Alla testa c’è il medico più esperto. Camice aperto, mani in tasca o a giocare con le chiavi, passa da un letto all’altro dispensando affettuosi buffetti e barzellette. Le visite avvengono tutte senza guanti e senza un minimo di privacy, ogni comunicazione è a partecipazione collettiva.

Prima mi sono informato sulle diagnosi dei malati: c’è chi ha un’infezione generalizzata, chi da morso di zecca, chi ha la mononucleosi, l’epatite. In una stanza ci sono tre letti: due adolescenti e un bambino. Dopo aver toccato le ragazze il medico infila la mano dentro la bocca del piccoletto. Ma non vede bene. Allora afferra la tapparella, la tira su. Poi fa alzare il bambino, lo mette a favore di luce e gli rificca la stessa mano in bocca. Un altro bambino ha delle strane macchie sul corpo. Dietro un orecchio la pelle è aperta. Il medico ci passa le mani, poi invita l’assistente ad avvicinarsi. Tocca pure lei. Senza guanti. L’équipe si consulta. Non si riesce a capire a cosa siano dovute. Le gambe sono piene. Uno butta lì l’ipotesi tubercolosi, un altro epatite.

Durante una visita, il medico mi coinvolge: “Lei che ne pensa, dottor Trimarchi?”. Sono con le spalle al muro, non so cosa fare. Ripete la domanda, vuole sapere se in presenza di quei valori la diagnosi è corretta. Rispondo che non lo so, non è quella la mia specializzazione. “E in che cosa siete specializzato voi, dottore?”. Già, bella domanda. In sociologia, in sociologia medica, ecco. Dico così e subito mi do del deficiente. Ma che c’entra la sociol…? “Bene!” esclama il medico. “Ho giusto un caso di cui vi potete occupare allora”. Sono pronto. “Una bambina alla quale abbiamo scoperto il diabete. Ma la mamma, che è qui con lei, è analfabeta”. In una camera singola c’è un bambino con gravi malformazioni. Sembra affetto da sindrome di Down. È grasso, gonfio dalla testa ai piedi, sproporzionato.

Mentre il medico si avvicina lui gli sfila lo stetoscopio dalla giacca. Ci gioca con le mani. Se lo attacca alle orecchie, al petto. Alla fine il dottore lo riprende e lo rimette in tasca. Ci sono altri piccoli da visitare.
Intorno alle 11 esco e vado a prendere il caffè al bar di fronte all’ospedale. Con camice e zoccoli, cosa vietata. Ma sono in buona compagnia. Torno dentro, sulle scale trovo una zingara che chiede l’elemosina. La tengo d’occhio. Dopo un po’ si infila in un reparto, si fa largo tra i parenti in visita, arriva perfino ai letti dei malati.

Provo a entrare nel blocco operatorio. Suono il campanello. Un’infermiera mi apre la porta. Saluto con piglio sicuro e vado dentro. Dopo pochi metri c’è un’altra porta a vetri opachi. Su un cartello c’è un avviso rivolto a tutto il personale: “Si ricorda che è assolutamente vietato entrare nelle sale operatorie senza divise, calzari, cappellini e mascherine adeguate”. Gli indumenti sono lì a fianco. Li ignoro. La porta si apre su un corridoio, sulla destra ci sono due sale operatorie. Un infermiere mi viene incontro. Non ha calzari, cuffia, guanti: nulla. Gli dico che sto cercando il dottor Vattelappesca, un dottore di cui ho letto il nome su un cartello in giro. “Sta al piano di sotto”. Ribatto: mi ha detto di trovarci qui per prendere accordi per un intervento. Tanto basta, semaforo verde. La scena si ripete identica nella camera successiva. Sulla soglia una donna parla al cellulare. La chiamata sembra di lavoro. La seguo dentro. Mette il telefono nella tasca posteriore dei pantaloni, prende una garza e si rimette al lavoro. Non ha cambiato i guanti. Le sue mani si posano sull’uomo operato. Con lei c’è un’altra donna: naso fuori dalla mascherina. A un metro, una infermiera vestita come fosse in reparto. Ha soltanto una cuffia sui capelli, che lascia scoperti grandi ciuffi sul davanti. Non ha i calzari. Come me, che sto a due metri dal lettino operatorio con le stesse scarpe che avevo poco prima al bar di fronte all’ospedale.

All’uscita del reparto un uomo mi chiede com’è andata l’operazione, è preoccupato. Rispondo che è tutto ok e prego Dio che sia vero. Lo rassicuro, la madre si è risvegliata. Mi stringe le mani, mi ringrazia, dice che però si tratta della moglie.
Un infermiere mi ha raccontato di un barbone che mangia e dorme dentro la struttura. Lo trovo seduto davanti al reparto di medicina nucleare, tra l’ascensore e la corsia, dove passano i malati. È grosso, dorme piegato su se stesso. Ha due sacchetti pieni di cianfrusaglie. Le gambe sono gonfie, le caviglie non si distinguono. Puzza. Ha i capelli lunghi e la barba. Accanto a lui c’è un piatto di plastica con i resti del pranzo che ha appena consumato. Lo chiamano “Carminuzzo”, diminuitivo di Carmelo, ha il mio stesso nome.

Continuo il giro. Fra gente che mi chiede informazioni. Non so che rispondere, mi scuso, dico che è il mio primo giorno. Mi becco auguri e pure qualche bacio. Incrocio una ragazza cinese. Ha uno zaino sulle spalle e una sorta di bancarella ambulante davanti con bracciali, orologi e giocattoli. La seguo. Un’infermiera le chiede un cinturino, contrattano. Entra ed esce dalle stanze, anche in pediatria, dove vende i suoi giochi di plastica privi degli standard di sicurezza previsti dall’Unione Europea.

Napoli
Giovedì primo ottobre il dottor Valerio Trimarchi si presenta al Pellegrini di Napoli, nel centro storico. Non ho fortuna. L’ospedale è piccolo, si conoscono tutti, dal primario all’ultimo dei volontari. Riesco comunque a fare un giro all’interno. Non sono ancora le 8 del mattino. Diversi ricoverati dormono sulle barelle nei corridoi. Le condizioni igieniche sembrano scarse. Sul davanzale di una finestra ci sono decine di mozziconi di sigarette. Stessa situazione al pronto soccorso.
L’ingresso dell’ospedale dà su una strada molto trafficata. Poco più su c’è l’arrivo della metropolitana. È una fiumana di persone che si trascina tra auto e moto. In mezzo vedo infermieri e medici in divisa, uno addirittura con la tuta operatoria. Vanno al bar o nei negozietti della via.

Isernia
Per entrare all’ospedale di Isernia, in Molise, mi infilo in un vorticoso giro di conoscenze tipico di una certa Italia dove l’amicizia e il clientelismo la fanno da padrone. Si trova sempre qualcuno che ti consiglia a un altro, che a sua volta non si prende nemmeno la briga di capire chi sei. Gli basta soltanto sapere che sta facendo un favore. Si va avanti così, in una sorta di catena di Sant’Antonio della quale non si riesce più a venire a capo.

Intanto Valerio Trimarchi venerdì 2 ottobre di buon mattino arriva in divisa d’ordinanza all’ospedale Veneziale. Dico che mi sono appena laureato e che mi accingo a scegliere la specializzazione. In medicina generale i pazienti sono tutti anziani. I medici si fermano ai piedi del letto, guardano la cartella, si confrontano, prescrivono esami. Le mani ce le mettono gli infermieri. Si passa da un pannolone all’altro fino alle flebo: senza guanti. Solo un’infermiera è ligia al dovere. Gli altri quasi la rimproverano per l’inutile perdita di tempo. Alla fine vado al bar.

Una dottoressa in camice bianco è appoggiata a un’auto parcheggiata. Aspetta qualcuno. Un medico in tuta verde attraversa la strada. Torno nel blocco operatorio. Mi conoscono tutti, mi muovo in totale libertà. Vedo medici e infermieri senza copriscarpe, mascherine. Senza guanti. Un paio di chirurghi fumano. A pochi metri dalle sale dove si operano i malati, i posacenere sono pieni di mozziconi.

Intorno alle 2 del pomeriggio mi accingo a lasciare l’ospedale. Sbaglio l’uscita. Percorro un corridoio pieno di scatoloni, qualcosa a metà tra un magazzino e un ripostiglio. I muri sono scrostati, alcune piastrelle divelte. Cammino per una decina di metri quando sulla destra mi trovo una porta spalancata: dentro ci sono tre malati che dormono sui lettini. Fanno la dialisi. Le condizioni igieniche sono scadenti. A metà corridoio, senza alcuna porta divisoria, c’è un bagno con due sanitari dove si scaricano pale e pappagalli.

Nel pomeriggio accompagno un medico all’ospedale di Campobasso, nel reparto di anatomia patologica, dove da Isernia mandano ad analizzare i tessuti asportati. Davanti a un cartello con scritto “Vietato fumare” una dottoressa ci intrattiene con una sigaretta fra le mani. La stessa mattina le sono arrivati dei “pezzi” che ancora non riesce a capire perché siano stati asportati. Ci invita a prendere l’abitudine di segnalare la sospetta diagnosi. E accende una seconda sigaretta.

Venafro
Il giorno dopo, su segnalazione di un medico di Isernia, vado a trovare un collega a Venafro, distante una trentina di chilometri. Ha l’aspetto provato, è stanco. Ha voglia di parlare e di sfogarsi. Fare l’ortopedico lì è come essere in trincea, ti arriva di tutto e lavori in condizioni estreme. Con gente che fuma in sala operatoria. Ogni volta che impianta una protesi, dopo che ha cucito prega Dio perché non subentrino complicazioni e infezioni.

Quello che intende lo vedo con i miei occhi lunedì 5 ottobre. Faccio un rapido giro per il reparto. Le camere sembrano supermercati. I comodini faticano a contenere bottiglie, biscotti, patatine e pasticcini. I medici mi danno subito del collega. Dico che sono troppo buoni e che non merito ancora quel titolo perché devo fare la specializzazione. Non importa, sono molto gentili. Mi invitano nella loro stanza, mi affidano un armadietto e una tuta per la sala operatoria. C’è da correre a fare gli interventi. Ci cambiamo.

Nel blocco operatorio ci sono i canonici indumenti monouso. Poi, stranamente, gli spogliatoi sono più avanti nel percorso che porta alle sale operatorie. Le regole vengono molto disattese. L’infermiere che assiste il chirurgo non indossa guanti. Mentre l’operazione è in corso la porta si apre: è un medico in camice bianco e scarpe normali. Rimane sulla soglia a chiacchierare con i colleghi.
Torno in reparto. Sul tavolo della saletta infermieri c’è dell’uva. Il medico mangia e con la stessa mano tocca la medicazione di una donna. Una signora cammina con un mucchio di lenzuola tra le braccia. Ha disfatto lei stessa il letto della figlia. Intanto il medico controlla la mano fasciata di un uomo. Tre dita sono nere, in necrosi. Dai polpastrelli escono fili di ferro. Lui ci infila le mani, che non ha mai lavato dopo avere mangiato l’uva.

Rimango solo, mi trovo davanti una signora: “Dottò, stamattina il primario mi ha detto che prima di uscire mi devono togliere questi punti dalla testa. Ma ora lui non c’è più. Che fa, me li toglie lei?”. Esito. Poi chiedo a un’infermiera di indicarmi la medicheria perché, specifico bene, devo togliere i punti a quella donna. Entriamo. Faccio accomodare la signora, prendo un paio di strumenti, ci gioco, la guardo e le dico che forse è meglio aspettare il primario. Con la salute della gente è meglio non scherzare.

PARENTOPOLI NELLA SANITA'

Sotto accusa il presidente del Molise: “Parentopoli nella sanità”. Il deficit sanitario regionale ha raggiunto in otto anni 600 milioni. Tre figli, due fratelli e due cugini e la dinastia Iorio occupò Isernia.

di Giuseppe Caporale

ISERNIA – All’ospedale “il Veneziale” di Isernia non c’è vento di crisi. Mentre sulla gran parte dei nosocomi della regione si abbattono tagli e ridimensionamenti (con tanto di rivolte cittadine), per porre un argine al deficit sanitario arrivato a 600 milioni di euro in otto anni, al Veneziale no. Qui accade tutt’altro. Infatti, in questo ospedale la Regione Molise ha deciso di investire altro denaro, attivando una nuova unità operativa (una “stroke unit”) che costerà alle esangui casse regionali più di un milione di euro. Un finanziamento indirizzato al reparto di neurofisiopatologia, diretto dal primario Nicola Iorio, fratello del governatore. Fondi che saranno gestiti dalla direttrice del distretto sanitario regionale di Isernia, Rosa Iorio, sorella del governatore. Ma i due Iorio citati non sono gli unici parenti di Michele, presidente della Regione, che lavorano al Veneziale.

L’elenco, in verità, è lungo ed anche al centro di interrogazioni in consiglio regionale: il cognato Sergio Tartaglione (marito di Rosetta Iorio) è il primario del reparto di psichiatria e presidente dell’ordine dei medici di Isernia; il figlio del governatore, Luca Iorio, nell’ospedale lavora in qualità di medico chirurgo; il cugino del presidente, Vincenzo Bizzarro, attuale consigliere regionale di Forza Italia, è stato direttore del distretto sanitario di Isernia, ed una volta in pensione ha lasciato il posto alla cugina Rosa (nominata tra le polemiche in virtù della sua laurea in giurisprudenza).

L’elenco prosegue: la moglie del cugino del governatore, Luciana De Cola, ricopre, al Veneziale, il ruolo di vice direttrice sanitaria. Il primario del reparto di Cardiologia è Ulisse Di Giacomo, senatore di Forza Italia e coordinatore regionale del partito di Berlusconi. Anche lui al Veneziale ha un parente nel suo stesso staff medico. Lavora a Isernia, ma in un centro medico privato (Hyppocrates), convenzionato anche con la Regione, Raffaele Iorio (figlio del governatore) in qualità di direttore medico.

La parentopoli ha dato anche problemi giudiziari a Michele Iorio: a causa dell’assunzione del terzo figlio, Davide Iorio, presso una multinazionale estera che ha lavorato per la Regione Molise, il governatore è stato indagato dalla procura di Campobasso per corruzione. I magistrati ipotizzano una correlazione tra il contratto di lavoro del giovane e le consulenze affidate dall’ente alla società. Ma i parenti di Iorio lavorano anche negli uffici della Regione. Infatti un’altra cugina di Iorio, Giovanna Bizzarro, ricopre il ruolo di funzionaria, mentre il fratello della moglie del presidente, Paolo Carnevale, risulta direttore della società pubblica Arpa (Azienda regionale per la protezione ambientale) di Isernia.

Dai parenti poi si passa ai colleghi di area politica. Gianfranca Testa, candidata alle elezioni comunali di Isernia con la lista civica (voluta da Michele Iorio) “Progetto Molise”, è stata da poche settimane nominata direttrice del distretto sanitario di Venafro. Le connessioni coinvolgono anche lo staff del governatore. Il figlio del suo portavoce, Giuseppe Scarlatelli, è stato assunto negli uffici del distretto sanitario di Termoli con l’incarico di “correttore di bozze” del giornalino dell’ente.

La fitta ragnatela è contenuta in un dossier prodotto dal consigliere regionale del Pd Michele Petraroia, che racconta: “L’ultimo episodio è sintomatico. Anche la figlia di uno degli autisti del governatore è entrata a lavorare per un ente regionale. Senza concorso, per chiamata diretta…”.

La Repubblica.it

Corruzione, arrestati in Molise agenti e carabinieri

Campobasso, è finito in carcere anche il comandante dell’Arma

Otto esponenti delle forze dell’ordine e un avvocato (ex carabiniere) sono stati arrestati in Molise per associazione per delinquere, truffa e rivelazione di segreti d’ufficio. L’inchiesta, denominata «black hole» ha portato alla luce un vero e proprio «corpo separato» nella sezione della polizia giudiziaria presso la procura di Larino, un piccolo centro in provincia di Campobasso.
Stando alle accuse, gli arrestati avrebbero favorito alcuni indagati di un’altra inchiesta, quella che ha smantellato i vertici della sanità nel Basso Molise. Le indagini avevano preso avvio nel 2003 dopo il ritrovamento di un’ecografo dell’ospedale di Termoli nello studio privato del primario di ginecologia, Patrizia De Palma (moglie dell’allora sindaco, Remo Di Giandomenico, ex deputato dell’Udc). La donna era stata arrestata insieme ad altre dieci persone e altre 23 erano state indagate, in attesa della richiesta di rinvio a giudizio. Fra gli arrestati, allora, era finito anche un manager dell’Asl. A vario titolo, le persone finite nell’inchiesta sulla malasanità sono accusate anche di sfruttamento dell’immigrazione clandestina e pratica di aborti illegali.
Nel proseguire l’inchiesta, il procuratore di Larino, Nicola Magrone, si sarebbe accorto che poliziotti e carabinieri, da lui incaricati di svolgere indagini, avrebbero agito rivelando sistematicamente i segreti d’ufficio e occultando alcune prove degli illeciti nelle gestione della sanità molisana. In pratica, poliziotti e carabinieri avrebbero costituito una vera e propria “lobby” che lavorava, «non alle dipendenze, ma contro la procura». Il gruppo di arrestati, secondo il procuratore, era capace «di far propri interi comparti istituzionali, occupandone i gangli vitali, dalla Asl al Comune di Termoli, ed estendendo le proprie infiltrazioni in variegati settori, dagli appalti alle assunzioni presso uffici pubblici».
L’arresto più clamoroso è quello di Maurizio Coppola, comandante provinciale dei carabinieri di Campobasso. L’ufficiale non se l’aspettava, a dimostrazione che l’inchiesta a suo carico è stata condotta con la massima discrezione. Infatti è stato sorpreso nel cortile della caserma mentre era intento a coltivare il suo hobby, quello di riparare automobili di “modernariato”. Con lui sono finiti in carcere l’ex comandante dei vigili urbani di Termoli, Ugo Scarretta; l’avvocato Ruggero Romanazzi (carabiniere fino ad alcuni anni fa ed ex difensore di Remo Di Giandomenico); Raffaele Esposto, già maresciallo dell’Arma; Luigi Soccio, appuntato scelto presso la stessa compagnia; Michele Tenaglia, sovrintendente della polizia alla procura di Larino e altri appartenenti alle forze dell’ordine. L’esecuzione dell’ordinanza, firmata dal Gip Roberto Veneziano, è stata affidata sempre a polizia e carabinieri, a dimostrazione della fiducia che la magistratura di Larino continua ad avere verso queste istituzioni.

da espresso.it

Molise

Prima di accingerVi a leggere i vari casi, pensate che si tratta di storie vere, per cui molti uomini sono morti e tante famiglie sono state distrutte dal dolore, senza ricevere alcuna tutela, da parte delle varie Autorità a cui fiduciosamente si erano rivolte. Pensate che non si tratta di casi isolati e non crediate che ciò che è capitato agli altri non possa, prima o poi, capitare, anche, a Voi od, a qualche stretto congiunto. Sarebbe il più grave errore che potreste commettere, dal quale genera l’indifferenza verso i mali della giustizia e su cui si fonda il dominio del male e della menzogna sulla Verità.